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Autore: Melanto    03/07/2010    7 recensioni
Ma cosa era davvero cominciato, Giuseppe non l’aveva mai capito o, forse, non aveva mai voluto comprenderlo perché a nessuno piaceva sentirsi usati. Andava tutto bene quando aveva bisogno di lui, della sua consolazione tra le lenzuola del suo letto, ma una volta fuori… nessuna pietà. Il Teorema di Ferradini funzionava anche nel suo caso in cui l’unico ad essere trattato male, alla fine, era solo lui, proprio il tenero amante.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Stella di Sabbia'
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PreNota: Ed ecco la terza storia della serie omonima "Stella di Sabbia". **
Devo dire che, tra tutte, è quella che mi soddisfa di più, quella che ho sentito di più mentre la scrivevo e quella che mi ha costretto a lavorarci in maniera compulsiva. Ovviamente, come d’uopo, al 99,99% è quella che piacerà meno ai lettori, perché funziona sempre così. XD E’ lapalissiano.
Non mi sarei mai aspettata di scrivere così tanto ed in così poco tempo su personaggi nati praticamente dal nulla, e devo dire che è stata una bella soddisfazione. **
In questa storia troverete alcune note, circa una decina ^^’’’, perché ci sono frasi in dialetto per cui, a pie’ pagina, ho messo la traduzione. XD Scusate, ma erano d’obbligo, dato il personaggio.

Ringraziamenti e tutto a fine storia! *_*/
Buona lettura.

Stella di Sabbia

 

«Arianna mi ha lasciato.»
Era cominciato tutto con quella frase, l’espressione distrutta e lo sguardo che non guardava da nessuna parte alle tre del mattino di un’estate di due anni prima.
Ma cosa era davvero cominciato, Giuseppe non l’aveva mai capito o, forse, non aveva mai voluto comprenderlo perché a nessuno piaceva sentirsi usati. Andava tutto bene quando aveva bisogno di lui, della sua consolazione tra le lenzuola del suo letto, ma una volta fuori… nessuna pietà. Il Teorema di Ferradini funzionava anche nel suo caso in cui l’unico ad essere trattato male, alla fine, era solo lui, proprio il tenero amante.
Ma se c’era una cosa che non era mai mancata a Giuseppe, quella era la pazienza, era cresciuto a mazz e’ panelle nel Rione Sanità[1], tra motorini usati come utilitarie e gente che urlava in continuazione, da balcone a balcone. Un luogo in cui, se si fosse venuto a sapere che gli piacevano gli uomini, avrebbe passato la vita tra sfottò più o meno pesanti, bollato come o’ ricchione.
E Giuseppe se n’era andato prima che la verità d’essere diverso finisse con lo schiacciare lui e la sua famiglia.
Il centro-nord era più aperto, da quel punto di vista, e la riviera romagnola gli era sembrata come la boccata d’aria fresca nei polmoni d’un carcerato.
Non ci aveva messo molto a trovare un lavoro, a Napoli aveva già fatto notevole esperienza come barista, ed in quel lido ne cercavano proprio uno, guarda caso. Il proprietario era rimasto entusiasta dal suo curriculum e, una volta all’opera, si era convinto del tutto.
Così era stato assunto allo Stella di Sabbia.
Così aveva conosciuto Giulio.
E così, suo malgrado, aveva conosciuto Massimiliano.
Era andato tutto bene, all’inizio. D’estate lavorava al lido e d’inverno era barman nel risto-pub di cui era proprietario il padrone dello Stella di Sabbia. Inoltre, aveva fatto amicizia con i suoi colleghi, sia quelli del lido che del Maamajomboo[2].
Giulio era un simpatico ragazzino, iperattivo e poco riflessivo, verso il quale, molto spesso, si comportava quasi come un fratello maggiore, più pacato ed esperto. Massimiliano, invece, prendeva sempre le cose poco seriamente, ogni scusa era buona per fare una battuta – anche se fuori luogo – e non si preoccupava mai di nulla. Inoltre, Max era suo collega anche al Maamajomboo, diversamente da Giulio che, d’inverno, era impegnato con l’università.
Andavano d’accordo, tutti e tre.
Sapere che Giulio era omosessuale come lui, poi, gli aveva dato quella sicurezza che gli era sempre mancata quando ancora si trovava a Napoli. Si era rilassato come non gli era mai capitato e sentito nel posto giusto, per una volta tanto. Lui si era sentito giusto, così com’era.
L’omosessualità sua e di Giulio non avevano mai creato problemi né al proprietario - “Mo ragassi, frega niente a chi lo date, insomma. Basta che lavoriate.” – né tantomeno a Max che era etero praticante, fidanzato da anni con Arianna-luce-dei-miei-occhi-gioia-del-mio-cuore-mio-filo-nel-labirinto-osanna-nell’alto-dei-cieli-ecc-ecc-ecc, stomachevole da fare schifo, certe volte, ma anche proprietario dei più bei capelli lunghi che Giuseppe avesse mai visto; i tratti marcati del viso ed il sorriso strafottente di chi sta sempre a prenderti per il culo: caratteristiche che gli piacevano tutte. Però era fidanzato, e i ragazzi già impegnati – soprattutto se etero, poi – per lui, di solito, cessavano di esistere.
Andava tutto bene. Sul serio. Tutto tranquillo.
Si scherzava in compagnia, si andava a bere qualcosa, aveva anche conosciuto la fantomatica Santa Arianna-amore-della-mia-vita.
Poi era arrivata quella sera di due anni prima.
Ci si era salutati come sempre, avevano chiuso il lido e si erano separati. Max aveva appuntamento con Arianna.
«Oh, Peppe! Domani ci dobbiamo assolutamente andare a bere qualcosa nel nuovo locale che hanno aperto in centro! Voglio proprio vedere se sono più bravi di te!» gli aveva detto. Una pacca sulla spalla e via, la coda di cavallo gli spazzolava le scapole ad ogni movimento.
«Certo, nessun problema.» aveva replicato, e poi s’era incamminato al lato opposto della strada. Era stato fuori con alcuni amici ed aveva fatto più tardi del solito, visto che la sveglia, il giorno dopo, sarebbe suonata lo stesso alle sette.
Alle tre era sotto casa. Se si fosse sforzato, Giuseppe ricorderebbe ancora il tintinnare delle chiavi tirate fuori dalla tasca mentre saliva le scale ed il mezzo spavento nello scorgere un’ombra seduta davanti la sua porta di casa.
«Chi c’è? Se cerchi qualcosa, o’ fra’[3], hai sbagliato persona.» aveva rimbrottato, calcando sulla cadenza napoletana del suo dialetto. Di solito, quando la usava, la gente che cercava rogna si teneva alla larga. Era un buon deterrente, dopotutto. Aveva fatto scattare la tenue luce delle scale e aveva trovato Max, la faccia nelle mani, i capelli sciolti serpeggianti sulle spalle e tra le dita.
«Massimì? Che diavolo stai-»
«Arianna mi ha lasciato.»
Aveva creduto che stesse scherzando. Sul serio. Aveva creduto che di lì a qualche attimo avrebbe detto: “Ah-a! C’hai creduto?!” e sarebbe scoppiato a ridere, facendosi mandare sonoramente a fanculo.
Ma quando Max aveva alzato la testa, la scia delle lacrime aveva brillato come una traccia d’argento. Era stata la prima volta che l’aveva visto piangere. Max non lo faceva mai, rideva e basta, era il tipico ‘uomo che non deve chiedere mai’, ma in quel momento gli era sembrato non aver assolutamente nulla da chiedere, semmai da supplicare.
«Vieni dentro, forza.» gli aveva detto in tono più basso, stringendogli la spalla in una mano nel passargli accanto e raggiungere il pianerottolo. Pochi momenti dopo erano nel salotto di Giuseppe, seduti in quel divano vecchissimo appartenuto all’ex-affittuario e che si era tenuto perché, boh, gli sapeva di vissuto e dava quasi una storia a quella casa.
Max era tornato a nascondersi il viso tra le mani e aveva preso a parlare. Il suono ovattato della voce l’aveva raggiunto ugualmente, facendolo restare di sasso davanti l’intera vicenda.
«Ha detto che non è più sicura di amarmi come prima. Ha detto che sta passando un periodo di incertezze, che la sua vita non la soddisfa e ha voglia di cambiamenti. Ha detto che forse è meglio non vedersi per un po’, boh, pausa di riflessione o non so come cazzo l’ha chiamata.»
Vederlo così, in uno stato di totale prostrazione, gli aveva fatto male; un dolore sottile come quello d’uno spillo e gli spilli erano tanti, e gli avevano infilzato il cuore.
«Ma… ma io che ho fatto, Peppe? Dove ho sbagliato?»
Lui gli aveva passato il braccio attorno alle spalle, scuotendolo un po’. «Ma non c’entri niente tu, Max. A volte capita che si perda un po’ la bussola. Dalle tempo.»
«Dopo tutti questi anni… perché?...»
Senza alcuna malizia, se l’era tirato addosso e Massimiliano aveva nascosto il viso nel suo collo, stavolta, assieme ai ricci scuri, mentre lui gli aveva preso a carezzare la schiena.
«Non è che debba esistere per forza un perché, Massimì. A volte le cose capitano e basta. Sono sicuro che nemmeno lei lo pensa davvero, abbi fede. È solo un momento così.» le parole giuste al momento giusto, come sempre, e Max l’aveva abbracciato, tirandolo giù sul divano. In silenzio, aveva ripreso a piangere, Giuseppe se n’era accorto da come lo stringeva, era stato un abbraccio forte in cui si stava sforzando di trattenere la frustrazione. Lui, allora, aveva taciuto, facendo semplicemente l’amico consolatore e l’aveva lasciato sfogare. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo erano rimasti così, minuti o addirittura ore. Il corpo di Max disteso sopra al suo, la mano che scivolava lentamente dal collo a metà schiena e viceversa.
«Che farò se non cambierà idea?» aveva poi domandato il cassiere, rompendo il silenzio. Il fiato contro il collo gli aveva fatto il solletico.
Giuseppe aveva abbozzato un sorriso per prenderlo in giro. «Visto che le donne sono tutte un po’ lunatiche, potresti passare all’altra sponda.»
Davvero, l’aveva detto solo per scherzare senza nessuna intenzione di sedurlo.
Max non aveva risposto subito e lui aveva seguitato col suo scherzo, ridacchiando.
«Fidati, siamo più comprensivi. E poi si è tra maschi, chi meglio di noi può capirci?»
Massimiliano s’era sollevato adagio quel tanto che bastava per avere i visi alla stessa altezza ed incatenare gli sguardi.
Giuseppe aveva continuato a sorridere, ma sul volto di Max era aleggiata un’espressione diversa ed il suo sorriso, nel fissare quegli occhi nocciola così intensi, così vicini, era scemato a poco a poco.
«Più… comprensivi…» ed il fiato del giovane gli aveva sfiorato le labbra, facendolo restare muto, la gola secca ed il formicolio dell’eccitazione che era scivolato verso il ventre. «Forse è vero…» aveva continuato Max. «…tu lo sei sempre con me.»
Aveva schiuso le labbra per replicare, nemmeno lui sapeva cosa, e si era trovato in contatto con quelle di Max. Gli era girata la testa; l’intera stanza aveva preso a vorticare velocemente come una giostra impazzita, ed era rimasto immobile ad assaporare quello che era stato un bacio a tutti gli effetti. Le sue labbra avevano giocato con quelle che mai avrebbe creduto di avere, un giorno, ma che ogni tanto s’era trovato a fissare con interesse dandosi del cretino subito dopo. Poi, aveva finalmente contrastato la vertigine; il senso di responsabilità aveva vinto sull’istinto, che gli diceva tutt’altro, e aveva cercato di allontanarlo perché, davvero, era sicuro che Max fosse solo troppo confuso in quel momento, ma l’altro non gliel’aveva permesso. Gli aveva afferrato i polsi impedendogli ogni movimento ed il gioco era divenuto qualcosa di più. Si erano esplorati, le lingue s’erano toccate, accarezzate ed aveva cominciato a sentire i pantaloni terribilmente stretti. La parte razionale s’era spenta definitivamente quando Massimiliano s’era sollevato meglio su di lui e aveva continuato a fissarlo con quegli occhi strani, quella luce che non riusciva a capire, mentre i suoi erano stravolti ed il leggero affanno non era affatto sintomo di fatica. S’erano guardati, di nuovo, con intensità e Max l’aveva baciato ancora, questa volta con passione crescente; gli aveva stretto le mani, si era steso meglio su di lui e le gambe s’erano trovate intrecciate in un incastro perfetto. E poi erano state labbra sul collo, lingua su pelle, bacino contro bacino ed il sentire l’eccitazione dura contro la sua gli aveva letteralmente ammazzato anche l’ultima idea di terminare quello che stava succedendo.
La loro prima volta insieme era stata così.
Un aversi incontrollabile alimentato dalla frenesia della scoperta, da parte di Max, e quella del desiderio puro da parte di Giuseppe. Quest’ultimo lo aveva educato, toccato con cura come fosse stato di vetro, l’aveva preparato e l’aveva fatto suo. Massimiliano s’era inarcato, pervaso da un’emozione che non aveva mai sentito prima, l’aveva stretto, baciato ancora ed era venuto nelle sue mani, mentre l’accoglieva dentro di sé.
La follia d’un sogno.
E il risveglio d’un incubo.
Come ogni parabola aveva un culmine, il nuovo sole aveva portato la discesa di quella perfezione impensabile.
Giuseppe s’era risvegliato da solo, nel letto, e nemmeno ricordava come c’era arrivato.
Max l’aveva atteso seduto sul divano, le mani intrecciate sotto al naso e lo sguardo che cercava di nascondere quanto dentro si sentisse sconvolto.
«Non è successo niente. È stato… è stato il momento particolare, io ero a terra e tu… tu mi eri vicino.» era stato tutto quello che aveva avuto il coraggio di dirgli, un misero tentativo di giustificazione, perché era spaventato, Giuseppe l’aveva capito. E non aveva replicato. «Ci comporteremo come sempre. Amici come prima. Non è successo niente e non è cambiato niente.» aveva continuato a ripetere Max, lo sguardo fisso al pavimento.
Quelle parole, Giuseppe aveva finito con l’impararle a memoria, per tutte le volte che Massimiliano le tirava fuori dopo che erano finiti nuovamente a letto, ed il suo cuore perdeva un nuovo pezzo quando le sentiva, quando diceva che non sarebbe capitato più, mai più, mentendo spudoratamente.
E Max avrebbe davvero voluto spezzare quella catena, perché lo stava facendo diventare pazzo, ma ogni volta che Arianna gli sbatteva la porta in faccia era da Giuseppe che andava. Dalle sue braccia e dalla sua bocca, da quelle attenzioni che lo facevano sentire importante per qualcuno, amato, ed il dolore della porta chiusa si leniva a poco a poco fino a non fare più male, fino a non essere più così importante. Arianna? Arianna chi? Fino a perdere ciò che era stato e ritrovare ciò che era davvero. Ma dopo l’amore tutto ritornava indietro, si confondeva e cambiava ancora, come le dune modificate dal vento; spostate un po’ più in là.
Massimiliano tornava ad essere l’etero sparacazzate che non prendeva mai le cose sul serio e Giuseppe tornava il suo collega di tutti i giorni, l’amico fidato e compagno di battute.
Puntualmente, strisciante come il verme che era, Massimiliano tornava ad essere il fidanzato di Arianna che, magnanima, indecisa o solo stronza quanto e più di lui gli concedeva quel «Riproviamo.» cui lui rispondeva sempre «Sì.»
E Giuseppe vedeva tutto questo passare sopra e sotto la sua pelle, dentro il suo cuore che era tornato a fingere come quando aveva lasciato la Campania per la Romagna. Era un passo di gambero su una spiaggia infinita. Ma lui era stanco di guadagnare traguardi e poi tornare indietro, di assaporare la libertà e poi tornare in gabbia. Era stanco di sentirsi usato, un ripiego. Era stanco e Massimiliano l’avrebbe imparato a sue spese.

*

Il cancello dello Stella di Sabbia venne chiuso con doppia mandata, una volta che furono fuori.
«Di sicuro, ha qualcosa in mente.» esclamò d’un tratto Max, mettendo via le chiavi del lido. «Stando con voi ho sviluppato una sorta di gay radar – non l’avrei mai detto – ed ho visto come Giulietto abbia adocchiato il tipo, lì, vestito di bianco.»
Giuseppe inarcò un sopracciglio. Si erano appena separati dal loro collega più giovane, che aveva stranamente rifiutato una bevuta in compagnia in favore d’un po’ di riposo. «Il gay radar, eh?»
«Sì! Secondo me, quello ci sta.» la mancanza di tatto in Max era una cosa risaputa, così come il suo parlare a vanvera, proprio come in quel momento, che rapportava tutto – i sentimenti, i dubbi ed i tentennamenti di Giulio di cui anche lui si era accorto – ad una semplice e banale scopata. Giuseppe sospirò, come pretendere di più da lui?
Eppure, ignorava come Max si rendesse perfettamente conto delle cazzate che diceva e di come si sforzasse per dirle, perché ogni cosa doveva restare uguale, perché non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi come faceva un tempo. Perché Giuseppe era il Mediterraneo, in quelle iridi verdi come gli ulivi e la pelle scura, baciata dal sole; era il profumo dei limoni della Costiera, perso tra i suoi riccioli, e una mascolinità che gli prendeva a pugni lo stomaco, ma accendeva il desiderio. Avrebbe finito col contraddirsi, se si fosse comportato come sempre con lui, e non avrebbe saputo affrontarlo. Così, seguitava a fare l’idiota, tanto lo era sempre stato, no? Andava bene così.
«Senti, stasera non ho voglia di andare a bere, anche perché il capo mi ha chiamato per degli straordinari al Maamajomboo.» esordì Giuseppe, dando una rapida occhiata all’orologio; aveva ancora un paio d’ore prima di andare al locale e gli facevano comodo per farsi una doccia e rendersi presentabile.
Max diede fondo a tutta la sua teatralità, cominciando a gesticolare animatamente. «Ma no, Peppe! Mi dai buca?! Bell’amico sei!»
La frecciata che gli lanciò in risposta, si rese conto che lo colpì ed affondò. «Hai sempre la tua ragazza a cui chiedere compagnia. Tanto non vi siete lasciati di nuovo, me ne sarei accorto.»
Max tacque per una pausa più lunga del solito, negli occhi balenò un guizzo doloroso, quasi senso di colpa. Che miracolo, allora ne provava anche lui? Ma la scoperta fu di breve durata, perché riprese il suo stupido atteggiamento di sempre.
«Sì, ma che c’entra? Bere tra maschi è diverso che con la moglie al seguito, no?» gli volse le spalle, agitando una mano. «Ah, questa me la lego al dito, eh! Sono offeso! Ci vediamo domani, fratè.» ogni tanto si divertiva ad usare i termini in dialetto che sentiva da lui, perché il napoletano aveva sempre divertito Massimiliano e quando Giuseppe e Giulio, che aveva retaggio campano, si mettevano a parlare in dialetto, lui stava sempre lì a tenersi la pancia dalle risate.
«A domani.» fece eco Giuseppe, osservandolo andare via ancora per qualche altro momento, mentre l’ostentata indifferenza, lo scherzare a tutti i costi e fingere che ogni cosa fosse assolutamente normale lo ferì per l’ennesima volta, perché era convinto che a star male fosse solo lui.
Ma ignorava come Max, una volta scomparso all’interno della sua auto, rimanesse stretto contro lo schienale del seggiolino per un tempo infinito, gli occhi fissi al volante senza nemmeno vederlo e le labbra incurvate verso il basso a ripetersi che non poteva andare avanti così, che era tutto sbagliato, tutto, ogni singola azione o parola che usciva dalle loro bocche ed animava i loro corpi. Si passò una mano sul viso, il senso di nausea gli afferrò lo stomaco con forza, torcendoglielo senza pietà. Ma era così che doveva andare, si disse Massimiliano per l’ennesima volta, solo così, non poteva essere diversamente. Non era mica gay, no? Era etero, amava Arianna però…
…però scopava regolarmente con un uomo appena la sua amata gli spezzava il cuore.
E tutto questo, dopo due anni, non aveva più niente di normale, non aveva più un senso accettabile e gli faceva paura perché non sapeva più cosa fare.
Amava davvero Arianna?
Quella domanda comparve e si dissolse come un lampo, cavalcando i suoi pensieri. Max drizzò la schiena, sbarrando gli occhi. La nausea che saliva e gli sembrò di essere sul punto di vomitare, ma non lo fece. Respirò a fondo ripetendosi che sì, amava Arianna, certo. Non doveva dubitarne affatto. Anzi, adesso sarebbe andato da lei, come tutte le sere, e le avrebbe dimostrato il suo amore regalandole una intensa notte di passione in cui l’avrebbe fatta sentire la vera Regina del suo cuore. Sarebbe stato tutto perfetto.

Tenersi impegnato era ciò che gli piaceva fare di più.
Lavorare fino a smettere di pensare a tutto il resto e al Maamajomboo riusciva benissimo ad estraniarsi dalla vita privata per dedicarsi solo a quella professionale. Non c’era tantissima gente come d’inverno, la maggior parte preferiva andare ai bar sul lungo mare o dei lidi, che diventavano piccole discoteche all’aperto, ma quella sera, che il capo aveva organizzato una serata a tema, aveva ugualmente fatto il pienone e per lui, al banco, era un viavai continuo. Un aggirarsi frenetico tra bottiglie e bicchieri che scivolavano sul liscio ripiano e mani che li agguantavano, emergendo tra la folla.
Le ordinazioni piovevano a raffica.
Caipirinha, Caipiroska, Angelo Azzurro, Invisibile, Bronx, Manhattan, Bloody Mary.
E lui faceva ruotare le bottiglie nella mano con l’abilità di chi non avrebbe mai fatto caderne una goccia.
La camicia nera aderiva al torace muscoloso e dall’abbronzatura perfetta. Le braccia s’attiravano gli sguardi ammirati di molte ragazze che andavano ad ordinare e gli lanciavano sorrisi provocanti cui rispondeva per cordialità, ma che gli scivolavano addosso come acqua su un impermeabile. La croce d’acciaio stringeva la gola col laccio nero di caucciù e si muoveva assieme a lui a ritmo di musica. I riccioli erano tenuti indietro da un cerchietto nero sottilissimo.
«Uno spettacolo.» l’aveva definito una di quelle ragazzine che, nemmeno maggiorenni, avevano di sicuro più esperienze di lui, e gli era scappato da ridere, distendendo le labbra dai contorni ben definiti.
Lavorò senza fermarsi un momento e nemmeno pensava più alla superficialità di Massimiliano, la sua indifferenza ed il suo modo di fingere che andasse tutto perfettamente. Che non si fossero mai toccati più di una amichevole pacca sulla spalla, che non avessero mai fatto sesso in quei due anni, che non si fossero mai baciati, che non l’avesse consolato, che non gli avesse stretto proprio quei riccioli dicendogli di essere meraviglioso.
All’una e mezza staccò come accordato col capo – perché il mattino successivo avrebbe dovuto lavorare al lido – e lasciò il Maamajomboo.
Seduto a terra, accanto alla ruota anteriore della sua macchina trovò Max.
«Sai quanti cani c’avranno pisciato?» esordì dopo un attimo di smarrimento puro, perché riconoscere quella sagoma lì per terra, dove i lampioni faticavano ad arrivare, gli aveva fatto trattenere il respiro.
«Già, chissà.»
Quando faceva eco in quel modo apatico e distante, il motivo poteva essere solo uno e Giuseppe avvertì un’unghia gelida graffiargli la schiena lentamente ed in maniera dolorosa.
«T’ha piantato?» disse senza mezzi termini.
Massimiliano gli rivolse la trequarti, guardandolo dal basso verso l’alto; i capelli, legati con una mezza coda, aggiravano ambedue i lati del collo, per assopirsi poco oltre le clavicole. Quell’aria abbattuta sul sorriso strafottente lo rendeva assolutamente sexy, ma di sicuro non riusciva a comprendere l’effetto che gli faceva e quanto ci stesse male per questo, per quel suo essere così faccia di bronzo all’apparenza, ma bisognoso d’affetto in fondo al cuore. E dannatamente egoista.
«Quanto bene mi conosci, mh?» scherzò Max senza troppa verve e gli venne quasi da rispondere: - E tu quanto poco conosci me? -, ma lo tenne per sé, come sempre aveva fatto e continuava a fare.
In fondo, era la facciata che voleva no? E allora era arrivato il momento di ripetere la solita recita.
«Dai, alzati, andiamo a casa.»
Massimiliano obbedì, allungando una mano verso di lui. Aiuto, l’ennesimo, anche per simili banalità, ma gli sorrideva e a Giuseppe si fermò il cuore. Meccanicamente gliela strinse e lo tirò su. L’attimo dopo erano già sulla strada che conduceva all’appartamento del barista.
«Avanti, che è successo a ‘sto giro[4]?» chiese, mentre entravano nell’appartamento. Max si buttò sul divano come un peso morto.
«Il solito.» minimizzò. «Ero andato con tutte le migliori intenzioni, credevo che il nostro periodo di tregua stesse andando bene. Ma come sempre finisce tutto in malora alla prima incomprensione. M’ha detto che le stavo troppo addosso… ma so che non è così! Le sto lasciando tanto di quello spazio libero che ormai sembra non averne più per me!» e non era vero. Tutto era cominciato perché… non era riuscito a fare l’amore con lei. A renderla la Regina del suo cuore come si era prefissato, a farle vedere quanto la amasse. Era stato inutile. Il suo corpo, proprio il suo!, s’era rifiutato e l’aveva tradito come il peggiore dei Giuda, quello che non ti aspetteresti mai. Lei aveva cominciato ad innervosirsi, a tirare in mezzo altre donne inesistenti. Lui aveva negato. Lei gli aveva detto che era un bugiardo. Lui aveva detto che lo stava soffocando con le sue idiozie. Lei l’aveva cacciato. “E’ finita!” aveva gridato ancora, per l’ennesima volta.
E lui era andato dall’unica persona che non avrebbe dovuto raggiungere, ma era stato più forte di lui; lo era sempre. Era una necessità imprescindibile, un bisogno impellente. Andare da Giuseppe, rifugiarsi da lui. Vederlo. Lui che era i trenta denari per cui il suo corpo s’era venduto.
«Marònna. Vi comportate come foste due ragazzini, ma perché non imparate ad affrontare le situazioni invece di dire ‘Ti lascio!’, quasi che fosse la parolina magica?! Crescete, santoddio.» sbuffò Giuseppe e lo sguardo di Max si fermò su di lui, divorandolo pezzo per pezzo. Risalì le cosce, strette nei pantaloni in tessuto dal taglio classico, e la camicia che gli disegnava il corpo. Si impose di non pensare quanto fosse bello, quanto lo eccitasse nonostante avesse dovuto avere il cuore a pezzi per l’ennesima rottura, ma ogni parte di lui, ogni singolo atomo era concentrato solo su Giuseppe e nient’altro.
Quest’ultimo si irrigidì.
Conosceva quello sguardo di Max, quella luce che gli brillava gli occhi. L’aveva imparata in quei due anni e non avrebbe mai saputo confonderla con altro. Stava per ricominciare il solito gioco al massacro e lui sentì le viscere torcersi per il disgusto. Non era disposto a cedere, questa volta.
Max abbozzò un sorriso, di nuovo il senso di colpa a velargli le iridi nocciola chiaro. «Sì, forse hai ragione.»
«Senza ‘forse’
Il sorriso s’accentuò. «Dovrei smetterla di venire sempre qui a piangere da te. Dopo un po’ deve essere una gran seccatura.»
Giuseppe inarcò un sopracciglio, non sapendo bene cosa rispondergli di preciso perché avrebbe finito col calcare terreni pericolosi in cui avrebbero dovuto parlare davvero anche loro. Stancamente, si sedette accanto a lui sul divano, passandosi una mano sul viso e appoggiando il braccio sul bordo della spalliera.
«E allora? Che vuoi fare? Dormi qui?» gli seccava chiedergli quell’ultima cosa, doveva ammetterlo, ma era troppo uno stupido stronzo per dirgli di andarsene a casa. Forse sarebbe stato meglio se l’avesse fatto.
Massimiliano gli poggiò una mano sul ginocchio e quello non gli piacque. Era sempre così che cominciava quando non era ridotto troppo male.
«Posso?»
«Che razza di domande fai? Lo fai sempre, ti fai venire solo adesso i dubbi?»
La mano scivolò dal ginocchio alla coscia. Giuseppe la bloccò prima che andasse oltre. Lo guardò con occhi gelidi. «Ho detto ‘dormire’, Max.»
Massimiliano s’avvicinò. Il corpo pagava ancora per tradirlo e fare di testa sua. Succedeva sempre quando si avvicinava troppo a lui, come ogni sera che lo cercava per piangersi addosso.
«Ho sentito.»
La voce era calda e morbida, le iridi ignorarono l’avvertimento delle sue, la bocca lo baciò e lui cadde nella rete. E lo voleva subito, Max, Giuseppe lo capiva da come gli mordeva le labbra e poi le lambiva vorace; la mano vinse la forza che la teneva ferma e gli scivolò tra le gambe. Il corpo rispondeva a quel tocco rude a quello stringere da sopra i pantaloni per sentirlo.
E Max era completamente rapito da quella parte di lui di cui rifiutava l’esistenza, quella parte che gli urlava la bellezza di Giuseppe e la pace che provava quando si trovavano insieme. La facciata che mostrava in tutti gli altri momenti era stata messa a dormire per poi svegliarsi una volta che tutto fosse finito, che l’attimo di follia che puntualmente lo coglieva si fosse esaurito, facendolo rinsavire. Ma ora c’era l’altro Max a dettare le regole, e l’altro Max impazziva per quella bocca carnosa e quegli occhi verdi. L’altra mano scivolava sul suo corpo, poteva sentirne le forme sotto le dita.
«Sme… smettila.»
Massimiliano non la sentì nemmeno quella richiesta, sordo, preso solo da sé stesso e l’eccitazione che gli pulsava tra le gambe e gli faceva male.
«Smettila, Max, vedi di piantarla.»
Di nuovo, un secondo tentativo, ma lui non udiva niente e sentendosi ignorare Giuseppe tornò ad essere il ferreo padrone di sé stesso. Nella maniera peggiore possibile.
«Ti ho detto di smetterla!» gli abbaiò contro, allontanandolo in malo modo. Massimiliano si ritrovò stretto all’altra parte del divano vecchio e stravecchio; incredulità sul viso. Lo sguardo che Giuseppe gli stava rivolgendo era pietra, purissima e dura. «Non capisci l’italiano, forse? O sei solo troppo coglione? Possibile che tu non abbia un minimo di palle? Basta che Arianna ti molli e corri subito qui, ad usarmi come se fossi un… un fottuto ripiego del cazzo!» afferrò la prima cosa che trovò sotto mano – un cuscino rosso che gli aveva regalato Giulio – e lo lanciò via con rabbia. «Ma co’ chi cazzo crire ‘e parlà?[5]»
Max lo sapeva che quando Giuseppe urlava in dialetto, significava che era fuori dalla Grazia di Dio ed al limite della sua pazienza. Oltre il limite. E sapeva pure che spegneva il cervello e cominciava ad inveire come un cane feroce, digrignante i denti. Ma, soprattutto, sapeva che tutte le volte che questo avveniva era perché aveva profondamente ragione.
«Peppe, io-»
«No! Peppe s’è rutto ‘o cazzo[6]! È stanco! Stanco di te che vieni qui e fai i tuoi porci comodi! Stanco di non venire considerato, come se i suoi sentimenti non valessero niente, non esistessero nemmeno! Ma come credi che stia, io, che dopo avermi fottuto te ne torni da lei con la coda tra le gambe?! E lei?! La ami, la adori… ma appena ti molla le metti le corna come se niente fosse! Due anni che jamm’ annanzi accussì! Doje ann ‘e ‘nfierno![7]» s’alzò in piedi di scatto, spalancando la porta d’ingresso con foga e collera. I ricci scuri sembravano le serpi della Gorgone. «Mi fai schifo, Massimilià! Si’ n’ommo ‘e mmerda! E ora vatténne![8]»
Max gelò.
Lo stava mettendo alla porta? lo stava facendo davvero? Chiuderlo fuori… cacciarlo via…
«Giusè fammi almeno-»
Ma Giuseppe non aveva più nulla da ascoltare né voleva farlo, non in quel momento, in cui la rabbia l’aveva accecato del tutto e reso prigioniero di una collera feroce. Se Max fosse rimasto un altro attimo ancora, l’avrebbe riempito di botte. E visto che non voleva arrivare a tanto, lo raggiunse in rapidi passi, afferrandolo malamente per il braccio. Lo strattonò, continuando ad inveire e lo sbatté fuori.
«T’aggio ritto[9] che devi andartene! Vattene! Vattene via!»
La porta venne chiusa con un botto secco alle sue spalle e Massimiliano riuscì a rimanere in equilibrio nonostante la spinta. Al tonfo si volse, mentre ormai solo il buio avvolgeva il pianerottolo, ma nell’ombra la sagoma della porta chiusa era netta come fosse inondata di luce e sentì dolorosamente lo stomaco che veniva stritolato da una morsa invisibile, una presa d’acciaio che stringeva, stringeva e non voleva fermarsi.
Giuseppe l’aveva chiuso fuori.
Quello che egoisticamente era diventato il rifugio ai suoi dolori non esisteva più. Era stato cacciato via perché sì, era davvero un uomo di merda. A poco a poco, con una lentezza massacrante, lo stava capendo anche lui, mentre strisciava lungo le scale, un gradino alla volta, tenendosi stretto al muro. Stava capendo ogni cosa ad ogni nuovo passo, ad ogni stretta di stomaco e quello che scopriva gli faceva schifo come mai prima d’ora. Come aveva potuto andare avanti così per due anni? Dio mio, due anni. Che razza di uomo era? Era davvero un uomo, dopotutto? O valeva meno della merda d’un cane?
Massimiliano uscì dall’edificio, tenendosi ancora al muro e seguendone fedelmente il perimetro. L’odore di mare lo nauseò del tutto, s’appoggiò al cemento e vomitò.

*

Giulio lo guardò di sottecchi svariate volte, mentre lo vedeva seduto al suo posto di lavoro: l’aria di chi non aveva dormito affatto; il viso stanco, appoggiato in una mano, e le dita dell’altra che ticchettavano sempre lo stesso tasto del registratore di cassa.
Durante il giorno, perso in pensieri lontani anni luce dalla realtà del lido, Massimiliano aveva battuto scontrini assurdi: un caffè da 9999999999990.80€, per esempio, ed il signor Mastrogiacomo aveva riso di gusto, dicendo che la crisi aveva subito un’impennata incredibile.
Era andato avanti così, vittima di un’apatia totale; se gli si chiedeva qualsiasi cosa fissava l’interlocutore per minuti interi senza rispondere, poi, le parole sembravano raggiungere i suoi neuroni perduti nel vuoto che regnava nel cervello e rispondeva. Che rispondesse cose che non c’entravano niente, poi, era un altro discorso.
Nel pomeriggio inoltrato, mentre preparava la solita Caipiroska delle 18, Giulio si decise a porre la domanda. Massimiliano sembrava una mummia, gli mancavano solo le bende e sarebbe stata perfetta per un sarcofago.
«Si può sapere che hai?» esordì, tagliando cubetti di lime.
Il dito continuava a pigiare il solito tasto.
«Mh.» mugugnò dopo qualche secondo di ritardo.
Giulio non demorse.
«Giuseppe oggi s’è preso un giorno di ferie. Tu ne sai niente?»
Il dito saltò un ‘tac’, rimanendo sospeso a mezz’aria, poi riprese. Per il barista fu un ‘sì’.
«E’ successo qualcosa di grave?»
Altro ‘tac’ saltato, un ‘sì’, ancora. Poi finalmente parlò.
«Che cosa devo fare, Giulio?»
L’interloquito avvertì nettamente la sofferenza in quelle poche parole, in quella richiesta di consiglio cui non sapeva davvero come rispondere, perché ignorava, nei fatti, cosa fosse accaduto tra lui e Giuseppe. Perché era sicuramente qualcosa di importante e poi non era cieco e, per quanto Peppe lo nascondesse in maniera quasi perfetta dovuta ad anni di pratica, l’aveva capito che qualcosa lo legava a Max da un bel po’. Ma sapeva come il cassiere fosse etero e fidanzato, anche se con Arianna ultimamente andava a singhiozzi. Lui sapeva smozzichi e cose non dette, occhiate, finte battute e silenzi pesanti che a volte coglieva quando tornava dopo aver servito in spiaggia e nel bar c’erano solo loro due.
Giulio sospirò.
«Io non so cosa è successo e so che non sei ancora pronto per parlarne con qualcuno che non sia il diretto interessato, però una cosa posso dirtela: se è una scelta quella che devi compiere, allora vedi cosa ti dice il cuore. Ascoltalo attentamente e scegli. Il resto, non avrà più importanza.»
Il cuore.
Giulio era troppo romantico, certe volte, secondo Max e lui non era mai stato romantico con nessuno che non fosse una donna. Ma con un uomo? Valeva pensare allo stesso modo? Farsi consigliare dal proprio cuore? Il suo cuore valeva quanto una moneta bucata, in fin dei conti, quanto poteva fidarsi di lui?
Al bancone, Giulio aveva finito e Massimiliano colse la nota di soddisfazione e cura che aveva messo nel preparare quella Caipiroska. Più cura del solito, sì. Gli vide mettere il tumbler sul vassoio e lasciare il bar. Lentamente, anche lui si mosse. Era tutto il giorno che restava inchiodato sul cavolo di sgabello a battere scontrini senza senso. S’avvicinò alla porta, appoggiandosi contro lo stipite, e seguì Giulio con gli occhi. Ovviamente, il drink preparato alla perfezione era per il famoso tizio in bianco che arrivava sempre puntuale, ma stavolta s’accorse che tra loro c’era qualcosa di diverso. Sguardi complici, dei sorrisi brillanti come stelle e dolci come miele. Un fugace sfiorarsi di mani mentre gli passava il bicchiere. E Giulio che si sedeva sul tavolino – cosa che non faceva mai – per intrattenersi con lui, tanto era rimasta pochissima gente in spiaggia e sulla rotonda. Parlavano affabilmente, uniti. Gli venne da sorridere: allora aveva visto giusto, ci aveva provato con il biondino e gli era andata bene.
Poi una fitta gli trapassò il cuore e le labbra assunsero una piega amara.
Che stronzo che era a parlare in quel modo e a ridurre il tutto con superficialità. Non era affatto così che funzionava tra due persone che si volevano bene e non importava se fossero due maschi o un uomo e una donna. Lui era stato superficiale con Giuseppe, e l’aveva usato in maniera orribile, senza lasciargli un minimo di dignità.
Fissò ancora Giulio e il suo… come avrebbe dovuto chiamarlo? Amico? Fidanzato? Amante?
Amore.
Era così semplice.
E allora perché lui aveva fatto in modo che divenisse tutto complicato e doloroso?
Perché era un idiota.
E cosa voleva veramente, da stupido idiota quale era?
Cosa gli diceva quel cuore da due soldi che continuava a fare male da due anni? Un dolore al quale aveva finito per assuefarsi e che poi era esploso, forte come un colpo di pistola, la notte prima.
Cosa gli stava dicendo da secondi, minuti, ore, giorni? In tutti i tira e molla con Arianna, cosa tentava disperatamente di fargli capire?
Forse che nulla importava se non stare con lui?
Forse che gli mancava e gli era sempre mancato in ogni attimo che era rimasto con lei?
Forse che voleva piangere per quanto era stato egoista, cieco e vigliacco?
Forse sì, forse era proprio tutto questo che aveva cercato di fargli capire nel corso del tempo.
E allora, ora che aveva capito, se fosse stato più attento e in silenzio, avrebbe anche scoperto cosa avrebbe dovuto fare. Doveva semplicemente ascoltare il suo cuore e quest’ultimo era divenuto impossibile da ignorare.
Con un passo più deciso, si diresse nuovamente verso la cassa quando sentì la suoneria del cellulare provenire da sotto banco. Lesse rapidamente il display e, per un attimo, rimase a fissarlo con un sopracciglio inarcato, le labbra tese ed un’espressione consapevole sul viso.
«Arianna?» rispose con voce ferma. All’altro capo, la sentì parlare e, conoscendo ogni suo tono, si rese conto che aveva pianto. La sua espressione non variò d’una sfumatura. «Sì, anche io devo parlarti.»

*

Aveva chiamato il capo quella mattina presto dicendo che non si sentiva bene, che aveva preso un colpo di freddo, un raffreddore, niente di che, ma era meglio rimanere a casa e non rischiare di ritrovarsi con la febbre.
Il capo non aveva avuto nulla da ridire, visto che era sempre puntualissimo e che doveva stare davvero male per essere arrivato a chiedergli un giorno.
Ed era vero.
Si sentiva uno straccio, ma non era un’influenza né un’altra semplice banalità che avrebbe potuto curare con un’aspirina.
Era il cuore ad essere a pezzi, piccoli come granelli di sabbia e sparsi tra altrettanti, impossibile da rimettere in piedi e sperare di farlo tornare come prima.
Da quando l’aveva cacciato, era rimasto seduto su quel divano a fissare la porta chiusa. Arrivare al capolinea era micidiale, per tutti. O forse, come sempre, a soffrire era ancora una volta solo lui? Lui che quella porta gliel’aveva sbattuta in faccia e già ne sentiva la mancanza, lui che aveva alzato la voce e gli aveva detto di essere un uomo di merda. Di fargli schifo. Stavolta non si sarebbe più potuto fare finta di niente e questo avrebbe creato problemi al lavoro, lo sapeva, ma non sapeva che fare e sinceramente nemmeno gli importava, in quel momento. Doveva solo restare rintanato nel suo angolo di mondo per riuscire a recuperare un po’ della lucidità perduta e… poi avrebbe visto il da farsi. Forse avrebbe dovuto licenziarsi.
Stancamente, Giuseppe si passò una mano sul viso, reclinando il capo all’indietro contro la spalliera del divano e guardando il soffitto. Che pirla era stato a mischiare amore e lavoro. S’era sempre detto che le cose avrebbero dovuto restare separate, proprio per non creare problemi e rischiare di perdere la serietà. Era stato uno stupido e aveva sbagliato.
E Max…
Chissà cosa stava facendo…
Ma si redarguì subito per averci pensato, per aver pensato a lui ed essersi preoccupato per lui, ancora una volta.
Il trillare del campanello lo fece sobbalzare e fargli perdere un battito. Non si aspettava visite e la prima persona che gli venne in mente fu Giulio. Ormai il lido dovevano averlo chiuso e forse era passato per assicurarsi che stesse bene. Magari aveva anche provato a chiamarlo sul cellulare, ma l’aveva spento una volta che aveva cacciato Massimiliano di casa e aveva messo il fisso fuori posto dopo aver avvisato il capo.
Non c’era nessun modo per mettersi in contatto con lui se non andarlo a prendere a casa.
Giuseppe si trascinò come una specie di relitto nei pressi della porta. Le scarpe ciabattarono sul pavimento con il tipico suono strascinato di stanchezza e apatia. Seppur fosse stato Giulio, Giuseppe era sicuro che l’avrebbe liquidato nel giro di due nanosecondi.
Aprì la porta e lì stette, immobile come un palo; il sopracciglio inarcato sull’espressione di totale sgomento.
Massimiliano lo fissava con le mani abbandonate lungo i fianchi che s’erano strette a pugno non appena se l’era trovato di fronte.
«Ciao.» si sentì dire, dopo un infinito stallo iniziale in cui il silenzio l’aveva fatta da padrone ed i suoi occhi non avevano abbandonato quelli del suo interlocutore. Al suono della sua voce, ostentata con una nota più bassa del solito, Giuseppe si riscosse. La collera soppiantò la sorpresa ed animò i suoi movimenti,  ma non le permise di dominarlo, solo, gli deformò i tratti in un’espressione aspra.
«Che vuoi? Se hai di che lagnarti sappi che-»
«Ho lasciato Arianna.»
Sgomento, di nuovo, più atterrito di prima. La bocca aperta di un filo e la gola riarsa. Se la frase fosse stata ‘Arianna mi ha lasciato’, Giuseppe non avrebbe mai battuto ciglio, anzi, gli avrebbe riso in faccia e mandato al diavolo. Ma quelle parole, l’inversione dei ruoli, lo immobilizzò di nuovo, impedendogli di dire qualcosa, sul momento.
Max distolse per la prima volta lo sguardo, facendolo saettare alle spalle del barista; inquadrò un frammento di quel divano dove infinite notti si era seduto piangente, per la disperazione d’esser stato lasciato, e poi ansimante, sotto le sue mani. Deglutì con uno sforzo, tornando a guardarlo.
«Posso entrare?»
Giuseppe fu ad un passo dal cascare in quello che doveva essere un dannato tranello per spezzarlo ancora ed usarlo, come sempre aveva fatto, ma stavolta era diventato più attento e scaltro. Il disprezzo tornò di nuovo padrone del suo viso, salvandolo in extremis. «Assolutamente no.» scosse il capo, deciso a chiudere quella conversazione. Che differenza faceva se era stato lui a lasciare Arianna? Niente, non sarebbe cambiato niente.
La mano di Massimiliano batté sull’uscio, bloccandolo, e l’ansia nella sua voce, la trepidazione, la paura divennero palpabili. «Allora almeno lasciami parlare stando qui fuori alla porta.»
Parlare?
Max voleva… parlare?
Che novità era mai quella? Quando erano da soli, Max non parlava mai, mai una volta che gli avesse aperto il suo cuore, chi si scopriva e si lasciava pugnalare a morte era sempre stato solo lui. E adesso? Cosa stava succedendo adesso?
Il suo non rispondere venne accolto come un ‘sì’ e Massimiliano aggrottò le sopracciglia, non sapendo da dove cominciare; l’unica cosa di cui era consapevole era di non essere più in grado di reggere lo sguardo di Giuseppe, così abbassò il suo, spostando il peso da un piede all’altro.
«Sono stato uno stronzo.» esordì. Chiaro e semplice. «Ti ho trattato malissimo e non te lo meritavi. Ti ho usato e mi faccio schifo da solo per questo. Sono stato un bastardo e mi sono meritato tutto il tuo odio, tutto, parola per parola.» si passò una mano nei lunghi capelli troppo chiari per essere castani e troppo scuri per essere biondi. Le sopracciglia che si aggrottarono e le labbra si incurvarono verso il basso. Alzò gli occhi di scatto e tutto quello che Giuseppe vi lesse lo investì come un’ondata incontrollabile. «Perché non mi hai mai mandato a fanculo in questi due anni?! Perché mi hai cacciato via solo adesso, Giusè? Avresti dovuto prendermi a pugni, maledizione! Ti rendi conto di come mi sono comportato con te?!» la mano, ancora ferma sul legno dell’uscio, tremava per la rabbia. Una rabbia che il barista sapeva non essere rivolta a lui, ma contro sé stesso.
Giuseppe arricciò le labbra, fingendo indifferenza. «Sei venuto per farmi una filippica adesso?»
«No, io…» il tono di nuovo calmo e basso. Deglutì a fatica, come se un groppo gli si fosse formato in mezzo alla gola. «…io volevo dirti che… non l’avevo mai capito, ma ora… è lo stesso motivo per cui io ho lasciato Arianna, lo stesso per cui sono qui.» non riusciva a far trovare pace alle proprie labbra, Max se le mordeva di continuo e lo sguardo non sostava nel suo più di pochi secondi, puntandosi poi su stupidi particolari del legno o del muro, o la punta delle proprie Nike, le setole del tappetino e le scarpe di Giuseppe.
Quest’ultimo se ne accorse, il disagio e la preoccupazione erano evidenti, soprattutto in un come Massimiliano, che era sempre stato sicuro di sé, adesso gli sembrava in piedi su aguzzi cocci di vetro.
«Tu… sapevi già d’essere omosessuale, mentre io… ho scoperto di essere bisex solo due anni fa. Solo con te. E non sapevo che fare o come comportarmi… non ci volevo nemmeno pensare. Sono stato un vigliacco.» gli occhi gli stavano pungendo già da un po’, ma stava facendo di tutto per arrivare alla fine di ciò che doveva dirgli, ed in fondo mancava pochissimo ormai, poche parole ancora, poteva farcela, dopotutto. «Io… ero venuto a dirti che… mi dispiace. Mi dispiace di tutto quello che ho fatto e di non aver mai pensato a quanto tu potessi soffrire per la mia vigliaccheria. Perdonami. Anche se so benissimo che non lo farai di certo così, su due piedi, né io lo pretendo. Affatto.» le labbra gli tremarono troppo e quando riuscì a guardarlo nuovamente negli occhi sentì d’essere arrivato alla fine della sua resistenza. «Io… ti prego solo di… di… non chiudermi fuori… per favore… non chiudermi fuori da questa porta, dammi una possibilità… una sola… ti prego…»
Giuseppe rimase a fissarlo come se lo vedesse per la prima volta: il capo chino e la mano che abbandonava la porta per coprirsi il viso.
Max piangeva e piangeva per lui.
E lui si sentiva talmente tante cose in quel momento, che non avrebbe mai saputo elencarle tutte né sarebbe riuscito a capirle. Aprì e chiuse le labbra un paio di volte senza che alcun suono le abbandonasse, poi le umettò e gli prese la mano ancora abbandonata lungo il fianco.
«Dai, vieni dentro, hai già dato abbastanza spettacolo, per la gioia dei miei vicini.» era un modo per scherzare, ma lui non era mai stato bravo quanto Max, così non aggiunse altro e se lo tirò in casa, chiudendo la porta alle loro spalle.
Una volta al sicuro, nascosti da tutti i possibili sguardi appostati dietro gli spioncini o le orecchie tese, incollate agli usci chiusi, Massimiliano cercò il suo abbraccio o, per meglio dire, se lo prese, stringendolo forte, il più forte possibile. Le dita artigliate alla camicia che stava indossando ed il viso nascosto nel suo collo. Riuscì a trascinarlo a terra con sé, perché le gambe non erano più state in grado di tenerlo in piedi per la tensione che veniva sciolta, per la paura che aveva avuto di vedere la sua porta chiusa per sempre e lui fuori dalla sua vita, quella nuova, che aveva deciso di accettare così com’era senza più fughe e ripensamenti, senza tentativi di restare indietro, ancorato al passato.
«Mi dispiace, mi dispiace da morire. Sono stato uno schifoso bastardo, uno stronzo di merda. Mi dispiace, non sai quanto, non volevo ferirti per tutto questo tempo. Perdonami. Ti amo, Giuseppe, perdonami. Ti amo.»
Quelle parole lo travolsero come tutto il corpo di Massimiliano premuto contro il suo, che lo stringeva con forza, e l’aveva trascinato verso il basso, fino a trovarsi inginocchiato senza nemmeno sapere come. E Maxi piangeva, piangeva forte, gli singhiozzava tra le braccia quasi fosse un bambino, mentre le sue, di braccia, si chiudevano più dolcemente attorno a lui.
«Max, ma che fai? Jà, finilla mo’[10]…» ma l’altro sembrava non volerne sapere e gli venne da sorridere nel sentirgli ripetere quegli infiniti ‘Perdonami’ e quegli infiniti ‘Ti amo’; gli venne da sorridere perché i primi li diceva solo quando era davvero pentito ed i secondi quando era davvero innamorato di qualcuno, su questo, Max non aveva mai mentito o finto e quando amava, amava sul serio, con tutto sé stesso, l’aveva visto con Arianna, l’aveva amata fino in fondo, quindi lo sapeva e sapeva di potersi fidare di quelle parole che continuava a salmodiare tra un singhiozzo e l’altro. «…ho capito, basta adesso.» ripeté, ma Giuseppe non si accorse che tremavano le mani anche lui, che le braccia rafforzavano la stretta, che la voce gli vibrava e gli occhi si facevano lucidi, rendendo il verde delle sue iridi brillante come smeraldo. Non si accorse di come prese ad accarezzargli la schiena ed i capelli, all’interno dei quali le dita scivolarono amorevoli, né di stare piangendo anche lui nonostante il sorriso. «Non farlo mai più. Intesi? Intesi, Massimì?» e voleva sentirlo dalle sue labbra, voleva che glielo promettesse davvero, per quanto sapesse quanto labile fosse il legame di una promessa, ma se era lui a dirglielo, allora gli avrebbe creduto perché si fidava di Massimiliano, nonostante il dolore che aveva provato a causa sua, si fidava ciecamente.
«Mai più. Te lo giuro, mai più.» Max fece correre la mani lungo il viso e amò sentire il ruvido della barba che cominciava a ricrescere, le forme marcate delle mascelle e la fossetta del mento, la fronte alta ed il naso dritto, i riccioli folti e scuri. Guardò i suoi occhi attraverso le lacrime che continuavano a scendere da sole, incontrollabili, e lo baciò. Una, dieci, cento volte tra amore, pentimento e gioia. «Ti amo. Ti amo da morire.» e ancora, più di prima, altri baci fino a non avere più fiato, per fargli capire che fosse suo completamente senza più compromessi. Anima, corpo e cuore. E le sue labbra non l’avrebbero mai lasciato e ogni volta che avrebbe aperto gli occhi, l’avrebbe trovato al suo fianco per affrontare insieme qualsiasi cosa avessero trovato sul loro cammino.
Perché il loro amore era come una stella di sabbia: per quante volte il mare l’avrebbe azzannata e portata via, altrettante loro l’avrebbero ricostruita più grande e più bella di prima, e baciata dalla terra e il cielo avrebbe continuato a brillare dall’alba al tramonto e sotto la luna d’argento.


Scinne cu 'mme / Scendi con me
‘nfonno o mare a truvà /a trovare in fondo al mare
chello ca nun tenimmo ‘ccà / quello che qui non abbiamo
Vieni cu ‘mme / Vieni con me
e accumincia a capì / e incomincia a capire
comm’e' inutile ‘a sta' ‘a suffrì / come è inutile restare a soffrire
Guarda ‘stu mare / Guarda questo mare
ca c’infonne ‘e paure / che ci infonde le paure
sta cercanne ‘e ce ‘mbarà / sta cercando di insegnarci

Ah, comme se fa / Ah, come si fa
a dà turmiento all'anema / a dare tormento all’anima
ca vo' vulà / che vuole volare?
si tu nun scinne ‘nfunno / se tu non vai fino in fondo
nun ‘o può sapé. / non lo puoi sapere
No, comme se fa / No, come si fa
a te piglià sultanto / a prenderti solo
o male ca ce sta / il male che c’è
eppoi lassà ‘stu core / e poi lasciare questo cuore
sulo miezz ‘a via. / solo, in mezzo alla strada.

Saglie cu 'mme / Sali con me
e accumincia a cantà / e incomincia a cantare
‘nzieme ‘e note che l'aria dà / assieme alle note che dà l’aria
Senza guardà / senza guardare
tu continua a vulà / tu continua a volare
mentre ‘o viento / mentre il vento
ce porta là / ci porta là
addo’ ce stanno / dove ci sono
‘e parole chiù belle / le parole più belle
che te pigliano pe’ ‘mbarà /che ti prendono per insegnarti.

Ah, comme se fa
a dà turmiento all'anema
ca vo' vulà
si tu nun scinne ‘nfunno
nun ‘o può sapé.
No, comme se fa
a te piglià sultanto
o male ca ce sta
eppoi lassà ‘stu core
sulo miezz ‘a via.


Mia Martini / Roberto MuroloCu ‘mme
(cliccate il link al titolo per ascoltarla)


 

[1]RIONE SANITA’: quartiere di Napoli che non brilla per essere un luogo, come dire, molto tranquillo. XD Ma non certo come il Quartiere di Santa Lucia. XD

[2]MAAMAJOMBOO: è un termine Mandingo e rappresenta una maschera che prende parte durante le feste religiose. In Inglese, Maamajomboo divenne ‘Mumbo Jumbo’ e rappresentava un modo di dire inteso come ‘spauracchio’ o ‘superstizione’ (me lo ha suggerito il Maestro Golding, XD e mi piaceva come nome per un locale).

[3]“O’ FRA’”: si usa anche ‘fratè’ e significa ‘fratello’

[4]“A ‘STO GIRO.”: non so se anche altrove si usa questa espressione, però significa ‘questa volta’. XD

[5]“MA… PARLA’?”: “Ma con chi cazzo credi di parlare?”

[6]“PEPPE… CAZZO!”: “Giuseppe si è rotto il cazzo!”

[7]“DUENFIERNO!”: “Due anni che andiamo avanti così! Due anni di Inferno!”

[8]“SI’… VATTENNE!”: “Sei un uomo di merda! Ed ora vattene!”

[9]“T’AGGIO RITTO”: “Ti ho detto”

[10]“JA’… MO’.”: “Dai, finiscila, ora.”


 

FINE

PostNota: se ci fate caso, la serie non è spuntata come ‘Finita’, nonostante avessi detto che le storie sarebbero state tre e basta.
Qualcuno *coff*Eme*cooofff*rald*coooffff* XD mi ha chiesto un’altra storia su Nico e Giulio, ma io ero stato assolutamente convinta che, no, ormai avevano dato tutto ciò che avevano.
PERO’.
Ieri sera mi è balzata in testa un’idea così baka, ma così baka che non posso non scriverla. XD Quindi, sì, ci sarà una quarta storia (e poi basta, lo giuro!!! XD) che avrà come protagonisti Nico e Giulio (ma non solo *sghignazza moltissimo*), ma sarà davvero scemissima, una bakata che spero vi strapperà qualche risata così come ne ha strappate a me quando ci ho pensato. XD
Spero di riuscire a farvela avere il più presto possibile, ma di sicuro non prima del 16 Luglio, perché ho L’Esame \O/ e visto che devo farlo col Prof a cui (ri)voglio chiedere la tesi, voglio prenderci un votone! (T_T seee, sogna Mela, sogna).

Nota extra per la canzone di chiusura, “Cu ‘mme”.
Io odio i neomelodici napoletani. Non sanno cantare, non sanno fare musica. Per me, gente come Gigggggi D’Alessio dovrebbe cambiare mestiere e finire di ammorbare la gente con quelle lagne oscene.
Mentre AMO la canzone napoletana. La VERA. Non quelle cagate di Giggggi e compagnia. Canzoni come “Cu ‘mme”, “I’ te vurria vasà” o “Dicitencello vuje” sono poesie meravigliose da preservare come tesori della tradizione campana. E, soprattutto, devono essere cantate da voci degne di questo nome. (Gigggi, va’ zappa! XD)
Cioddetto. Amo “Cu ‘mme”, la amo tantissimo e credo che ci stia bene come chiusura, visto che Giuseppe è campano. Ero indecisa se usare questa o “Uocchi ‘e stu munno” di Mango, alla fine ho optato per “Cu ‘mme”.
Se non l’avete mai sentita, FATELO! Mia Martini non ha prezzo e sentirle cantare questa canzone lo è ancora di più.**

Un grazie infinito alle persone che hanno recensito o recensiranno “Il centro della Clessidra” e che hanno messo la storia, o la metteranno, tra preferiti, ricordati e seguiti.
:* grazie mille.

   
 
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