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Autore: Soul Sister    15/07/2010    9 recensioni
Dal primo capitolo:La mia vita era sempre stata come una di quelle sit com americane, piena zeppa di colpi di scena, ma sempre prevedibili. Di quelle con teenager alle prese con qualche cretino super-figo che le tormenta e rende la loro vita un inferno, ma che, inevitabilmente, poi, le fa innamorare di lui come delle povere pere cotte.
Ma, fortunatamente, io non ero la classica ragazza da sit com che s’innamorava del cretino della città. Io ero la teenager che affrontava il deficiente in questione, perché, purtroppo, anche nella mia prevedibile realtà, lui esisteva.
Non poteva mica non esserci. Perché quella presenza era peggio di una piaga in via di putrefazione, un porro peloso, un foruncolo, e resisteva.
Ma, se nelle sit com, poi diventava l’eroe, si poteva star certi che qui, nella mia città, nella mia vita, lui non sarebbe mai diventato magicamente il santo della situazione. Non c’erano segreti scabrosi della famiglia che l’avevano irreparabilmente rovinato, niente maschere che nascondevano un cuore d’oro. Eh sì, perché, purtroppo, il figone del mio, di villaggio, lo conoscevo fin troppo bene. Perchè le nostre famiglie erano amiche da quando mio padre e mia madre andavano al liceo, e, come se non bastasse, una delle mie sorelle era fidanzata col fratello maggiore della mia nemesi. Solo per informazione, nel mio universo, la pustola, colui che rompeva le palle insistentemente, aveva il famoso nome di Adam Brown: mi rifiutavo categoricamente di ritenerlo mio cognato. Era troppo..deprimente.
Restava il fatto, che la Pustola aveva appena segnato la sua ora.

-Spero vi abbia incuriosito :)
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Amore Irrazionale: nemici, amici, innamorati



Capitolo uno: la mia vita fa andare al bagno

La mia vita era sempre stata come una di quelle sit com americane, piena zeppa di colpi di scena, ma sempre prevedibili. Di quelle con teenager alle prese con qualche cretino super-figo che le tormenta e rende la loro vita un inferno, ma che, inevitabilmente, poi, le fa innamorare di lui come delle povere pere cotte.

Ma, fortunatamente, io non ero la classica ragazza da sit com che s’innamorava del cretino della città. Io ero la teenager che affrontava il deficiente in questione, perché, purtroppo, anche nella mia prevedibile realtà, lui esisteva.

Non poteva mica non esserci. Perché quella presenza era peggio di una piaga in via di putrefazione, un porro peloso, un foruncolo, e resisteva.

Ma, se nelle sit com, poi diventava l’eroe, si poteva star certi che qui, nella mia città, nella mia vita, lui non sarebbe mai diventato magicamente il santo della situazione. Non c’erano segreti scabrosi della famiglia che l’avevano irreparabilmente rovinato, niente maschere che nascondevano un cuore d’oro. Eh sì, perché, purtroppo, il figone del mio, di villaggio, lo conoscevo fin troppo bene. Perchè le nostre famiglie erano amiche da quando mio padre e mia madre andavano al liceo, e, come se non bastasse, una delle mie sorelle era fidanzata col fratello maggiore della mia nemesi. Solo per informazione, nel mio universo, la pustola, colui che rompeva le palle insistentemente, aveva il famoso nome di Adam Brown: mi rifiutavo categoricamente di ritenerlo mio cognato. Era troppo..deprimente.

Restava il fatto, che la Pustola aveva appena segnato la sua ora.

“Brown, sei un idiota!” esclamai, adirata, gli occhi furenti iniettati di sangue.

Quella sottospecie di ameba, priva di un briciolo di materia grigia, aveva volontariamente fatto cadere la sua cicca sulla mia testa.

Stavo ringhiando come una rabbiosa, quasi con la bava alla bocca, mentre una parte di me stava già piangendo i miei capelli che, inevitabilmente, avrei dovuto tagliare, per sistemare il danno.

Ricordiamo la persistente somiglianza con le sit com americane, dove, puntualmente, i professori nemmeno si vedevano, nullafacenti come pochi.

Ed infatti, l’insegnate si faceva tranquillamente i cavoli suoi, con l’Ipod nelle orecchie, che picchiettava la biro sulla cattedra a ritmo di musica.

Perché qui succedeva così.

Lei ci riempiva di esercizi, e mentre la parte di noi diligente eseguiva i compiti, lei si faceva i fattacci propri, mentre Mr Pustola combinava danni.

Non poteva nemmeno sentire le mie urla la prof, la musica era così alta che la sentivo chiaramente fino al mio posto, nella penultima fila di banchi, in fondo alla classe.
“Oh scusami Smith, te la tolgo subito!” disse, con finto tono dispiaciuto.

Quando allungò la mano, ebbi l’impulso di staccargliela a morsi; peccato che non fossi cannibale. Ma, comunque, Brown riuscì a mettere le sue manacce sulla mia testa e spalmò bene il chewing-gum sui capelli. Boccheggiai, shoccata. Non avrei mai creduto che fosse così sconsiderato, quell’Essere, dal volersi accorciare così drasticamente la vita.
“Brown, giù le mani!” urlai, in panico.

Lui ghignò, lo sentii bene, ma quell’incompetente della prof non se ne accorse minimamente. Non che lei avrebbe preso provvedimenti: com’è prevedibile, Brown aveva un certo ascendente pure sulle professoresse, oltre che sul popolo femminile della mia città. Perciò, non sarebbe servito a nulla che la prof se ne accorgesse.

“Lascia che ti aiuti.” Disse, con tono mellifluo. Il suo sorrisino era la cosa più irritante che esistesse sulla terra.

Lo allontanai con uno spintone e un’occhiata infuocata. Ma perché non sapevo incenerire con gli occhi?
“Ma che aiutare.. Oh no, sono da tagliare..”

L’ultima parola fu un sussurro strozzato. I miei capelli, lisci, lunghi, morbidi: da tagliare. Mi sentivo mancare, ma cercai di riprendere il controllo. Mi alzai, con calma calcolata e un’espressione omicida. Lo fissai così male che indietreggiò con la sedia. La professoressa alzò lo sguardo sulla classe, vedendomi in procinto di ammazzare il suo beniamino.
“Smith, cosa succede?”
“Ma nulla professoressa. Chiedo un suggerimento a Adam..” Minimizzai io, un sorrisino sadico sulle labbra, le forbici in mano, nascoste dietro la schiena. Mi risedetti, mentre lei usciva dalla classe: “Vado a prendermi il caffè, voi state buoni” ordinò. Era troppo facile.. proprio da sit com, no?

Mi rialzai, e andai al banco dietro al mio. Sorrisi sadica a mononeurone-Brown.
“Nat, non farlo..” mormorò Kim, la mia migliore amica, preoccupata. Non le diedi ascolto. Non era il momento di professare il “Peace and Love”.
“Sai Brown, sei assolutamente un idiota.” Gli confessai, con odio in quantità industriale. Avrei potuto ricoprire la superficie della terra, con tutto l’astio che covavo per Brown. E sarebbe persino avanzato.
Lui ridacchiò, senza allegria, con un amaro sarcasmo.

Ecco, lo sguardo che mi mandava in bestia. Era malizioso, pieno di sottintesi, falsi e veri.

Adam Brown era il classico figo dongiovanni, come ormai era risaputo, a cui montava l’ego ogni secondo che passava grazie alle attenzioni che le ragazze gli davano. Bastava uno schiocco di dita, e il genere femminile gli cascava ai piedi. Ovviamente, con me i suoi occhi verde smeraldo non facevano effetto.

Certo, era bello – impossibile negarlo- ma io guardavo più in là, dentro la persona. Il punto era che di lui non potevi vedere nulla, dato che era profondo come una pozzanghera. Adam Brown era esattamente come si mostrava: superficiale, egocentrico, pallone gonfiato, insensibile ai sentimenti. Punto. Al massimo ci potevi aggiungere altri insulti. Fine.
“Detto da te è un complimento.” Alitò con quelle labbra tirate in un sorrisino malizioso. Mi stava mandando in bestia, e dovetti inspirare a fondo per non prenderlo a schiaffi. Dopotutto eravamo in classe.
Accennai una risatina nervosa. “Molto divertente..”

Volevo abbassare quella cresta che si ritrovava,e nel vero senso della parola. Mi avvicinai pericolosamente al suo viso, sotto il suo sguardo soddisfatto, e prima che lui potesse fare qualcosa, le mie forbici furono tra i suoi capelli. Zac. Sorridendo soddisfatta, raccolsi i suoi capelli e glieli sventolai davanti al naso, sotto il suo sguardo stralunato. Se c’era qualcuno che teneva ai suoi capelli quanto io tenevo ai miei, era proprio Adam Brown.
“Come. Hai. Osato.” Sibilò, con sguardo minaccioso.
“Occhio per occhio..” Beh, era la spiegazione migliore che potessi dargli. No?

“Smith, questa me la paghi.” Ringhiò tra i denti. Orgoglio ferito?
Indicai i miei capelli, irreparabilmente rovinati. Lo guardai male, ma male male.

“Sai che dovrò tagliarli? Corti, molto corti. E a me non piacciono i capelli corti.”
“E sai che me ne frega dei tuoi capelli, befana!” rispose, acido.
“Beh, tua madre voleva che ti dessi una spuntatina, no? Ecco, hai risparmiato tempo e denaro. Sono io qui, quella messa peggio. O forse no? Sappilo, tua madre adorava i miei capelli. E’ ovvio che noterà il drastico cambiamento, e le confesserò piangendo che il disastro l’hai combinato tu ai miei, innocenti capelli.” Dissi, mentre un sorrisino perfido affiorava sulle mie labbra.
“Tua madre stravede per me, ricordi? Mi difenderà a spada tratta” disse Adam sicuro. Pensava di avere il coltello dalla parte del manico. “Non avrai vita semplice.” Disse poi. Non volevo pensare alla reazione di mia madre, sinceramente. Mi avrebbe distratto e rammollito.
“Nemmeno tu” risposi minacciosa. Ghignò perfido, chissà cosa il suo cervellino bacato macchinava.
“Tremo dalla paura. Natalie Smith mi minaccia!”. La classe rise, ma io, con un’occhiata alle spalle, zittii tutti. Rivoltai la testa verso l’Essere, che ancora aveva disegnato quell’odioso sorrisino sul viso.
“Sei odioso, impossibile, insopportabile, montato..”
“Tu sei patetica” il sangue mi ribolliva nelle vene, e mi colorava le guance di rosso, per la rabbia. Presi l’Estaté in bella vista sul suo banco- ovviamente lui poteva permetterselo- e lo premetti sulla sua zucca vuota, rompendo la plastica del bricchetto, e rovesciandogli in testa il thé. Ghignai, soddisfatta. I suoi occhi si fecero più scuri, accecati dall’ira. Afferrò la bottiglietta d’acqua dell’amico, aperta, e mi rovesciò addosso il contenuto. Mi guardai la maglietta completamente zuppa, a bocca aperta, poi con un tic all’occhio rialzai lo sguardo su di lui. “Tu” sibilai.

La classe si era zittita, le scommesse già fatte: tutti erano in attesa della rissa.

Ci mancava solo l’arbitro e la campanella che segnasse l’inizio del match.

“Io?” sfotté Brown, con quell’aria da superiore che lo contraddistingueva dagli altri cavernicoli, sempre e comunque più evoluti di lui.
“ IO TI ODIO!” tirai in dietro il braccio, strinsi forte il pugno, e lo distesi, colpendolo con tutta la forza che possedevo.

Non ci potevo credere: l’avevo fatto davvero.

Riaprii le dita, che scricchiolarono, ed insieme anche gli occhi. Gli avevo fatto girare la testa, ero compiaciuta: avevo sempre desiderato farlo.
Rimase un attimo interdetto, a fissarmi, sconcertato; probabilmente era basito quanto lo ero io per il gesto. Non se lo aspettava nessuno, nemmeno io.

Stava metabolizzando il tutto, forse. Sì, l’avevo davvero colpito in viso, e molto probabilmente anche nell’orgoglio.

Sbatte le palpebre un paio di volte, poi il gesto fece breccia.

Nel suo sguardo c’era puro odio, nei miei confronti.

Aprì la bocca, ma non uscì verso né parola.
“Smith.” Ringhiò, a denti stretti.
“Sì, Brown?” domandai,sorridendo sorniona.
“Io t’ammazzo!” con uno scatto si alzò in piedi, facendo ribaltare all’indietro la sedia. Indietreggiai, ora sì che mi venivano i brividi a vederlo. Mi sembrava Bruce Banner in procinto di trasformarsi in Hulk. La vena sul suo collo pulsava paurosamente, il viso aveva già la sfumatura verdognola. L’avevo combinata grossa. Afferrò le sue forbici, e avanzò verso di me, lo sguardo da serial killer non accennava ad andarsene.
“Ehi, non t’avvicinare.” Intimai. Purtroppo mi uscì una supplica, e non un avvertimento, come volevo che fosse. Fece una risatina sadica, che mi fece venire la pelle d’oca. Tagliò l’aria con quegli arnesi malefici, camminando lentamente verso di me.
“L’avevo detto io che sarebbe finita male..” mormorò Kim tra sé. Ma che carina, perché al posto che fare la saccente, non mi dava una mano?
“Vieni qui, Smith!” ringhiò Adam, facendo uno scatto verso di me. Io mi girai e iniziai a correre per i banchi, con lui alle calcagna. Purtroppo, non avevo tenuto da conto i suoi amici cavernicoli, ovviamente dalla sua parte. Jim, il suo migliore amico – idiota anche lui-, piazzò in mezzo il suo banco, bloccandomi il passaggio.
Brown ghignò, battendogli il cinque, poi mi guardò con gli occhi ridotti a due fessure. Lentamente, mi si avvicinò.

Io cercavo, senza togliere gli occhi da lui, di spostare il banco. Non mi ero accorta che l’amico l’aveva incastrato bene tra altri due. Solo loro potevano riuscirci casualmente.
“Stammi lontano!” ringhiai. Dovevo apparire un gattino che credeva di essere una tigre, ai suoi occhi.

Le sue iridi erano così sadicamente intrise di odio che sembravano ancor più magnetici, come quelli dei serpenti. Era quasi impossibile distogliere lo sguardo.
“Ma dai, Natalie.. Sono il tuo pavvucchieve di fiducia, tesovo, ti favò un taglio mevaviglioso!”

Doveva far ridere? Eppure io ero traumatizzata.

Misi i due indici delle mani a formare una croce: “esci da questo idiota!” esclamai.

Ma dove trovavo il coraggio per far dell’ironia, anche nelle situazioni tragiche?
“Simpatica, Smith, davvero simpatica. Ma io non sarei così in vena di scherzare.” Afferrai la prima cosa che riuscii, sul banco di un compagno: la colla. Una misera, inutile colla! La fissai male, e Brown rise della mia sfortuna. Era a due passi da me, che mi minacciava con quelle pericolose forbici appuntite e un ghigno perfido. Fece un altro passo; istintivamente gli lanciai il tubetto in faccia, e sgusciai dalla trappola. Sentii distintamente le forbici chiudersi sui miei capelli.
Oh no. Mi voltai verso di lui, che teneva in mano una ciocca abbondante dei miei capelli, lunga almeno venti centimetri, con un sorrisino soddisfatto. Passai una mano, scioccata, sulla mia nuca: il dislivello si notava eccome. Inspirai ed espirai profondamente, era il mio turno di diventare Hulk. Afferrai una sedia libera, e la alzai sulla mia testa. Indovinate chi era il bersaglio?
“Smith, Brown, che succede?” la prof rientrò proprio in quel momento. Non ci potevo credere. Evviva il tempismo.

Abbassai la seggiola, e mi voltai verso la prof a capo chino.
“Diari”

Come nelle classiche sit com, no?
***
Marciai a passo spedito verso il bagno delle ragazze, con l’assoluto bisogno di vedere in che pietoso stato si trovassero i miei capelli.

Masochismo puro.

Entrai velocemente, cercando di nascondermi agli occhi altrui. Oddio..i miei poveri capelli. La cicca, di un rosa chiaro scolorito, era come saldata alla mia testa. Avrei dovuto tenere la testa al fresco- nel vero senso del termine- per staccare il chewing-gum.

Toccai la gomma, schifata. Bleah!
Per non parlare del taglio netto dei miei capelli, dietro alla testa..quello sì, che era un danno.

Cavolo, avrei dovuto tagliarli scalati, cortissimi. Miseriaccia.

Slacciai il foulard che avevo al collo, per pura fortuna, e lo sistemai sul mio capo. Almeno non avrei fatto una figuraccia mentre tornavo a casa.

Uscii spedita, sperando di non incontrare Faccia-da-schiaffi-Brown. Beh, non c’era molto da sperare, dato che eravamo vicini di casa.

Con calma, uscii dall’edificio. Attraversai l’intero spiazzo, diretta verso casa. Ero senza macchina- purtroppo- e dovevo farmi la strada a piedi.
“Ehi, strega!” Nat, respira, respira a fondo. Non. Dovevo. Sbraitare. E non dovevo ucciderlo: sarei finita in prigione. Cos’avrebbe detto papà?
“Ho detto: ehi, strega!” ripeté, seccato.
“Che vuoi!” sbottai, voltandomi. Sorrise, strafottente.
“Oh, niente.” Rise, quasi strozzandosi. “Mh, bella bandana.” Commentò. Stronzo.
“Va a quel paese, razza di idiota!” sibilai. Lui rise, rise di gusto. Aumentai la velocità, intenta a seminarlo: che cosa vana, dopotutto dovevamo fare la stessa strada. Anche se non parlava più- o meglio, non sparava più cretinate-, lo sentivo camminare dietro di me. Dopo dieci lunghissimi minuti, quasi interminabili, giungemmo a casa. Senza salutarci, ovviamente, ci separammo. Entrai in casa, e presi un respiro profondo. Durante il tormentato tragitto, mi ero preparata mentalmente all’ennesima sfuriata di mia madre, per la nuova nota disciplinare. “Ehm, mamma?” chiamai. Arrivò tutta pimpante, eccitata, con un sorriso ad illuminarle il volto. La situazione mi puzzava.

Il mio inconscio- tipo vocina fastidiosa che mi metteva in guardia- mi suggeriva il motivo ma non l’ascoltai.

“Mi devi aiutare, stasera vengono a cena i nostri fantastici vicini!” mi ritrovai a sperare che fossero altri vicini, ma la vocina – sempre quella crudele vocina – mi suggeriva che non erano quella simpatica coppia di anziani.

“I signori Willis, intendi?” dissi innocentemente.

Chi gliel’avrebbe spiegato ai genitori, che io e Adam avevamo fatto ancora rissa? Emily rise. “Ma che dici, è ovvio che sono i Brown! E’ una settimana che non ci vediamo tutti insieme!” battè le mani, entusiasta. Poi mi guardò attentamente. “Ma.. Nat, perché quel foulard?” deglutii a vuoto, mentre scioglievo il nodo dietro al capo. Strabuzzò gli occhi.
“Ma’, ho predo una nota.. perché quel tesoro di Adam Brown mi ha messo la cicca in testa.” Dissi mostrando il disastro. “E mi ha tagliato i capelli.”
“Per questo, hai preso una nota?” chiese, scioccata.
“Beh, io gli ho dato pan per focaccia.” Confessai, con un sorrisino divertito. Al ricordo di quel pugno ancora gongolavo. “E gli ho quasi tirato una sedia in testa” aggiunsi, con nonchalance. Ormai, tanto, la frittata era fatta.
“Natalie!” mi sgridò “Come hai potuto? Richard, corri. Qui urge una ramanzina coi fiocchi!” mio padre comparve nel corridoio,tutto trafelato. Sapeva che quando mia madre, da pacata, diventava belva furente, era perché succedeva qualcosa di catastrofico. Beh, ormai con me era una routine.
“Nat, cos’è successo ai tuoi capelli?” era basito, la bocca aperta stile baccalà. Mi strinsi nelle spalle

“Brown” Solo il nome diceva tutto.

Scosse la testa, rassegnato. Per quanto il mio papino adorasse Adam, non gli avrebbe mai dato pienamente ragione: io ero la più piccola di casa, dopotutto. E l’unica delle sue tre figlie a cui avesse mai insegnato a giocare a football e a fare la lotta.
“Ha preso un’altra nota, Richard, l’ennesima! Non. Va. Affatto. Bene. E poi questa cosa delle risse, proprio non la tollero!” Evitai di alzare gli occhi al cielo. Ormai la tiritera la conoscevo a memoria.
“Natalie cara, mamma ha ragione. Tu e Adam dovreste andare d’accordo, la situazione è pesante.” Mio padre mi guardò accorato. Era pesante sì, ma anche ingestibile. A lui dispiaceva sempre dover discutere con i coniugi Brown di queste cose; non era il massimo per dei migliori amici come loro.

Mamma era fuori di sé, come al solito.
“Come se fosse solo colpa mia: se lui non mi avesse appiccicato la gomma tra i capelli, io non gli avrei tirato un pugno!” sbottai, incrociando le braccia al petto.
“Gli hai tirato un pugno?Ma sei impazzita?” urlò mia madre.

Forse avevo parlato troppo. Mio padre si accese d’entusiasmo, anche se con un pizzico di preoccupazione negli occhi chiari: “ ti sei fatta male?”
“Poco, però ne è valsa la pena: gli ho girato la faccia.” Dissi, fiera del mio destro potente. Mio padre ridacchiò, sotto sotto era soddisfatto quanto me che le sue lezioni fossero andate in porto. “A volte mi chiedo se non fossi dovuta essere maschio. Sembra ti piaccia fare rissa!” commentò divertito.

Annuii: “Oh sì, fare a botte con quel microcefalo di Brown sarebbe molto più entusiasmante” feci ridere ancora mio padre, e grugnire mia madre.
“Se fossi maschio, sareste amici.” Disse mamma, storcendo il naso.

Rabbrividii: “sono felice di essere donna! Ora mi devo lavare, anzi. Devo sistemare il disastro che ha fatto il beniamino di mamma.”

La diretta interessata sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Scomparve in cucina, mentre mio padre, col suo sorrisino divertito, tornò in salotto.
*****
“Nat, i tuoi capelli..” sospirò mia sorella, accarezzandomi la testa.
“Ringrazia quel deficiente del fratello di Bryan.” Risposi, alzando le spalle.

Mi ero dovuta tagliare i capelli, corti, molto corti. Fortunatamente, mi ricrescevano velocemente. Mia sorella sbuffò.
“Non c’entra nulla Bryan, non metterlo in mezzo!” mi sedetti sul letto di mia sorella, e sospirai.

“Certo, Rose, il tuo ragazzo è fantastico. È suo fratello l’idiota.”
“Però è carino.” Scoppiai a riderle in faccia. I singulti erano violenti, mi contorcevo per le troppe risa. A volte mia sorella se ne usciva con delle vere cavolate.
Cercai di riprendere un contegno: “Sei assurda, sorella.” Ansimai, col fiatone. Lei storse il naso, contrariata.
“Solo perché lo odi, non vuol dire che non sia bello. Insomma, le sue conquiste le fa.” Si strinse nelle spalle, come se la cosa detta fosse ovvia.
“Ti interessi di pettegolezzi da liceo?” apostrofai, con un sorrisino di scherno. “Nat, guarda che fino all’anno scorso anch’io ero una di voi. I ragazzi Brown hanno sempre destato una certa fama, in questo senso. Adam fin dal primo anno ha fatto conquiste, mi pare.” Disse, con un’aria da saccente.
“Intendi dire che anche Ryan era un casanova?” Sorrise, ravviandosi i capelli dorati e boccolosi. Mi si strinse il cuore: i miei, anche se erano di un biondo cenere spento e non belli come i suoi, una volta erano così. Cioè, fino a quella mattina.
“Fino a quando non mi ha conosciuta, e ha messo la testa a posto.” Disse fiera, gli occhi azzurri scintillanti da innamorata. “Prima o poi, anche Adam metterà la testa a posto. E quel giorno...” lasciò la frase in sospeso lanciandomi un’occhiatina che non riuscii a decifrare.
“Quel giorno?” chiesi, curiosa. Ridacchiò, poi mi tirò una cuscinata.
“Quel giorno sarà troppo tardi!” che voleva dire? Mia sorella era proprio un mistero. Se io ero quella che dava più problemi a scuola, lei era quella meno normale. Rimasi lì qualche minuto, alla ricerca del significato dell’affermazione di Rose.

Lasciai perdere quasi subito, mia sorella era come un sudoku: mi era impossibile risolverlo, come non riuscivo a capire lei. Inutile struggersi tanto.

Andai in salotto, e in quel momento sentii la porta di ingresso aprirsi. “NAT” sorrisi: la piccola Kate, la sorella minore di Bryan e Testa-di-cocco-Brown, era un vero angelo. La bimba venne in salotto- ormai casa nostra la conosceva troppo bene- ,accompagnata dalle risate di tutti, e mi corse in braccio. “Ehi, terremoto!” esclamai, stringendola a me. “Sei cresciuta”
La piccola si aprì in un sorriso mozzafiato, mostrandomi i suoi dentini. Era tenerissima, con i suoi boccolosi capelli biondi, e quegli occhioni verde acqua.
“Natalie, e i tuoi capelli lunghi?” mormorò, accarezzandomi la testa. Scossi il capo, un sorriso amaro sulle labbra. Intanto entravano tutti gli altri, nella stanza, compreso il ‘genio’ della famiglia. “Ho dovuto tagliarli..” dissi, con un sospiro.
“E non hai pianto?” domandò, confusa. Beh, c’ero molto, molto vicina.
“Ma no, piccola. Tanto ricrescono.”
“Beh, comunque rimani bellissima, tesoro. Non preoccuparti!” Emma, la madre di Bryan, Kate e Testa-Di-Cocco-Brown, venne da me e mi stritolò in una presa da lotta libera, facendo ridere la piccola.

“Ciao Emma” ridacchiai.

Era una persona fantastica, quella donna. E così anche il marito, e i due figli- il più grande e la più piccola, sia chiaro. Doveva esserci stato un errore, una madornale anomalia nel concepimento del secondo figlio. O forse c’era stato uno scambio di figli, dove il vero angelo Brown era stato brutalmente barattato con questo obbrobrio della natura.
Emma e Seth Brown erano colleghi, nonché quasi consuoceri, dei miei. Sarebbe stata una famiglia fantastica, la loro, se non ci fosse stata la pecora nera a rovinare tutto.
L’amicizia che legava noi a loro, era quasi sempre, per me, causante del desiderio di suicidarmi. Mi chiedevo perché mio padre avesse voluto proprio fare quel lavoro, e soprattutto, perché ci fossimo stabiliti proprio lì, a fianco a loro.
Ma perché rovinarmi la vita a causa di un cafone ignorante?
Da sottolineare, però, che era un’impresa titanica sopportare quel cervello di gallina, perché mi ronzava in torno, oltre che a scuola, pure a casa. Mi ricordo che alla nascita di Kate, per ogni minima cosa, ci ritrovavamo per festeggiare: ‘Kate ha fatto il ruttino!”; ‘la piccola ha sorriso!’; e così, di corsa al ristorante. Forse, per una cosa, io e Adam eravamo d’accordo: non ne potevamo più. Ci salutammo- ovviamente, io e Adam ci lanciammo occhiate di fuoco, anche lui aveva dovuto sistemare i capelli in qualche maniera- , poi mamma annunciò che la cena era pronta. Come al solito, mi sedetti accanto a Bryan, di fronte al Vaccone, con Kate in braccio. Bryan, anche se aveva due anni in più di me- era un diciottenne, come Rose- , era il mio migliore amico, nonché confidente. Avevamo un bel legame, io e lui. Era un tesoro, e non biasimavo mia sorella che ne era completamente cotta.

Arrivò il primo – in queste cene, mia madre si dava alla pazza gioia, neanche fosse una chef-, e l’atmosfera aveva già perso tutto il solito imbarazzo. Bryan e Rose si guardavano intensamente, gli occhi a cuoricini. Ogni tanto si scambiavano parole dolci, e si dicevano quanto fossero fantastici, l’uno all’altra. Kate mangiava tranquillamente, ogni tanto sbuffava annoiata- di solito con me si divertiva sempre, ma quel giorno il mio umore era nero come il carbone. Mi dispiaceva per la mia piccolina; io ero come una sorella acquisita, non la semplice baby-sitter per lei. In quanto a me, non avevo fame e nemmeno voglia di mangiare. Nemmeno Adam sembrava averne, e continuava a lanciarmi sguardi di fuoco, pieni di odio, a cui io rispondevo prontamente. Era difficile che ci insultassimo, a tavola: a parte il fatto che avremmo distrutto il mito di ragazzi beneducati ai nostri genitori, c’era presente la bambina.
Avrei creduto che Adam-testa-di-nocciolina fosse proprio, definitivamente, senza cuore, se non avessi visto il bene che provava per la sua famiglia, e la devozione per la sorella minore. Che poi era reciproca, in quanto Kate aveva già annunciato che, da grande, si sarebbe sposata con lui. Beh, non volevo essere nei suoi panni, povera piccola ingenua. Adam era praticamente un mostro!
“Mamma, mi scappa la pipì” Emma prese Kate in braccio, e chiedendo scusa e il permesso, scomparve nel corridoio.
Una scintilla attraversò quell’oceano di verde- gli occhi di Adam erano davvero belli, glielo potevo concedere- e le sue labbra si tirarono in un sorriso divertito. Prese la bottiglia di Coca-cola e svitò il tappo, sempre con quel ghigno presente sul viso. Nell’allungarsi, per afferrare il suo bicchiere, urtò la bottiglia, che si rovesciò direttamente su di me. Non era casualità. Perché anch’io, casualmente, avrei potuto, ovviamente per sbaglio, conficcargli la forchetta in un occhio.

“Nat, stai più attenta!” rimproverò mia madre.

Ora, se avessimo fatto replay, si sarebbe visto chiaramente che io non avevo mosso un muscolo e che quel microcefalo aveva volontariamente rovesciato la bottiglia per bagnarmi. Ma mia madre era infatuata del figlio di Emma e Seth Brown, in modo quasi malsano. E, come ogni volta, aveva fatto magicamente diventare me dalla parte del torto.

Adam mise su un broncio mortificato, falso come Giuda, e si girò penitente verso mia madre.
“Emily, è colpa mia, ho per sbaglio rovesciato la bottiglia.” Bleah, eccesso di mielosità. Si vedeva da un miglio che stesse gongolando.

Mia madre gli sorrise dolcemente. “Tranquillo caro, non è successo nulla.”
Come non era successo nulla?!Si dava il caso che avesse appena rovinato la mia maglietta preferita: avevo sudato per averla, e solo dopo infinite preghiere e un lavoro come baby-sitter, l’avevo comprata. E lui, quel caprone, idiota, quell’essere mitologico con corpo d’uomo e testa di cazzo- era riuscito a rovinarmela, senza che mia madre, quella traditrice, dicesse nulla.
Era certificato, ero stata adottata.

Non si spiegava, altrimenti, perché mia madre non fosse mai dalla mia parte.
“Natalie, vai a cambiarti, che bagni il pavimento!” ordinò Emily. Okay, volevo ufficialmente divorziare da mia madre.

“Vengo anche io!” disse Rose, seguendomi in camera mia. Sapeva che stavo per scoppiare. Mi sentivo il sangue ribollire nelle vene, probabilmente il fumo usciva dalle mie orecchie, dato che sentivo un fischio fastidioso in esse.

“Nat, respira, respira!” intimò mia sorella, scrollandomi per le spalle. Solo in quel momento, mi accorsi di aver trattenuto il respiro, e pian piano l’aria tornò ai miei polmoni. Inspiro, espiro.
“Devo iscrivermi ad un corso di yoga.” Dissi, mentre mi ossigenavo. Inspira, Nat, espira.

Tenevo gli occhi chiusi, cercando di placare la mia ira funesta. “Ti sei ripresa?” scossi la testa, in segno di diniego. Sentivo ancora il bisogno di spezzargli le ossa e di spappolare il suo cranio sul muro.

Sadica? Un pochino non guasta mai.

Presi altri respiri, poi riaprii le palpebre e sorrisi a mia sorella: “Okay, ci sono”
“Dai, Nat.. non devi prendertela così.” Sapevo che Rose ci stava male, quando avevo qualcosa che non andava, e cioè sempre, se c’era Brown.

“Rose, questa è la mia maglietta preferita..” mi lagnai. “ E poi, cavolo, sembra che sia lui suo figlio!” sbottai, offesa.

Lei mi abbracciò: “lo sai che ti vuole bene..” sì, quanto si poteva voler bene ad una crepa sul muro.. “Ma è vero che oggi avete fatto ancora rissa? E’ vero che gli hai tirato un pugno?”chiese, curiosa, come un fiume in piena.

Annuii, solamente, e lei scoppiò in una fragorosa risata. “E lui ti ha tagliato i capelli.” Dedusse. Sfilai gli indumenti bagnati e appiccicosi, e cercai qualcosa di comodo, ma non di trasandato, da mettere.
“Prima gli ho rovesciato il thé in testa, e lui l’acqua addosso, e prima ancora mi ha messo la cicca in testa.” Raccontai, facendo aumentare le sue risate.

“Oddio, siete una comica assoluta!” e ricominciò a ridere. “Mi.. mi piacerebbe vedervi!” finii di sistemarmi, grugnendo. Io non ci trovavo niente di simpatico.
“Beh, ci saranno dei video su You Tube, sicuramente..” dissi, stringendomi nelle spalle.
Lei sorrise, entusiasta. “Quando vanno via lo cerco subito!” detto questo, tornammo in salotto.
La serata passò lenta e, per me, tormentata.
“Grazie Emily, per la cena! Ricambieremo sicuramente” Emma l’abbracciò, sorridendole grata. Ma perché doveva essere così gentile?
“Ciao Nat!” mi salutò la piccola Kate, attirando la mia attenzione. Le baciai una guancia, chinata alla sua altezza.
“Ciao piccola.” Le sorrisi.
“Ehi, impiastro, oggi non mi hai nemmeno calcolato” mi disse Bryan, fingendosi offeso. Grande e grosso com’era, quel visetto non gli donava.

“Se tu non avessi occhi che per mia sorella, magari riusciremmo a conversare!” arrossirono entrambi, ed io ridacchiai.
“Andiamo ragazzi!”
“Ciao, ci sentiamo!” Detto questo, la famiglia Brown uscì da casa mia, facendomi sospirare di sollievo.

*

*Angolino Autrice*

Salve a tutti i gentili lettori. Ehm, si lo so, questa storia l'avevo già postata, però...

L'ho tolta, per sistemarla e modificarla un po'.

Ora, il primo capitolo come si è visto, più o meno è uguale all'altro. Però ho messo anche la foto, è più chic xD

Spero comunque che.. vabbè, che la storia vi piaccia.

Un bacio! ( Ps: ringrazio Sakura__Nice per i non-linciacci e la magnanimità dimostrata nei miei confronti: grazie! )

  
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