Capitolo I
Un giorno di metà
marzo del 1254 – Landshut, Baviera
Il borgo fortificato sulla cima della collina offriva
un’ottima visuale sul paesaggio della campagna bavarese sottostante.
La primavera era alle porte, ma l’aria frizzante e la neve
depositata ancora sulle montagne, lasciavano intendere che ancora l’inverno non
se ne voleva andare.
Il cielo era plumbeo, annunciava un nuovo temporale. Si
sentivano già i tuoni in lontananza.
Le prime leggere goccioline presero i braccianti alla sprovvista.
Stavano cominciando a preparare i fienili e i campi per i raccolti primaverili,
e non si accorsero subito di quella pioggia.
In breve tempo le fini goccioline simili a delicato
vapore acqueo, si condensarono in pesanti gocce copiose. Cadevano dal cielo
come se un Dio arrabbiato le stesse lanciando sui malaugurati contadini, colpendoli
violentemente e inzuppando i loro unici vestiti. Cercavano di correre verso le
loro case ai confini del borgo, ma velocemente come aveva iniziato a piovere,
la terra si era trasformata in un pantano, e si rischiava di scivolare.
Anche le loro scarpe adesso erano zuppe. Se ci fosse
stato il silenzio che poco prima aleggiava sulla pianura, avrebbero ascoltato i
loro passi, e sentito le leggere scarpe di stoffa che assorbivano e
rilasciavano rumorosamente l’acqua ad ogni passo di corsa.
I tuoni erano fragorosi e potenti, sembrava che la terra
tremasse. I fulmini che squarciavano il cielo sembravano il ghigno del Dio
arrabbiato, che si divertiva a vedere quelle piccole persone, ormai zuppe fino
all’osso, che correvano e scivolavano nel fango, per raggiungere le loro case.
***
Dall’alto della torre del castello degli Hohenstaufen, al
centro del borgo, la regina Elizabeth di Wittelsbach osservava quella tempesta,
immobile come una statua di marmo. Eretta e fiera, guardava la campagna con
sguardo impenetrabile. La pioggia che cadeva e schizzava il balconcino dove si
trovava non sembrava sfiorarla, né tanto meno darle qualche problema.
Il suo pesante abito di velluto blu si muoveva
delicatamente intorno alle maniche larghe, e il vento tirava indietro i sottili
boccoli biondi lasciati ricadere sulle spalle dalle morbida acconciatura.
Osservava lo spettacolo della natura all’opera senza
nemmeno battere ciglio, gli occhi azzurri aperti sul grigiore del temporale, ma
velati da pensieri cupi come il cielo.
<< Vostra Maestà … >> La voce della cameriera
alle sue spalle era così flebile che per poco non pensò di essersela
immaginata. Mantenne la sua posizione, le mani in grembo e la schiena dritta,
ma voltò la testa e guardò la donna da sopra una spalla.
<< Il bambino piange. Chiama suo padre. >>
Disse quella. << E’ impossibile calmarlo. >>
La regina sospirò. Alcune volte avrebbe voluto mettersi a
piangere e ad urlare anche lei, chiamando Corrado. Non si erano sposati per
amore, ma per motivi politici, eppure negli anni lei aveva iniziato ad affezionarsi
a quel marito perennemente assente, ma che almeno riusciva sempre a
tranquillizzarla con uno sguardo affettuoso. E invece lui non c’era mai,
occupato ad organizzare un’altra assurda Crociata, invece di pensare ai terreni
in Italia, che giorno dopo giorno conquistavano più indipendenza.
Non chiedeva molto a Corrado: solo un po’ di tempo per
stare con lei, e liberarla per qualche ora della presenza ingombrante di
Manfredi, che si voleva imporre sempre di più, soprattutto adesso che le
notizie da Corrado si facevano sempre più rare.
Anche loro figlio sentiva la mancanza del padre, e anche
se aveva già due anni era difficile calmarlo, come fosse molto più piccolo.
Immersa nei suoi pensieri, Elizabeth tornò a guardare la
campagna per qualche secondo, e inspirò profondamente l’aria umida del
temporale.
Incrociò le braccia sul petto, insicura. Non avrebbe
dovuto andare da lui, perché come diceva suo cognato Manfred (lo zio del
piccolo): “un principe non piange per la paura, anche se egli ha appena due
anni”. Ma il bambino non era suo figlio, e solo Elizabeth sapeva che dolore si provava
a sentir piangere il proprio figlio senza fare niente. Ancora una volta
infatti, non riuscì a trattenersi, si voltò di scatto e si avviò verso la
camera dove Konrad stava piangendo.
La cameriera la osservò fino a che non scomparve dietro
la porta. L’aria di fierezza e determinazione che inspirava quella regina era
una delle cose che non avrebbe mai dimenticato.
***
Konrad sembrava perfetto. Come uno di quei delicati
angeli che spesso decoravano le sale del castello. Gli mancavano solo le ali.
I suoi grandi occhi azzurri, che sembrava aver strappato
alla madre per quanto erano simili, ora erano colmi di lacrime, e velati di
striature rosse per il troppo pianto. La bocca rosea era spalancata in un
triste urlo infantile, e tutto il viso era inondato di lacrime. Anche i suoi
leggeri e sottili capelli biondi erano arruffati e sudati. Invano una nutrice
cercava di calmarlo accarezzandoglieli dolcemente. Era l’unica tra tutte le
domestiche che stavano intorno alla culla, che manteneva un po’ la calma. La
altre erano in preda al panico e vedere il principino in quello stato, e le
loro orecchie reclamavano silenzio per essere stato troppo tempo a sentire
quelle urla acute e penetranti.
Appena si aprì la porta, e ne entrò la regina, sembrò che
anche il rumore del temporale si fosse ovattato. Le domestiche si zittirono, ma
Konrad non sembrò accorgersi del cambiamento e continuò ad urlare e piangere
come prima, sembrando ancora più forte visto il silenzio.
<< Perché non fate niente? >> Tuonò la regina
con voce scura. << Accarezzargli la testa non calma la paura. >>
Osservò con rabbia.
La nutrice si scostò dalla culla e parlò col capo chino,
sapendo che la risposta avrebbe provocato l’ira della regina. << Re Corrado
è lontano, e lui vuole suo padre. Inoltre il principe Manfredi ci ha vietato di
cullarlo. Dice che un principe … >>
<< So quello che dice. >> La interruppe la
regina. << Ma Manfred non può
ordinare nulla a me. >> Lo aveva chiamato Manfred, con il suo nome di
battesimo, e non “principe”, come avrebbe dovuto fare, perché non lo aveva mai
considerato degno di portare la corona, e sapeva che anche quelle piccole cose
lo ferivano. Era il suo unico divertimento.
Si voltò a allungò le braccia nella culla per prendere il
bambino. Stava per sfiorare le sue manine paffute, quando una voce forte e
spaventata raggiunse la stanza.
<< La regina Elizabeth! Devo parlare con la regina
Elizabeth! >>
La donna si alzò di scatto; e per un attimo il suo
sguardo si fece vacuo e perse la solita fierezza. Ma subito dopo riprese la sua
posa nobile, e la sua voce aveva tutta la solita sicurezza. << Occupatevi
di Konrad. >> Ordinò alla nutrice. << Come si deve al vostro ruolo.
>>
Poco prima di uscire riuscì a vedere con la cosa
dell’occhio la donna che si fiondava verso la culla e sollevava il bambino, per
poi stringerlo al petto.
***
Pochi minuti dopo, la fiera e superba regina era buttata
sul trono della sala delle udienze, e singhiozzava senza ritegno.
Per il momento era sola, il messo che prima la chiamava a
gran voce era stato portato da un guaritore, perché era ferito, e tutte le
guardie e le cameriere erano state fatte allontanare prima che la regina
scoppiasse definitivamente a piangere.
Si aprì timidamente una porta secondaria vicina al trono,
e ne entrò l’unico amico e consigliere che in quel momento era rimasta alla
regina: il Duca Luigi, suo fratello. Rimase un attimo immobile, stupito e
triste allo stesso tempo di vedere la sorella in quello stato. Scordò in un
lampo il protocollo e l’etichetta, che l’avrebbero voluto vedere baciare la
mano alla donna, e parlarle in tono rigoroso e con un testimone. Si accostò a
lei e le passò una mano sulla testa, come faceva suo padre quando erano
bambini. Lei lo riconobbe subito da quel gesto. I suoi singhiozzi diminuirono,
e disse: << Leggi quella lettera. >>
Luigi non si stupì che anche se distrutta, sua sorella
non lasciava il suo tono da regina. Raccolse il piccolo rotolo di pergamena
gettato a terra vicino al trono, ancora un poco arrotolato, e sbirciò il timbro
sulla ceralacca.
Le sue folte sopracciglia biondo scuro si incresparono, e
si fece attento: quello era il sigillo reale.
Aprì la pergamene e la lesse velocemente. Era breve, e
scritta in tedesco, segno che non era ancora un proclama ufficiale. La
calligrafia incerta e tremolante era resa ancora più incomprensibile dalle
macchie di umidità sulla pergamena, ma Luigi, come la regina prima di lui, capì
subito: << Il re è morto. Lunga vita a Corrado V Hohenstaufen. 24
febbraio 1254 >>.
Il cuore di Luigi perse un colpo. Si portò una mano alla
barba, segno che voleva riflettere.
<< Mio figlio Konrad ha due anni. >> Disse la
regina, guardandolo in faccia. << Come faremo, Luigi? Ora è l’unico Hohenstaufen
che può portare la corona. >>
La porta in fondo al salone si aprì solennemente e ne
entrò un uomo; che si avvicinò con lunghi passi da militare. << No, lui non
è l’unico. >> Constatò Manfredi gonfiando il petto. << Sono io.
>>