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Autore: crimsontriforce    18/07/2010    0 recensioni
[L'Approdo] Pittoresca burocrazia locale.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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The Arrival (L'Approdo, Ein neues Land o altri pittoreschi titoli in altrettante lingue – per un fumetto muto certo che si dà da fare a confondere i traduttori) è una cosa unica e preziosa, una graphic novel surreale ma del tutto umana nel parlare di un immigrato che deve lasciare moglie e figlia per trovare lavoro in un mondo nuovo, di cui non conosce nulla. Per me, è fumetto ai più alti livelli e mi sento di consigliarlo praticamente a tutti. O, almeno, consiglio a tutti di sfogliarlo in fumetteria e vedere cosa vi comunica, se vi comunica. Per me è stato amore a prima vista in una sperduta libreria di Spira (...nel senso di Speyer, cos'avete da sghignazzare XP), con quel moto d'affetto che prende quando si pesca l'ultima copia seminascosta di qualcosa di sconosciuto che trasuda meraviglie fin dalla copertina. E spero di non fargli un torto con queste poche parole di slice of life.
Qualche tavola per gradire...
Il racconto comunque è quasi un'original surreale, se si parte dal presupposto che c'è un immigrante arrivato da poco in una città piena di cose strane.







Virgole e fiori d'inchiostro






L'ufficio era accogliente, tiepido e minuto. L'uomo esitava. Non aveva ben chiaro perché fosse stato convocato – gliel'avevano spiegato più volte in quella loro lingua straniera, ora guizzante ora aguzza come i caratteri che usavano per fissarla su carta. Gli erano arrivati solo frammenti di senso, forse nemmeno quelli. A meno che non c'entrassero delle bretelle.
Con un cenno nervoso del capo, si sedette di fronte a un dottore, o un impiegato, un signore fragile dalla pelle scura scura su cui risaltava un paio di occhialetti tondi e scintillanti. Sorrideva. Gli sorrise a sua volta. La scrivania che li separava si imbarcava sotto il peso di pile di formulari, una pianta d'appartamento (viola, sferica, lanosa, ma una pianta – forse) e un discreto assortimento di portapenne.
Di fronte alla sua sedia, un modulo bianco. Pescò alla cieca dal portapenne più vicino e storse la bocca nel vedersi in mano un troncone senza punta, come se a mezza penna di legno modesto ma ben levigato avessero avvitato un ramo spugnoso. Lo strusciò con circospezione sul foglio, variandone l'inclinazione per cercare una qualche traccia d'inchiostro, senza successo. Solo una virgola sbiadita. Dopo qualche tentativo alzò lo sguardo verso l'altro, sollevando la penna, assieme alle mani, in segno di resa.
Si aspettava che l'impiegato, o il dottore, portasse pazienza per questa sue incapacità: il chiacchiericcio della sala d'attesa gli rimbombava ancora nelle orecchie ed era sicuro di aver sentito altre voci estranee – non la sua parlata, quella no, ma altre storie di ombre e di acqua e di cielo. Non era l'unico spaesato, quel signore con gli occhi e gli occhiali scintillanti avrebbe capito.
Non si aspettava però che, una volta presa la penna dalle sue mani, quello se la mettesse in bocca e la ciucciasse pensieroso. Poi se la cavò fuori di bocca, la guardò per bene in controluce e se la passò su un dito, come se avesse cercato di far uscire l'inchiostro succhiandolo dalla parte spugnosa e ora ne stesse controllando l'efficacia..
“No, no, la prego”, avrebbe voluto dirgli. “Non c'è bisogno, mi arrangio da me. Ne prendo un'altra. Scrivo con la mia.”
Ma non l'avrebbe comunque capito. Finì per aprire la bocca senza emettere fiato e stringerla in una “O” piuttosto comica, se qualcuno si fosse fermato a guardarlo. Non l'altro. Quello era impegnato a svitare la parte che aveva messo in bocca e riavvitarne una uguale, appena estratta da un sacchetto sigillato. Poi gliela porse.
“Grazie”, disse comunque – il tono di un 'grazie' era universale, no? – provando di nuovo a sfregarla sul foglio. Ancora nulla. Frugò nel taschino per prendere la sua matita, ma si sentì dare due colpetti sul gomito: il signore stava facendo segno di no con la testa e lo invitava a imitare i suoi gesti di prima. Aveva delle belle mani, sottili e rugose.
Provò a imitarlo, senza riuscire a nascondere una piccola smorfia. Mise in bocca la punta della penna e la succhiò un pochettino. Sapeva di pane secco e un tocco di liquirizia. Poi si la passò sul dito, come aveva fatto l'altro, e vide che lasciava davvero una traccia d'inchiostro. Incontrò un sorriso: aveva fatto bene. Ottimo, forse sarebbe riuscito a sbrigarsela entro sera. Un dito indicava un quadrato sul modulo e prima che magari la penna si seccasse e si dovesse rifare tutto da principio l'uomo la puntò con forza lì in mezzo, tozza, perpendicolare, sperando che quell'impiegato gentile lo guidasse fino alla fine della procedura.
La sorpresa gli fece quasi lasciare la presa. Un'abbondante goccia color seppia si era depositata tutta sul quadretto, venendo perlopiù delimitata dai segni neri prestampati, ma fluendo libera sul foglio da una fessura presente su ogni lato. Come un germoglio, guizzò lungo la carta porosa in rami e spirali, seguendo percorsi che il signore osservò con grande attenzione dietro ai suoi occhialetti, fino ad esaurirsi dentro ai numerosi cerchi che costellavano il foglio. Ora, ognuno di essi racchiudeva un fiore complesso e unico color seppia.
Le ultime spirali si formarono a fatica dai quattro tronchi principali e il foglio tornò inerte. Mentre attendevano che fosse del tutto asciutto, capì a gesti che quel cerchio là in alto stava per cuore, uno in mezzo per fegato e gli altri chissà.

Soddisfatto, il medico archiviò il suo esame in uno scaffale, sotto la lettera 'manico di ombrello rovesciato'. A giudicare dal sorriso, sembrava che i risultati fossero regolari. Avanti il prossimo. L'uomo scrollò le spalle e si avviò verso casa.

Sanità pubblica. Non ci si sarebbe mai abituato.
   
 
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