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Autore: Kalix_89    21/07/2010    4 recensioni
Provo qualcosa per Yoite, qualcosa che non ho mai provato, per nessuno. Forse, è davvero quella che tutti chiamano la sindrome di Stoccolma. Forse ancora, è solo perchè ho visto in lui qualcosa di me. O forse, c'è qualcos'altro dietro quest'emozione che mi travolge quando penso a lui...?
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Miharu Rokujou, Yoite
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Finalmente, dopo ore di attesa, il  suono della campanella annuncia la fine delle lezioni. Il suo trillo interrompe all’improvviso la spiegazione del professore di matematica, ma non mi importa: ho già riposto tutti i libri e i quaderni nello zaino e mi avvio di fretta verso l’uscita dell’aula.

Stare a scuola mi sta stretto ultimamente: non riesco più a trovare nessun interesse verso problemi matematici o traduzioni d’inglese, mi sembra tutto così inutile e privo di senso in confronto a ciò che sta accadendo nella mia vita.

Voglio dire, come posso studiare ora che so di avere dentro di me una potentissima arte segreta, che chiunque desidererebbe possedere? Come posso preoccuparmi di compiti e interrogazioni adesso che io, un timido e silenzioso ragazzino che è sempre passato inosservato, potrei diventare re di Nabari?

Eppure oggi, qualcosa di interessante durante la lezione di letteratura l’ho trovata. Sorrido ripensandoci, mentre cammino lentamente per le strade di Banten. Oggi il professore ci aveva spiegato cosa fosse… com’è che l’aveva chiamata? Ah, sì. La sindrome di Stoccolma.

“Succede quando una persona rapita inizia a provare dei sentimenti nei confronti del suo rapitore” ci aveva detto.

Mentre scarabocchiavo il banco annoiato, quelle parole mi avevano colpito facendomi quasi sobbalzare. Perché avevo pensato a lui. A Yoite. Al giorno in cui mi aveva rapito. Mentre ero perso in quei ricordi, il professore era andato avanti.

“Succede anche, e soprattutto, a quelli che subiscono da parte loro torture e violenze” aveva spiegato.

No, questo però non era il mio caso. Sì, è vero, per rapirmi e portarmi via aveva colpito e fatto perdere i sensi a Koichi e Raimei, e il posto in cui mi aveva portato non era dei migliori: un vecchio vagone di treno nel mezzo di un bosco, umido e malridotto. Eppure, non mi aveva mai fatto del male.

Ero certo che non me ne avrebbe fatto, per questo non avevo paura di lui: perché sin da quando avevo incrociato per la prima volta i suoi occhi, durante quella battaglia nel villaggio di Fuuma, la prima cosa che avevo pensato era che essi erano incredibilmente uguale ai miei. Anche se tutti temevano lui e il suo potere, quello sguardo celava che in realtà era solo un ragazzo fragile e indifeso. Usava il Kira per difendersi dagli altri, esattamente come io utilizzavo la mia indifferenza come arma per proteggermi dal mondo esterno.

Una prova del fatto che non fosse il terribile mostro che tutti pensavano, fu che il giorno in cui mi rapì sciolse il sigillo del Kira che aveva conficcato nel mio occhio durante il nostro primo incontro.

“Solo io posso rimuovere il Kira dalle persone colpite” mi aveva spiegato. “Ci vedi ora?” aveva chiesto poi.

C’era una sorta di gentilezza nella sua voce, un’educazione, perfino quando mi aveva fatto quella richiesta che non mi lasciava alcuna scelta.

“Impara a utilizzare lo Shinrabansho e cancella la mia esistenza prima che io muoia. Devi fare in fretta: quando morirò, moriranno con me tutte le persone nelle quali ho inserito una parte di me con il Kira. E quindi, anche Koichi, Raimei e il professor Kumhoira.”

In effetti, poteva essere definito un ricatto bello e buono. Allora perché avevo accettato così in fretta? Bè, era ovvio. Per salvare la vita dei miei amici, mi ero risposto subito. Tuttavia, dentro di me sentivo che quella non era tutta la verità. Non l’avevo fatto solo per loro, anche se l’avevo capito solo dopo un po’ di tempo.

La realtà, era che quel giorno mi ero sentito vivo per la prima volta dopo quattordici anni. Perché nel momento in cui se ne stava andando, all’improvviso un’inspiegabile paura si era impadronita di me. La paura di non rivederlo mai più. Era così forte e insopportabile  che glielo chiesi di getto.

“Ci rivedremo, Yoite?”

“Sì” rispose lui,  mentre si allontanava.

Quella semplice parola bastò per provocare in me una sensazione sconosciuta. Non so spiegare cosa fosse, perché non avevo mai provato nulla del genere prima di allora.

Era come se nel petto, il cuore che non sapevo di avere avesse ripreso a battere. Come se il sangue freddo nelle mie vene avesse iniziato a scorrere più velocemente. Non ero più morto dentro: avevo una ragione per cui vivere adesso.

Mentre sono quasi sulla soglia di casa, ripenso alle ultime parole con cui il professore aveva terminato la sua spiegazione.

“La sindrome di Stoccolma non è normale, è qualcosa di malato e morboso.” aveva concluso.

E così, era questo che la gente pensava. Provare qualcosa nei confronti di chi ti ha rapito è sbagliato. Se poi, per di più, questo qualcuno è un ragazzo del tuo stesso sesso, instabile, con atteggiamenti distruttivi verso sé stesso e verso gli altri, la cosa è  doppiamente anormale e contro natura.

Rido pensando a questi due aggettivi. D’altronde io, Miharu Rokujo, cosa avevo mai avuto di normale in tutta la mia vita? Nulla.

E ora, desidero solo rivedere Yoite, rivedere quel ragazzo che nonostante quegli occhi di ghiaccio aveva mandato in fiamme il mio mondo. È così sbagliato? Non credo.

Possono dare il nome che vogliono a questa sensazione del mio cuore che brucia quando penso a lui.

Possono chiamarla sindrome di Stoccolma. Possono chiamarla follia. Ma è la sensazione più bella che abbia mai provato.

 

 

 

   
 
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