Non fatevi spaventare dal cambiamento di nickname, sono
sempre io xD
Ultimo capitolo ç__ç
L’ho scritto secoli
fa, in realtà. Ci ho rimuginato su a lungo perché ogni volta che
lo rileggo mi sembra che manchi qualcosa. È un po’ la stessa cosa
che mi bloccava con il capitolo su Near –
guarda caso, anche ora si parla di Death
Note. Sarà destino. Oh, beh, io vi ho avvisati.
[Di nuovo un rapporto assolutamente
non romantico – solo paterno. Dio sa se non è importante
anche quello.]
Grazie a Dany92 e Fede_Wanderer per le recensioni
al precedente capitolo; non merito tanti complimenti, proprio no.
Grazie a Rein94, RiruSevilla, Shadow Eyes e YunaRoseMasen per aver inserito
la raccolta tra le preferite.
Grazie a pralinedetective
e Rein94 per averla inserita tra le
ricordate.
Grazie a Akachi, bika, Dany92, Elos, Nuit e Raimbow per averla seguita.
Cosa posso dire, se non
che è tutto merito vostro se sono arrivata fino a qui?
Vi adoro.
Spero di ritrovarvi al
più presto con una nuova storia. E adesso, buona lettura.
Hope you like it <3
Abisso
Fandom: Death Note
Personaggi: Watari / Quillsh Wammy, L Lawliet
Genere: Introspettivo, Malinconico
Rating: Verde
Ambientazione: Molti anni prima
del caso Kira
Prompt: #10. Worse days (I
giorni peggiori)
Quando
era arrivato all’istituto, il bambino aveva faticato ad ambientarsi.
Lui
lo aveva visto vagare nei corridoi, lentamente e senza meta, per ore intere,
prima di crollare a sedere in quella maniera curiosa sul pavimento nudo. Lo
aveva visto rifiutare ogni genere di cibo che non fosse zuccherato a livelli
impensabili, e supplire a modo suo all’eventuale carenza, immergendo le
caramelle nel miele purissimo o riempiendosi la tazza della colazione con
più zollette di zucchero che caffelatte. Lo aveva visto guardarsi intorno
con occhi sbarrati, quasi a voler capire
meglio, a cercare qualcosa che tuttavia non riusciva a vedere.
Eppure
mai, neppure una volta, lo aveva visto cedere.
Era
quando chiudeva gli occhi e vedeva la neve.
Il
bambino lo sapeva, sapeva benissimo che era solo un effetto del ricordo e della
nostalgia e delle cose sopite. Ma la consapevolezza non gli impediva di
sentire, ogni volta che trovava il bianco della neve ad aspettarlo nel buio
della mente, lo stesso freddo di quella prima volta (…)
Quella
notte Quillsh Wammy era
sveglio. Il recente viaggio all’estero aveva stravolto il suo fuso orario
mentale, impedendogli di riadattarsi subito all’abituale ritmo
giorno/notte. Perciò, quando i passi risuonarono fuori dalla sua porta,
strappandolo ai suoi pensieri e al suo lavoro al computer, non esitò un
istante ad interrompersi e ad uscire in corridoio.
Il
bambino era lì nell’ombra, seminascosto in un pigiama troppo
grande, la manina aperta sul muro. Si voltò a guardarlo piano, negli
occhi nessuna traccia di espressione.
L’uomo
lo fissò, sorpreso, ma non preoccupato. « Cosa succede? »
«
Non riesco a dormire. »
Preciso,
puntuale, sintetico. Neanche un’inflessione nel tono di voce.
«
Hai bisogno di parlare? »
Scosse
la testa. « Ho bisogno di capire. »
L’uomo
sorrise, incoraggiante. « Capire cosa? »
Quegli
occhi immensi e neri perforavano i suoi.
«
Capire perché mi sento così. »
Era
quando restava in silenzio e sentiva le campane.
E
succedeva spesso, non importava il luogo o il contesto. E non serviva neppure
tapparsi le orecchie, infilare la testa sotto un cuscino, canticchiare qualcosa
a mezza voce; le campane erano sotto la sua pelle e dentro la sua testa e gli
rimbombavano nel petto – non le senti, non le sentite? Ma come fate
a non sentirle? (…)
L’uomo
rimase immobile a guardarlo. Non li separavano che pochi metri, ma in quello
spazio in penombra giaceva un abisso.
Il
bambino proseguì, sempre in quel suo tono lucido. Come se non gli
importasse del dolore intrinseco di quella domanda cruda.
«
Io non ho niente dentro. Eppure fa male. Perché? »
La
manina sul muro – se ne accorse all’improvviso – si era
chiusa a pugno.
Era
quando restava da solo, come era successo in quei giorni (…)
«
Non è così… »
«
Certo che è così. Io sono vuoto, lo sono adesso più che
mai. Ed è colpa tua » concluse, in tono piatto, fissandolo senza
accusa.
L’uomo
non capiva. Ricambiò lo sguardo, anche se gli faceva male – era così distaccato, Dio, così
terribilmente adulto. Così sbagliato.
«
Perché dici questo? »
Era
quando non sentiva la sua mano pronta a sorreggerlo, come era
successo in quei giorni (…)
«
Perché te ne sei andato via. Per troppo
tempo. E a me è rimasto il vuoto. »
‘Per troppo tempo’.
Era
stato via per pochi giorni.
In
quel momento – soltanto in quel momento – i suoi occhi neri e
immensi si riempirono di lacrime. Che scesero giù, sempre più
giù, in silenzio.
Il
bambino si portò la mano al viso, evidentemente sorpreso. Si
toccò una guancia, avvicinò i polpastrelli agli occhi. Forse gli
venne voglia di assaggiarli. Ma l’uomo non gli diede il tempo di fare
altro.
In
pochi passi superò l’abisso, cadde in ginocchio e se lo strinse al
petto.
Lui
non si mosse, ma Quillsh Wammy
sentì che, dentro la stretta, tornava davvero bambino.
«
Non me ne andrò mai più. Non ti lascerò più solo.
Te lo prometto. »
Era
quando si ricordava di essere un bambino.
Erano
i giorni peggiori.