Anime & Manga > Suzumiya Haruhi no yūutsu
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Autore: Kuri    24/07/2010    13 recensioni
E' il giorno del White Day e Kyon ha qualche problema a capire cosa vuole realmente Haruhi da lui... che sia forse un regalo da innamorato?
Genere: Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fic scritta per il concorso Contest: Gratta e Vinci ... forse indetto da Yuri... beh, che dire, sono contenta del risultato anche perchè era almeno un anno che non mettevo mano ad una fanfiction, e la prima in assoluto che scrivevo su Haruhi & Co. e mi sono divertita veramente troppo. Sono diventati ufficialmente i miei preferiti, sia chiaro!
Perciò la speranza di rivederci su questi lidi è davvero qualcosa di molto concreto, anche perchè questa sarà una calda calda estate di fangirling! <3
Enjoy!! XD







L'emozione di Haruhi Suzumiya






“Il bisogno di festeggiare determinate date nel rispetto delle tradizioni è molto comune in tutte le adolescenti giapponesi. E sapendo quanto Suzumiya è attenta a queste cose, sono certo che si aspetta da te qualcosa per oggi. Mi raccomando, confido nel fatto che saprai evitare con la tua consueta abilità, anche per questa volta, la fine del mondo! See you! (^^)
Koizumi”


Credo di non aver mai provato un così forte desiderio di spezzare il cellulare a mani nude come in quella mattina in cui ricevetti il messaggio di Koizumi. Ero talmente infuriato da pensare che, anche con la mia scarsa propensione all'attività fisica, sarei riuscito a sbudellare l'apparecchio che aveva portato fino a me parole tanto odiose. Evidentemente neppure le gite istruttive al più vicino museo di teatro Kabuki erano sufficienti per tenermi lontana la fastidiosa saccenza di quel maledetto esper.
Uscii dalla schermata dei messaggi finché sullo sfondo illuminato dello schermo non comparve la data del dannato giorno in cui avevo avuto la malaugurata idea di svegliarmi.
Quattordici marzo.
Non vi dice nulla?
Purtroppo qui può voler dire solamente una cosa. White day. [1]
Ovvero... perchè mi sarei dovuto ricordare di regalare del cioccolato ad Haruhi, quando lei aveva beatamente bollato il giorno di San Valentino come un'immane sciocchezza e non si era degnata di presentarsi neppure con l'ombra di un cioccolatino preconfezionato? Non parliamo poi di qualcosa tanto moe [2] come del cioccolato fatto in casa, immagine che comunque non riuscivo in nessun modo a sovrapporre a quell'onnipotente egocentrica – senza avere inoltre la necessità di precisare che, la mattina del quattordici febbraio, Asahina-san mi aveva preso da parte nella pausa tra una lezione e l'altra e con occhioni luccicanti e guance deliziosamente soffuse di rosa acceso mi aveva confidato di non avermi portato nulla solo per timore di scatenare la fine del mondo... letteralmente –.
Sospirando mi infilai il cellulare nella tasca della giacca della divisa, e aprii l'armadietto delle scarpe. Non sapevo davvero cosa aspettarmi da Haruhi, e non avevo certo bisogno delle parole di Koizumi per avere la matematica certezza che qualsiasi cosa avrei fatto sarebbe stata irrimediabilmente sbagliata.
Sospirai di nuovo. Forse dovevo fare dietro-front e tornarmene a casa, fingendo di aver contratto una qualche strana malattia tropicale che mi deturpava orribilmente. Invece me ne stavo lì in piedi, come un idiota, a fissare il tallone consumato delle mie scarpe ancora dentro l'armadietto, tentennando con le braccia abbandonate lungo il corpo.
No. Non pensatelo neppure per scherzo. Non avevo affatto paura di affrontare Haruhi. Dopo tutto quello che mi aveva fatto passare, consegnare del semplice cioccolato – solo per evitare qualche grave dissesto interplanetario, tra l'altro – non rappresentava sicuramente una sfida così insormontabile.
Inclinai la testa di lato, sospirando per la terza volta, e infilai la mano nella tasca della giacca.
Le mie dita sfiorarono qualcosa di soffice. Estrassi l'oggetto che precedentemente, mentre riponevo il cellulare, non avevo sentito.
Osservai il quadrato di stoffa candido, ripiegato accuratamente, che stringevo in mano.
Il fazzoletto di Nagato.

Un paio di giorni prima, nell'aula del club, io e Nagato stavamo aspettando svogliatamente l'arrivo degli altri membri dell'associazione a delinquere di cui eravamo stati costretti a far parte.
Nagato stava come sempre leggendo un libro accanto alla finestra, e l'unico suono che si sentiva nella stanza era il fruscio leggero delle pagine che venivano voltate. Io osservavo distrattamente il cielo lattiginoso che sovrastava la scuola, il capo abbandonato sul tavolo e le braccia che penzolavano ai lati delle ginocchia. Mi sentivo costretto da una strana malinconia. L'anno scolastico stava terminando, l'anno che aveva così profondamente sconvolto la mia esistenza, insieme a quella di Asahina-san, Koizumi e... Nagato. Mi ero girato istintivamente nella sua direzione ed ero rimasto a fissarla mentre lei continuava a leggere, imperturbabile.
Ero sempre stato convinto, man mano che Haruhi sconvolgeva progressivamente le nostre vite e ci trascinava nella sua spirale di infernale delirio, che le vittime designate fossimo io e Asahina-san, costretti a subire rispettivamente i ruoli di ragazzo-facchino e di bella ragazza con viso adorabile e grossi seni.
Tuttavia, con il trascorrere del tempo, si era insinuata in me l'idea che, probabilmente, era sempre stata Nagato quella che si era dovuta addossare l'onere non solo di riuscire a contenere l'irrefrenabile potenza di Haruhi, ma anche delle nostre speranze di avere sempre una sicura via di fuga nel momento in cui ci saremo trovati irrimediabilmente affondati nei guai.
Non ci eravamo mai fatti alcuno scrupolo ad aspettare da lei una soluzione, tutte le volte. Riportare me e Asahina al tempo presente dal passato, salvare una partita di baseball che probabilmente avrebbe condotto alla fine del mondo, farci vincere una stupida sfida con il club di informatica, anche se in quel caso non aveva dovuto sfoderare i suoi incredibili poteri. Per non parlare... di un'estate infinita di cui conservare il ricordo di ogni singolo istante, di ogni parola e di ogni singolo gesto compiuto, nella solitudine della propria consapevolezza.
Cosa aveva provato Nagato, in quell'estate durata quasi seicento anni?
La risposta a quella domanda l'aveva portata l'inverno.
Tuttavia, il tempo aveva continuato a scorrere, vedendo ripetersi sempre il consueto schema di avvenimenti – e con tutto quello che era accaduto non riuscivo a capacitarmi di quanto questo sembrasse ironico – e Nagato era ancora quella su cui tutti contavamo, su cui più di ogni altro io facevo affidamento, come una porta d'emergenza la cui scritta Exit brilla verde e rassicurante nel buio.
Avevo rialzato il busto, prendendo a dondolarmi piano sulle due gambe posteriori della sedia, e lo sguardo era rimasto sulla figura minuta di Nagato, e l'espressione concentrata del suo viso. Ok, quell'espressione ce l'aveva sempre, non solo mentre stava leggendo.
Avrei voluto fare qualcosa. Qualcosa di reale e concreto, come il giorno in cui l'avevo accompagnata in biblioteca. Nagato non aveva sorriso, ma io avevo sentito qualcosa di diverso irradiarsi da lei, come una sorta di eccitazione elettrica sotto la pelle, e per un istante, una singola frazione di secondo che solo io ero riuscito a cogliere, il suo sguardo era stato di un'intensità tale da bloccarmi.
A quel punto Nagato aveva sollevato di colpo la testa e mi aveva puntato addosso i suoi occhi liquidi come metallo. Io avevo sussultato, sbilanciandomi sulla sedia già in equilibrio precario. Ero scivolato all'indietro e nel tentativo di non farmi male cadendo malamente a terra, mi ero aggrappato alla lavagna alle mie spalle dove un piccolo chiodo sporgente mi aveva ferito un dito, facendolo sanguinare.
Ero comunque finito con il sedere a terra. Quando avevo fatto per rialzarmi avevo sollevato lo sguardo e Nagato era in piedi di fronte a me. Mi porgeva silenziosamente un piccolo quadrato di stoffa bianco. Io ero rimasto a fissarla perplesso, incapace parlare e di alzarmi. Allora lei si era accucciata di fronte a me, aveva raccolto la mia mano tra le sue e aveva coperto la ferita al dito con il fazzoletto, senza smettere di guardarmi in viso.
È strano, ma ricordo che in quel momento ho pensato solo che un'interfaccia umanoide dovesse per forza avere mani fredde come quelle con cui mi stava toccando Nagato.
Ero riuscito solamente a rialzarmi in piedi frettolosamente, balbettando che le avrei riportato il fazzoletto lavato il giorno dopo. Lei aveva annuito semplicemente, senza pronunciare una parola, ed era tornata a sedersi.
Quando erano arrivati gli altri, la sala del club era immersa nel silenzio.

La zona degli armadietti era ormai deserta.
Ero riuscito accuratamente ad evitare chiunque sembrasse troppo felice o rapito da una trepidante attesa, perciò potevo ritenermi soddisfatto, senza sentirmi troppo in colpa per l'aridità in cui nuotava il mio cuore. Quel genere di convenevoli non erano decisamente nelle mie corde, quella mattina.
In ogni caso, semplicemente, nessuna aveva regalato a me del cioccolato il mese scorso, perciò...
Mentre mi voltavo per dirigermi verso le scale, sentii la pressione di qualcuno che andava ad urtare contro la mia schiena, accompagnata da un gemito di dolore così grazioso che non avrei potuto sbagliare ad indovinare chi era stato a lanciarlo.
Quando mi girai, trovai di fronte a me Asahina-san che si stringeva tra le mani il naso e piagnucolava debolmente.
«Umm...»mormorò sollevando con lentezza il viso. Appena mi vide, trasalì e le sue guance si imporporarono.
Ci sono momenti in cui ringrazio i kami, Buddah, Maometto e anche Gesù perché esiste qualcosa come il grazioso viso di Asahina-san e le consuete situazioni da shōjo scolastico.
«Perdonami Kyon-kun... sono in ritardo, la sveglia non è suonata...» piagnucolò mentre si massaggiava la punta del naso, con gli occhi enormi e liquidi che mi scrutavano con imbarazzo.
«Non è un po' strano che una viaggiatrice del tempo abbia a casa degli orologi che non funzionano?»
Il suo visino si contrasse in una smorfia di tristezza e due grosse lacrime le spuntarono agli angoli degli occhi castani, rigandole le guance.
L'ingenuità di Asahina-san riusciva a sconvolgermi ogni volta che parlavo insieme a lei.
«Mi dispiace, sono un disastro...» tra un singulto e l'altro la voce le si spezzava in tanti piccoli frammenti, mentre iniziava a piangere a dirotto.
«No, ti prego, non piangere... stavo scherzando, Asahina-san, era solo uno scherzo...»
Lei sollevò il volto arrossato verso di me. Se Tsuruya-san e Haruhi mi avessero visto in quel momento, credo che molto probabilmente sarei stato picchiato a sangue mentre il mondo collassava su sé stesso.
Istintivamente infilai la mano nella tasca della giacca e le porsi il fazzoletto di Nagato.
Asahina si asciugò le lacrime dalle guance, continuando a tirare su leggermente con il naso.
In quel momento suonò la campanella che segnalava l'inizio delle lezioni. Asahina si voltò a guardare le scale che portavano al piano superiore dove si trovavano le nostre aule.
«Kyon-kun, io devo andare. Te lo riporto domani pulito...»
Le sfilai il fazzoletto dalle dita. Le nostre mani si sfiorarono lievemente, e lei sgranò gli occhi per la sorpresa, quasi come se quello che era appena accaduto fosse emerso da un sogno.
Socchiuse la piccola bocca rosa e la coprì con la mano.
«Non ti preoccupare. Vai pure in classe, prima che il professore ti rimproveri...»
Lei annuì e iniziò a correre con quel suo modo buffo e saltellante verso le scale. Forse, se l'avessi seguita con molta discrezione, avrei potuto avere il privilegio di vedere l'incavo del suo ginocchio sbucare dal cappottino candido ad ogni gradino.
Tentennai, dondolandomi sulle scarpe, ricacciando il fazzoletto in tasca. Forse c'era qualcosa di meglio che potevo fare per l'animo puro di Asahina-san, piuttosto che comportarmi come un pervertito.
Mi lanciai sulle scale dietro di lei, mentre infilavo la mano nella borsa della scuola.
«Asahina-san!»
Lei si fermò e si voltò verso di me, mentre i capelli le accarezzavano il viso durante il movimento repentino.
Mentre le passavo accanto le presi la mano e le appoggiai sul palmo un piccolo sacchetto trasparente, decorato da un lungo nastro bianco e rosa. Lei abbassò lo sguardo stupita. All'interno c'era un coniglietto di cioccolato bianco, decorato con piccoli zuccherini al posto degli occhi e della bocca.
Mi chinai leggermente verso di lei. I suoi capelli avevano un profumo dolce.
«Have a good White Day, Asahina-san.»
Proseguii lungo le scale, ma non sentii i suoi passettini seguirmi, ma solo dei deboli singhiozzi, e un arigatou appena sussurrato.
Di una cosa ero sicuro. La prossima volta che mi avesse visto, Tsuruya-san mi avrebbe ammazzato di botte per aver fatto piangere Asahina.

Riuscii ad arrivare in classe appena un secondo prima dell'inizio della lezione.
Mi diressi verso il mio banco e come il solito sollevai la mano in un gesto stanco verso Haruhi, che si limitò ad un cenno della testa, visto che il professore aveva già iniziato a parlare e a scrivere velocemente sulla lavagna.
Mi lasciai cadere sulla sedia.
Il messaggio di Koizumi continuava a ronzarmi in testa, con tutte le sue detestabili implicazioni.
Mi voltai per scrutare di sottecchi Haruhi. Lei teneva lo sguardo puntato verso di me, con gli occhi scuri che le brillavano di una luce che mi fece salire un brivido lungo la schiena. Quella era l'espressione di qualcuno che si aspetta che tu faccia qualcosa, ma non qualsiasi cosa, bensì esattamente ciò che ha in mente in quel momento.
Era finita, lo sapevo.
Io non riuscivo a capire cosa aveva per la testa Haruhi in quel momento, nonostante Koizumi sostenesse che forse ero quello che ci riusciva meglio. Come potevo essere in sintonia con quell'egocentrica? Come potevano sospettare che avessi il potere per tenerla a bada? Era appena iniziata la giornata e già mi sentivo sfinito.
Non sapevo cosa voleva Haruhi, anche perché lei aveva la straordinaria capacità di stupirti ogni volta, scombinando ogni ragionevole previsione.
Era finita.
Avrei dovuto dire addio a tutto quello che avevo di più caro al mondo, agli amici, al mio brillante futuro. Non avrei potuto restituire a Nagato il suo fazzoletto e chiederle se mai, nella sua breve vita, avesse mai desiderato di sorridere. Per non parlare che non avrei mai saputo di quanto sarebbe stata deliziosa Asahina-san con tutti i cosplay che avevo in mente – e che sicuramente la valorizzavano molto di più di quelli che escogitava Haruhi.
Per tutto il resto della mattinata non ebbi l'occasione di scambiare neppure una parola con Haruhi. Una forza invisibile sembrava tenerci separati, come se fossimo stati da un capo all'altro dell'universo, quando eravamo invece lontani solo pochi passi.
Avevo tentato di avvicinarla durante le pause tra una lezione e l'altra, ma una volta era impegnata ad illustrare un compito ad una compagna, un'altra volta io venivo bloccato dalle solite chiacchiere idiote degli altri ragazzi.
Gettavo continuamente occhiate verso di lei, o brevi saluti a cui Haruhi rispondeva con cenni impercettibili del capo. Incontravo i suoi grandi occhi scuri che mi fissavano con intensità, ma da quando ero entrato in classe non ero riuscito a rivolgere nient'altro che uno “Yo”.
Iniziavo a sentirmi a disagio.
Cosa stava accadendo? Perchè non riuscivo a raggiungere Haruhi, ad allungare una mano e afferrarla? Era come se nell'aria ci fosse stato qualcosa di strano che rendeva i miei movimenti e i pensieri confusi, come se la luce di un grosso riflettore mi fosse stata puntata addosso, per vedere quale sarebbe stata la mia prossima mossa.
Che fosse ansia da prestazione?
Nella borsa avevo altri due coniglietti di cioccolato.


***



Nella pausa pranzo, Haruhi sparì.
Non feci in tempo a voltarmi con il mio bento tra le mani che riuscii solo a vederla correre oltre lo stipite della porta della classe. Prima di uscire dal mio campo visivo, mi gettò una lunga occhiata che mi fece sentire nuovamente quel formicolio alla base della nuca.
Mi alzai immediatamente. Quando però uscii in corridoio, lei non c'era già più, come se fosse svanita nel nulla. Mi guardai attorno, ma ovunque riuscivo solo a scorgere coppiette che si guardavano negli occhi, mentre pacchetti infiocchettati di bianco passavano di mano in mano, accompagnati da tremolanti sospiri.
Quella visione mi parve agghiacciante.
Iniziai a camminare lungo il corridoio sempre più velocemente, fino a mettermi a correre. C'era un unico luogo, in tutto l'universo conosciuto, in cui sarei potuto essere in salvo e i miei piedi avanzavano sul pavimento concentrati in quell'unica direzione, anche a rischio di prendermi una nota scritta.
Quando spalancai la porta dell'aula del club, la stanza era immersa in un silenzio serafico, inondato dalla luce fredda di quel pomeriggio di marzo. Non avevo bisogno di sollevare lo sguardo per sapere che Nagato era seduta accanto alla finestra e che probabilmente mi aveva lanciato una lunga occhiata impenetrabile appena avevo fatto irruzione, per poi tornare ad immergersi nella lettura.
Haruhi però non c'era.
Mi buttai a sedere e inclinai la testa all'indietro. Il soffitto color crema gravava su di me come un macigno.
Mi sentivo un vero idiota. Avevo dovuto affrontare cose ben più terrificanti del White Day, non vi pare?
«Si sta verificando un'alterazione di dati ambientali attorno a Suzumiya-san.» le parole di Nagato cadevano fredde come gocce «Ma lo schema di questa alterazione non coincide con quelli che si verificano all'approssimarsi del collasso di questa realtà. Tuttavia sta accelerando.»
Abbassai la testa.
«Cosa significa?»
«Quello che ho detto.»
Sospirai, affondando la fronte nel palmo della mano. C'era da aspettarselo, Haruhi era sempre la causa di qualsiasi cosa stesse contribuendo a scombussolarmi la vita.
«E non è pericoloso.»
«Per il momento, no.»
Continuai a fissare la scatola del bento. Sebbene fossi un ragazzo nel pieno furore della propria età, in queste situazioni non riuscivo ad avere appetito.
Quando rialzai lo sguardo, Nagato era in piedi di fronte a me. Non l'avevo sentita alzarsi.
«Secondo i miei calcoli, tutto è iniziato ieri sera verso le nove, e lo schema sinusoidale di dati alterati ha subito un'accelerazione questa mattina alle ore sei e trentadue, orario in cui Suzumiya-san è solita alzarsi. Tuttavia questo andamento ondulatorio dello schema fa pensare che l'instabilità progressiva dei dati abbia avuto origine dal giorno tredici febbraio alle ore venti e quarantasette.»
Che diamine significava? Nagato a volte dimostrava di fidarsi un po' troppo delle mie capacità di comprensione.
«Il pattern della flessione dei dati prodotti da lei si è già verifica in altre distinte occasioni.»
Continuai a rimanere a bocca aperta. Ero ipnotizzato dal tono neutro della sua voce.
«Sette luglio. Ventiquattro dicembre. Primo gennaio. Quattordici febbraio. Quattordici Marzo.»
Mi accigliai. Rimasi a riflettere per qualche istante. Che Haruhi avesse una mania insana per determinate ricorrenze, era qualcosa di risaputo – anche se mi chiedevo perché, qualcuno che etichettava come banale il genere umano, smaniasse poi come una bambina per una visita collettiva al tempio in kimono per salutare l'anno nuovo – ma... nella sua top ten delle festività rientrava anche il White Day?
«Stiamo rischiando concretamente una distorsione spazio-temporale?» le chiesi con voce decisa.
«Con i dati attuali no.»
«Circoli chiusi?»
«Con i dati attuali no.»
«Catastrofi naturali, omicidi inspiegabili, sparizioni di massa?»
«Con i dati attuali no.»
Tirai un sospiro di sollievo. Quella risposta ambigua per me era già sufficiente, era un salvagente a cui aggrapparsi con tutte le mie forze all'interno della deriva in cui mi stava mandando Haruhi.
«Quindi non serve che faccia nulla, vero?» le chiesi sporgendomi sulla sedia, i gomiti puntati sulle ginocchia. Nagato non mi rispose.
Già.
Infatti.
Che io facessi o meno qualcosa, questo avrebbe comunque scatenato una reazione di Haruhi. Che fosse la fine del mondo o la fioritura anticipata dei ciliegi, non aveva importanza. Dovevo essere pronto a qualsiasi evento.
Nagato si voltò per tornare a sedersi.
«Aspetta!» esclamai, sfiorandole il braccio inerme, abbandonato lungo il corpo.
Lei si fermò e si voltò verso di me.
«Volevo restituirti il tuo fazzoletto, ma oggi Asahina-san è scoppiata a piangere ed era l'unica cosa che avevo...»
«Non importa.»
«Domani te lo riporterò lavato.»
«Non importa, tienilo tu.»
Infilai la mano in tasca, mentre con l'altra afferravo quella fredda di Nagato. Posai sul suo palmo l'incarto trasparente dal quale sorrideva un coniglietto di cioccolato. I nastrini bianchi e azzurri che tenevano chiusa la carta scivolarono tra le dita di Nagato quando le lasciai andare.
Lei rimase ferma a fissarmi per qualche secondo, poi annuì e tornò a sedersi. Scartò l'involucro con calma e prese un piccolo pezzo di cioccolato da una delle orecchie, portandoselo alla bocca.
Non pronunciò una sola parola, né fece un cenno con la testa.
Dall'inespressività del suo viso si sarebbe potuto pensare che il dolce avesse un sapore orrendo o, più semplicemente, che non ne avesse.
La verità di Nagato, tuttavia, si trovava molto aldilà di quanto si poteva vedere. La piega della sua bocca, il modo in cui le sue sopracciglia formavano una linea dritta sopra gli occhi, indicavano a chi la conosceva come me che era estremamente concentrata.
Allo stesso modo di quando aveva stretto tra le mani per la prima volta la tessera della biblioteca, o di quando aveva scoperto il modo per modificare il codice del videogioco del club d'informatica.
Raccolsi le mie cose e mi avviai verso la porta.
Quando sentii il suo arigatou, sorrisi, ma non mi voltai.
Sapevo benissimo quale fosse il suo vero significato.

Anche durante le lezioni pomeridiane non riuscii ad avvicinare Haruhi. Era come se per tutto il tempo fosse stata aldilà di un vetro, irraggiungibile. Oltretutto, una volta suonata la campanella, avevo anche il turno delle pulizie.
Era davvero Haruhi che desiderava quello che stava accadendo? O era la sua testolina che si era messa, come il solito, a fare per conto suo?
Non mi era sembrata arrabbiata, o infelice, o annoiata come il solito. Piuttosto, dalle occhiate che eravamo riusciti a scambiarci, il suo sguardo sembrava quello dilatato di un grosso predatore che deve arrendersi all'evidenza che è finita, ma cerca ancora una via di fuga.
Mi persi a guardare fuori dalla finestra, appoggiato allo spazzolone, indifferente al fatto che qualcuno potesse rimproverarmi perché non stavo facendo nulla.
Avevo cose ben più importanti a cui pensare, e se anche loro avessero saputo di cos'era in grado Haruhi, avrei potuto ragionevolmente saltare tutti i turni di pulizie fino al diploma.
Ripensavo alle parole che mi aveva detto Nagato su curve sinusoidali, particolari date... e tutto partiva da Haruhi.
Sapevo che la risposta era sotto i miei occhi, evidente, e per questo terribilmente difficile da vedere.
Digrignai i denti e mi misi una mano tra i capelli. Sentivo la testa che mi scoppiava.
Cosa aveva Haruhi? Perchè ogni volta che c'era qualche ricorrenza particolare, doveva scatenare tutta la sua potenzialità da piccola divinità psicopatica?
Possibile che...
Trasalii, improvvisamente colpito da un'idea così inverosimile da farmi pensare di essere impazzito, o di aver subito una traslazione spazio-temporale, o...
No. impossibile. Mi rifiutavo di crederlo.
Haruhi era forse... emozionata?
Ripensai ad ogni sorriso, ad ogni irrefrenabile scoppio di allegria che l'aveva assalita – e aveva di conseguenza travolto la Brigata SOS – ogni volta che si avvicinava Tanabata, Natale, Capodanno, l'O-bon.
Quella era l'unica spiegazione che potessi trovare, l'unica che mi sembrasse plausibile.
Ad essere sincero, un po' mi infastidiva che ritenesse scontato che io le avrei regalato qualcosa per il White Day – la sua assoluta mancanza di delicatezza era sconvolgente – tuttavia quel suo modo di evitarmi inconsapevolmente era molto moe, e a pensarci bene, molto da Haruhi.
Quando mi riscossi dalle mie fantasticherie, mi accorsi di essere rimasto solo in classe.
Raccolsi frettolosamente le mie cose, buttando con poca grazia lo spazzolone nel ripostiglio. Mi misi a correre attraverso i corridoi.
Dovevo vedere Haruhi. Anche se non rischiavamo la fine del mondo, o qualsiasi altra catastrofe, non potevo accettare quella situazione.
L'Haruhi che conoscevo non poteva avere tanto timore di qualcosa come il White Day.
Dopotutto lei non era una normale adolescente giapponese. Era o no una specie di divinità destinata a sovvertire per sempre le leggi dell'universo?
Attaccato alla porta del club c'era un biglietto, un semplice foglio di quaderno strappato in fretta, su cui riconobbi la calligrafia di Haruhi.

“Considerata l'assenza del vicepresidente della Brigata SOS, la riunione di oggi è rimandata.
Ma non credete che questa possa essere una giustificazione. Domani vi voglio tutti al vostro posto. Chi sarà assente subirà una punizione inimmaginabile! (è.é)
Il vostro capo”

Spalancai la porta dell’aula e nella stanza trovai solo Nagato e Asahina-san, che trasalì per lo spavento lanciando un flebile gridolino.
«Kyon-kun.»
Nagato si alzò velocemente dalla sedia e avanzò di qualche passo. Sebbene accanto a lei ci fosse Asahina nel pieno della carineria scatenata dall'imbarazzo, non riuscivo a toglierle lo sguardo di dosso, mentre lei mi inchiodava con i suoi occhi metallici.
«La stazione dei treni.»
Scattai appena la sentii pronunciare quelle parole. Dovevo trovare Haruhi, raggiungerla prima che salisse su un treno che non sapevo dove l’avrebbe portata. Domani sarebbe stato troppo tardi. Domani, probabilmente, non avrebbe più avuto alcun significato.
Mi precipitai fuori dalla scuola, mentre l’aria fredda mi colpiva il viso e il sole del tardo pomeriggio tingeva d’indaco il cielo.
Non riuscii a vedere Haruhi lungo la discesa. Probabilmente aveva già girato l’angolo in fondo alla strada. Nella peggiore delle ipotesi era già in stazione e stava salendo sul treno, probabilmente delusa per il fatto di non aver ricevuto ciò che desiderava. Koizumi non mi avrebbe mai perdonato se avesse dovuto stare sveglio anche tutta la notte, dopo la visita al museo del teatro Kabuki, per rimediare ai caos intra-dimensionali fatti da Haruhi per causa mia. Non potevo concepire di avere un debito con quel maledetto.
Ingoiai l'aria affannosamente, mentre i miei piedi cercavano la presa sull'asfalto freddo in una corsa disperata.
Cosa stava succedendo? Nagato mi aveva assicurato che non stavamo rischiando il collasso di questa realtà. Tanto meno io ero il tipo di persona da fare una cosa pericolosa come una corsa a perdifiato lungo la discesa che portava dalla scuola alla stazione.
Cos'era allora che mi aveva spinto a cercare Haruhi con un'urgenza così forte? Erano state le occhiate intense che mi aveva lanciato per l'intera giornata? O forse la sensazione di impotenza che avevo provato nel non riuscire a raggiungerla?
Quando arrivai in stazione, una voce femminile un po' gracchiante annunciò l'arrivo del treno sul primo binario. Lo vidi avanzare sferragliando lungo il binario alla mia destra, sempre più lentamente.
Haruhi era in piedi davanti a me, e riuscivo con chiarezza a vedere il suo profilo ritagliarsi contro lo sfondo grigio e monotono della stazione. Il suo sguardo era immobile, fisso su un punto dell'orizzonte così lontano che, anche volendolo, non sarei mai riuscito a raggiungere.
Scattai nella sua direzione. Il treno si stava arrestando.
«Haruhi.» non era altro che un bisbiglio, e lei non lo udì.
«Haruhi.» appena più forte, ma lo stridore della frenata del convoglio contro le rotaie di metallo cancellò le mie parole, impedendogli di raggiungerla.
«Haruhi!»
Il treno si fermò.
Haruhi si voltò verso di me. I capelli le danzarono attorno al viso. La vidi spalancare gli occhi un po' sorpresa, un movimento impercettibile che le addolcì l'espressione, facendola assomigliare all'immagine malinconica di una vecchia cartolina.
Il fischio che avvisava dell'apertura delle porte risuonò forte nell'aria satura della stazione.
Allungai il braccio verso di lei. Non mi era chiaro il perché, ma non volevo assolutamente che salisse su quel treno. Con la coda dell'occhio vidi le porte del vagone schiudersi.
All'improvviso inciampai, come se i miei piedi si fossero calpestati tra di loro, in un attacco di goffaggine degno di Asahina-san.
La borsa della scuola mi scivolò lungo il braccio teso, ma riuscii ad afferrarne un manico prima che cadesse a terra.
Vidi con orrore il piccolo pacchetto di carta trasparente scivolare fuori attraverso la cerniera aperta. I lunghi nastri bianchi e rossi si srotolarono nell'aria con grazia e gli occhi di Haruhi si fecero ancora più grandi per la sorpresa, mentre osservavano il coniglietto di cioccolato volteggiare davanti alla porta ormai aperta del treno, fino a rimbalzare a terra.
Non riuscivo a muovermi, paralizzato dallo stupore.
Dalle porte del treno uscì una fiumana di pendolari, di studenti, di madri che si trascinavano dietro figli capricciosi.
Haruhi scomparve dalla mia vista, la sua figura persa dietro la calca che ci separava.
Non riuscivo a pensare, e non avevo parole.
L'aria deliziosamente shōjo che avevo respirato quella mattina mi sembrava svanita nel nulla, sostituita da un raccapriccio degno di un film horror.
Il flusso dei passeggeri diminuì, finché la banchina non rimase deserta. Con un lungo sibilo le porte del treno si richiusero, e questo ripartì con lentezza.
Haruhi era in piedi di fronte a me.
Aprii la bocca e la richiusi.
Avrei potuto rimanere in quella posizione e con quella faccia da idiota per tutto il resto del giorno, della notte, e probabilmente dei successivi decenni. Mi sentivo sconfitto su tutta la linea. Avevo condannato l'umanità a scomparire nel nulla.
Finalmente Haruhi si mosse. Avanzò di un paio di passi e poi si accucciò a terra e si mise a fissare con sguardo serio il pacchettino devastato dai passi di tutte le persone che lo avevano calpestato scendendo dal treno. La carta trasparente era rotta, il cioccolato ridotto in poltiglia e i nastri si erano sciolti tristemente.
Poi sollevò i suoi occhi scuri su di me e sorrise.
Era uno strano sorriso, qualcosa che non avevo mai visto in Haruhi, dolce e beffardo insieme.
«Sei proprio un disastro. Almeno offrimi qualcosa da bere.»

Il sole si stava spegnendo oltre la linea dell'orizzonte, dietro i profili scuri delle case.
Quando mi avvicinai alla panchina, appoggiai la lattina di caffè freddo sulla testa di Haruhi, che si mise a muovere le braccia e le gambe come il personaggio buffo di un anime.
Sorrisi.
Girai attorno alla panchina e andai a sedermi accanto a lei, allungandole la sua bevanda.
«Scusa, ma non c'era nient'altro.»
«Sei proprio un buono a nulla.» mormorò mentre cercava di aprire la propria lattina.
Sbuffai. Anche se le avessi detto che probabilmente tutto quello che era accaduto lo aveva inconsciamente desiderato lei, non mi avrebbe creduto. Era meglio stare zitto e accettare la sua consueta sequela di insulti arroganti e gratuiti.
Quando sentii che non aggiungeva altro, mi voltai guardingo verso di lei. Sorseggiava lentamente il suo caffè e sembrava persa in qualche strano pensiero, con lo sguardo vacuo che vagava alla ricerca di qualcosa.
All'improvviso si accorse che la stavo guardando. Sporse le labbra in una smorfia di disappunto e, scuotendo veloce la testa, la incassò tra le spalle, affondando nel collo della giacca.
Se non avessi ritenuto fisicamente e matematicamente impossibile che Haruhi potesse arrossire per l'imbarazzo, avrei potuto affermare che il rossore diffuso sul suo viso era dovuto ad una sana emozione adolescenziale, e non al riflesso dei colori del sole morente sulla sua pelle.
Aprii la bocca. Sentivo il dovere di pronunciare qualche frase shōjo d'effetto, per completare il quadretto.
«Ecco un'altra giornata sprecata in inutili idiozie.» mi precedette Haruhi con tono petulante.
Non le risposi.
Quando Haruhi iniziava così, poteva continuare per ore, ed era preferibile non interromperla.
«E adesso sono anche bloccata qui fino alla prossima corsa... e per cosa? Per una stupida idiozia e per la tua goffaggine senza speranza.»
Appoggiai la lattina e misi la mano in tasca. I miei polpastrelli incontrarono la consistenza soffice del fazzoletto di Nagato. Lo tirai fuori e rimasi ad osservarlo per qualche istante.
«E appena arriverò a casa dovrò anche mettermi a studiare per gli esami di fine anno, è troppo ingiusto!»
Le mie mani si mossero velocemente. Era una cosa che avevo fatto migliaia di volte, obbligato dagli strilli e dalle suppliche di mia sorella.
«E dobbiamo ancora pianificare le attività per il prossimo anno della Brigata SOS, e...»
Haruhi si interruppe di colpo. Abbassò lo sguardo verso il palmo aperto della mia mano, che tendevo verso di lei.
Ammutolita, guardò il piccolo coniglietto bianco di stoffa, ottenuto annodando il fazzoletto in vari punti.
Alzò gli occhi su di me, completamente priva dell'aria arrogante e sicura di sé che aveva di solito.
Lei aveva sconvolto la mia esistenza, lanciandomi in un turbinio di incontri ed eventi che altrimenti, nello scorrere silenzioso di una vita banale, non avrei mai potuto sperimentare.
Un regalo per il giorno del White Day era il minimo che potessi fare.
Allungò la mano, esitante come se davvero non fosse stata altro che una normale ragazza delle scuole superiori.
E provai il desiderio di baciarla, come accade sempre nelle stazioni dei treni, mentre il sole tramonta, e due compagni di classe realizzano per la prima volta che si piacciono davvero. Lui è un tipo normale, senza grilli per la testa, a cui interessa solamente vivere gli anni delle superiori nella maggiore tranquillità possibile. Lei invece è una tipa un po' tsundere [3], intelligentissima, dotata negli sport e molto, molto bella.
È normale che a quel punto lo shōjo pieghi gli eventi in modo che tra i due scocchi la scintilla che li fa avvicinare piano piano, in un'atmosfera sospesa che rende tutto magico, come un sogno.
Non sono così ingenuo, non scherziamo.
Non baciai Haruhi. Non potevo pensare a cosa sarebbe potuto accadere. Nella migliore delle ipotesi mi sarei beccato un gancio micidiale, nella peggiore... mi rifiutavo di pensarci.
Rimanemmo semplicemente lì, seduti alla stessa panchina.
Il sole era tramontato sul White Day.
Dentro di me ero sollevato, per aver permesso a questo mondo di esistere per un altro giorno.
Mi voltai a guardarla, e lei mi restituì uno dei suoi consueti sorrisi. Non sapevo se ero in grado di sopportare tutto questo per altri due anni.
«Arigatou
Ma una cosa era certa. Se c'era lei, l'avrei fatto per il resto della vita.















[1] White Day: (cit. Wiki) “In Giappone la festa di San Valentino viene celebrata seguendo un preciso rituale: il 14 febbraio le ragazze offrono del cioccolato (industriale o fatto a mano) al ragazzo che amano. Se costui accetta l'amore della ragazza, può ricambiare consegnando a sua volta un dono alla ragazza il 14 marzo.”
[2] Moe: (cit. Wiki) “Personaggio che viene considerato un moekko, una ragazza candida oppure una persona affascinante e graziosa.”
[3] Tsundere: (cit. Wiki) “Stereotipo di personaggio arrogante e combattivo che in seguito si rivela generoso e amorevole, rivelando una contraddizione fra la propria vera personalità e la sua esteriorità. ”

   
 
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