L'odore
delle tavole di legno, il rumore delle scarpette da punta nuove o di
quelle vagamente consumate, respiri affannati, lamenti, salti, giri,
passi ovattati. Arthur aprì gli occhi soltanto in quel
momento, come
per accertarsi che tutto ciò che stesse vivendo fosse reale,
come
per accertarsi che lui fosse veramente lì, dietro le quinte
di un
teatro parigino, accovacciato sul pavimento con le ginocchia stese e
le punte dei piedi rivolte al pavimento.
Un tutù, un degas,
scaldamuscoli, calzamaglie. A pochi metri da lui e tutto intorno a
lui, c'era il mondo in cui aveva sempre sognato di vivere. Tra i
ragazzi che condividevano la sua stessa passione, che lottavano per
realizzare quel sogno e che piangevano per la paura che restasse
tale.
Arthur non lo sapeva nemmeno come ci era arrivato lì, lui,
che aveva sempre visto anche i ballerini di quinta fila del Royal
Ballet come esseri perfetti ed irraggiungibili. La spiegazione ai
suoi dubbi arrivò in un minuto, quando nella sua mente prese
vita il
ricordo del suo fratellino che gli sventolava una busta (adesso
orribilmente macchiata di gelato alla fragola) sotto il naso. Arthur
aveva sollevato un sopracciglio, aveva guardato sua madre e l'aveva
aperta.
Ci aveva impiegato qualche minuto a capire di che cosa si
trattasse. O meglio, l'aveva capito, ma aveva stentato a
crederci.
«Ho
passato le selezioni.»
Uno
sguardo severo da parte di suo padre, un urlo di gioia da parte di
sua madre e qualche battuta sarcastica che riguardava un bel corpetto
rosa ed una gonnellina da parte di Peter. E poi aveva realmente
compreso.
Il concorso sarebbe durato due settimane, su circa
settecentocinquanta ballerini provenienti da tutto il mondo, soltanto
quindici erano sopravvissuti. Arthur aveva cercato di inquadrare i
suoi “avversari” abbastanza velocemente, e il
risultato lo aveva
leggermente spaventato.
I russi, era ben noto, erano famosi per
una tecnica perfetta e un portamento invidiabile. Sapere che uno di
loro era lì, variazione fissa nella mente e nel corpo, lo
spaventava
un pochino. Anche i francesi non erano male, con la loro eleganza e
la leggerezza. Arthur li detestava per partito preso e il sentimento,
di conseguenza, ricadeva in maniera inevitabile sul ragazzo biondo e
sui cinque giri più che perfetti che stava provando in quel
preciso
istante. L'Italia era la terra della passione, un luogo caldo,
solare, vivace, non a caso i numeri centonovantadue e
trecentoquindici erano a pochi metri da lui sembravano piuttosto a
loro agio in quell'ambiente (o almeno, uno di loro sembrava a suo
agio). Accanto a lui invece c'era Antonio, l'unica persona che
conosceva lì dentro, giusto perché ci aveva
litigato e fatto pace
circa tre volte da quella mattina. Lui era spagnolo, fisico scolpito,
sorriso stampato in faccia, l'emblema del ballerino sensuale, di un
corpo caldo e di un movimento fluido e suadente. Arthur era riuscito
a notare anche chi era totalmente l'opposta, lo aveva definito
“l'anti danza”, tutto ciò che lui non
avrebbe mai voluto essere.
Un ragazzo rumoroso, alto, che da quando era arrivato non aveva fatto
altro che ridere. Aveva un accento strascicato, consonanti molto
marcate e non faceva altro che sbattere la mano su un ragazzo serio,
silenzioso e minuto.
«Quel tipo», disse Antonio, accennando con
la testa a suddetto ragazzo, «è giapponese, dicono
che sia
bravissimo.»
Arthur sollevò un sopracciglio e lo guardò.
«Dimmi
il nome di un ballerino orientale che sia diventato
qualcuno.»
Antonio sbuffò e continuò a riscaldarsi, a tirare
i
talloni e a poggiare la testa sulle ginocchia. Arthur
continuò ad
osservare gli altri ragazzi.
Uno dei due italiani aveva
cominciato a parlare a raffica con qualcuno; una specie di armadio
biondo, davanti a lui, non faceva altro che annuire e aprire la bocca
per rispondere qualcosa, almeno una sillaba, ma ogni tentativo veniva
prontamente bloccato da un'altra frase da parte dell'altro. Suo
malgrado, Arthur sorrise e lo sguardo si spostò sulle
ragazze.
Non
sembrava esserci astio tra di loro, non a primo impatto e non per
ora, almeno. Ma Arthur era più che certo che, passate due
ore, non
avrebbero fatto altro che sputarsi addosso veleno e tirarsi i capelli
a vicenda. La più piccola sembrava realmente fidarsi di
loro, però,
racchiusa nel suo body color panna e con un sorriso dipinto sul
volto. Aveva i capelli biondi, quasi bianchi, occhi enormi, un fisico
sottile e un'espressione a volte impaurita, di chi probabilmente non
si aspettava minimamente di passare le selezioni dei quindici e dei
sedici anni. Accanto a lei, a mostrare un'apertura fantastica ed una
spaccata perfetta, un'altra ragazza, più grande e alta,
occhi verdi
e fissi su un ballerino che sembrava albino.
«Non ci posso
credere, Gilbert ne ha già conquistata una!»
«Eh?»
«Ah,
dimenticavo che tu sei inglese. Non puoi capire questi ragionamenti
sottili.»
Con le sopracciglia aggrottate ed un'espressione
perplessa, Arthur tornò al suo stratching.
Qualche ora dopo
Arthur era venuto a conoscenza del fatto che mancavano ancora tre
partecipanti all'appello: un ragazzo proveniente dalla Cina, un
canadese timido, impacciato e talmente tanto silenzioso da sembrare
invisibile, una ragazza bielorussa e il suo perfetto collo del piede,
una specie di Zakharova nascente.
La cosa più traumatica di
quella giornata, ad ogni modo, non era stato scoprire che nessuno
provenisse dalla sua bella Inghilterra (Arthur aveva voluto illudersi
di potersi fare un amico), quanto venire a sapere che avrebbe passato
otto ore al giorno con gente sconosciuta, di nazionalità
diversa
dalla sua. E per di più questa gente sarebbe stata stanca,
nervosa e
sudata.
Arthur appoggiò la mano sinistra alla sbarra, rivolgendo
un'occhiataccia al ragazzone davanti a lui, talmente grosso da
impedirgli di vedere che razza di esercizio stesse spiegando una
donna con un caschetto biondo. E adesso che Arthur ci faceva caso,
notava (con tanto di smorfia scocciata) che si trattava
dell'americano.
Tentò di ignorarlo e di concentrare la mente
sulla sequenza di tendus, con tanto di piroetta dalla quinta per le
donne e dalla quarta per gli uomini, ma niente. Lui restava
lì e si
voltava a fissarlo.
«Scusa, non è che posso mettermi dietro di
te e copiare quello che fai tu?»
Arthur fissò per un attimo la
sua perfetta faccia da schiaffi ed annuì, chiudendo la bocca
per
evitare che qualche commento acido uscisse incontrollato (e
semi-involontario) dalle sue labbra.
«Certo», rispose a denti
stretti.
Arthur si affrettò a cambiare posto con lui, trovandosi
così nascosto soltanto dal corpo minuto di una ragazza.
Tanto
meglio, almeno avrebbe avuto una visuale decente di quello che
accadeva nella sala e non avrebbe dovuto farsi venire il torcicollo a
furia di cercare di capire qualcosa spiando negli specchi
lucidi.
«Comunque io sono Alfred, piacere!»,
sentì mormorare al
suo orecchio, con tanto di voce acuta e risatina finale.
Borbottò
un velocissimo “Arthur” e tagliò corto.
Il livello era alto,
non c'erano dubbi. Dall'inizio della lezione non aveva sentito una
sola domanda insicura, né visto una piroetta finire male, le
ginocchia erano tutte stese, così tanto da sembrare
incrinate nel
senso contrario, le espressioni erano rilassate, le braccia morbide
nonostante la forza nascosta che ogni ballerino nascondeva in ogni
minima parte del corpo. Arthur non era il tipo da autocommiserarsi o
da piangersi addosso, ma per un attimo aveva temuto tutti loro.
Nella
sua scuola, una piccola Accademia, ma pur sempre di tutto rispetto,
che si trovava in provincia di Liverpool, Arthur era stato abituato
ai complimenti, agli innumerevoli “guardate come lo fa
Arthur”,
“Arthur, fa' vedere loro un grand jeté”,
“Arthur ha dei piedi
perfetti”, “Arthur è nato per fare il
ballerino”. Adesso lui
non era nemmeno “Arthur”, adesso lui era solo e
soltanto il
numero-- Arthur abbassò il mento, quando si rese conto di
averlo
dimenticato. Oh, sì, adesso lui era solo e soltanto il
numero
seicentodiciannove, come diceva il foglio appiccicato al suo petto,
in mezzo ad altri quindici numeri che probabilmente erano stati
abituati (proprio come lui) a sentire decine e decine di lodi al
giorno.
Arthur si sedette sul pavimento, prima di uscire e
andare verso l'albergo nel quale alloggiavano i partecipanti. Aveva
bisogno di un minuto che gli permettesse di mettere a posto le idee,
aveva bisogno di massaggiarsi le tempie e di far passare almeno in
parte quel mal di testa che lo opprimeva da almeno un paio
d'ore.
«Tutto bene?»
Alzò la testa di scatto e vide che il
ragazzo francese era in piedi di fronte a lui, con un asciugamano
sulle spalle e i capelli raccolti in una coda alta.
«Sì,
grazie.»
Chiuse gli occhi e la mente tornò verso casa, verso la
sua Inghilterra. L'unico legame che aveva adesso con tutto
ciò che
si era lasciato alle spalle, erano le telefonate continue di sua
madre e quelle dei suoi insegnanti. Di suo padre nemmeno l'ombra, ma
doveva aspettarlo, visto quanto era scettico riguardo il suo sogno di
diventare un ballerino.
«Mh, sembri stanco.»
Arthur sussultò.
Non si aspettava che il francese fosse ancora lì, mentre lui
se ne
stava zitto a pensare e a ipotizzare che cosa accadesse oltre la
Manica.
«Chiunque sarebbe stanco, ora», gli disse.
E si
maledisse mentalmente, per aver dato corda ad un individuo di razza
francese, e di conseguenza incompatibile con lui.
«Hai ragione.
Più che stanco, io mi sento... Spaesato. Come se fossi
l'unico qui a
non sapere che cosa fare e da dove cominciare.»
Arthur sollevò
un sopracciglio e il suo stupore fu dovuto a due motivi fondamentali.
Il primo coincideva con la strana scena di due sconosciuti che si
parlano per la prima volta e che discutono di qualcosa di abbastanza
intimo e personale. Il secondo non era altro che lo shock che era
derivato dal fatto che un tizio che non aveva nemmeno mai visto prima
provasse le sue stesse sensazioni.
«Immagino che tu non te la
cavi meglio, no? Sei anche in terra straniera, io per lo meno sono
francese, ma di Lione.»
Arthur si limitò ad una scrollatina di
spalle e ad una diplomatica stretta di
mano.
«Francis.»
«Arthur.»
Francis gli sorrise, ad
Arthur quella bocca sembro meschina. Non che Francis potesse essere
uno di quei tipi che sussurravano all'orecchio un gentile “in
bocca
al lupo” e che poi di auguravano di cadere e di romperti una
caviglia o... Un ginocchio. O comunque di farti abbastanza male da
doverti ritirare dal concorso a tutti i costi, no. Il sorriso di
Francis sembrava più che altro un “ti tengo
d'occhio”, o almeno
Arthur lo interpretò come tale.
«Arthur!»
Mentre Francis
apriva la bocca per dire qualcosa, Alfred arrivò urlando e
agitando
le braccia. Stringeva la maglietta sudata in una mano e portava degli
occhiali che prima, durante gli esercizi, lui non aveva visto.
Probabilmente era miope e non riusciva a vedere ciò che la
donna gli
stava spiegando, ecco perché aveva deciso di prendere posto
dietro
di lui.
Francis gli rivolse un'occhiataccia e si alzò,
continuando a fissarlo con tanto di sopracciglio sollevato ed aria
scettica.
«E tu saresti...?»
«Alfred!», strillò, «Io
sarei Alfred!»
Arthur ridacchiò divertito da quella scena e si
alzò in piedi, recuperando la tracolla e la sua bottiglia
d'acqua
(sfortunatamente vuota).
«Ah, Alfred.»
Alfred lo ignorò
totalmente e si rivolse di nuovo ad Arthur, scuotendolo per una
spalla.
«Ehi, Arthur, ti va di andare insieme in albergo? Io non
ricordo la strada, perché sulla mia cartina degli Stati
Uniti non
c'è!»
Mentre si chiedeva per quale assurdo motivo un albergo
situato nel pieno centro di Parigi dovesse apparire anche sulla
cartina degli Stati Uniti, Alfred gli afferrò il polso e
annuì con
energia, quasi convinto che Arthur si stesse apprestando a dargli il
via libera e una risposta positiva.
«Frena, Superman, con Arthur
ci stavo parlando io.»
Francis appoggiò una mano sul petto di
Alfred e lo costrinse ad indietreggiare di un passo, mentre si poneva
tra lui e Arthur. E Arthur, con tutta la nonchalance di cui era
capace, sparì dietro la porta dei camerini.
«Non mi hai
nemmeno aspettato per cenare, sei veramente antipatico.»
Arthur
sollevò il viso dal suo piatto di riso scondito e
guardò Alfred.
Era completamente diverso da quando lo aveva visto quel pomeriggio a
lezione. Adesso era trasandato, coi jeans larghi e una maglietta
più
lunga del normale, scarpe da tennis della portata di carri armati e
orlo dei boxer sovrapposto ad un lembo di T shirt.
«Non vedo il
motivo per cui avrei dovuto aspettarti.»
Si era anche seduto in
un tavolo appartato, lontano dagli occhi degli altri ballerini e con
la speranza di sfuggire a battute, commenti pungenti, ma soprattutto
con la speranza di sfuggire ad Alfred e Francis. Era lì per
concentrarsi, ballare, concentrarsi e ballare ancora. Doveva fare del
suo meglio e portare uno dei premi a casa, piuttosto che sentirsi
ripetere da suo padre che ancora una volta aveva dimostrato di aver
sprecato soldi in maniera inutile.
«Ti avevo anche chiesto di
tornare insieme e tu invece sei scappato.»
«Non sono scappato,
ho semplicemente preferito una doccia al vostro blaterare. Odio
perdere tempo.»
Arthur guardò di sfuggita il piatto di Alfred,
dopo di che tornò a concentrarsi sul suo. Tempo un paio di
secondi e
tornò, con tanto di occhi sbarrati e di espressione
sconvolta, sulla
cena americana.
«Mi spieghi perché diamine hai preso tutta
quella roba?!»
Alfred sembrava stupito, probabilmente per lui la
reazione di Arthur era del tutto inaspettata.
«Perché ho fame»,
gli rispose con ovvietà.
Cercando le parole giuste per fargli
capire che non era umano mangiare così tanto, che
“avere fame”
non significava sentire il bisogno di riempirsi lo stomaco con
tonnellate di schifezze e che avrebbe dovuto lasciare oltre la
metà
di tutta la roba che aveva preso se voleva evitare di fare un buco
nel palco, Arthur scosse la testa e continuò a fissarlo.
«Alfred,
credo che tu abbia dimenticato che domani dobbiamo ballare. Che siamo
ad un concorso e che il giudizio sul fisico è uno dei
criteri più
influenti di tutti.»
«Io mangio sempre così tanto, ma il mio
fisico è sempre lo stesso.»
«Bene, vi presento Antonio e
Gilbert!»
Arthur ed Alfred sussultarono e smisero di guardarsi,
sollevando invece gli occhi su Francis che era appena arrivato
lì,
assieme ad altri due ragazzi.
Arthur naturalmente conosceva già
Antonio e aveva visto Gilbert. Alfred porse la mano a entrambi e si
presentò.
Nonostante i suoi buoni propositi di cenare da solo, di
rilassarsi da solo, di decidere da solo quando andare a dormire e di
andare a dormire da solo, Arthur si ritrovò costretto a
parlare non
con uno, ma con ben cinque sconosciuti, stranieri ed anche piuttosto
bizzarri.
Aveva scoperto che Gilbert era tedesco e che sia lui
che suo fratello erano riusciti a passare. A casa era stata una
sorpresa per tutti, Gilbert aveva tutte le doti degne di un ballerino
come si deve, ma non ci aveva mai messo troppo impegno, preferiva
vivere di rendita e accontentarsi di quello che le sue gambe perfette
gli consentivano di fare con il minimo sforzo. Antonio invece ci
aveva sempre messo la massima dedizione, ma preferiva il flamenco
alla danza classica. Gli permetteva di trasmettere con i suoi
movimenti tutta la passione che sentiva dentro, la danza classica
invece, con tutte le sue regole e la rigidità, tarpava le
ali ai
suoi sentimenti. Francis invece doveva essere uno piuttosto bravo,
proveniva da un'Accademia abbastanza prestigiosa della Francia ed
aveva avuto un diploma già a quindici anni. Francis aveva
già
esperienza in quel genere di concorsi, ma nemmeno lui aveva mai
immaginato di arrivare ad un così alto livello in una
competizione
di portava internazionale. Alfred... Beh, Alfred era quello che lo
rassicurava. Proprio come lui era completamente estraneo a quel
mondo. Lontano da tutto e da tutti, aveva coltivato la sua passione
tra i confini del Wisconsin ed era arrivato lì quasi per
caso, dopo
un colloquio avuto con suo zio, che insegnava nell'Illinois.
«Io
sono di Liverpool. Non mi sono diplomato a quindici anni, non ho uno
zio che mi ha aiutato, non ho le doti che tutti sognano e nemmeno
troppo sentimento da comunicare. Mi piace ballare e non pensare a
nulla e se sono arrivato qui il merito è solo e soltanto
mio.»
Quella frase aveva destato parecchie occhiate stupide ed un
paio di sorrisi straniti. Alfred gli aveva battuto una poderosa pacca
sulla spalla, mandandolo quasi con la faccia dentro il piatto.
«Beh,
sono sicuro che farai del tuo meglio allora! Che variazione hai
portato?»
«La Sylphide.»
«Oh, quindi avremo l'onore di
vederti in gonnella!»
Se gli occhi di Arthur avessero potuto
incenerire, quasi sicuramente Francis adesso non sarebbe stato altro
che un mucchietto di polvere ammassato su una sedia, da soffiare via
e da dimenticare.
«Non è una gonna», borbottò,
«è un kilt.
C'è una bella differenza.»
Francis tralasciò il fatto che,
qualunque cosa fosse, Arthur sarebbe comunque stato costretto a
mostrare gambe, cosce e il sedere sodo fasciato da un bel paio di
mutande o boxer neri. E a lui interessava soltanto quello, gli altri
particolari, gonna o kilt, erano del tutto secondari.
«Dio, ma
l'avete visto quello?», disse all'improvviso Antonio,
indicando uno
dei due italiani seduti ad un tavolo piuttosto distante.
«Ti
piace? Io credo ci sia di meglio», e Francis, mentre lo
diceva,
fissava Arthur e sorrideva come un idiota. O come un maniaco.
«Nah,
non credo. Andiamo, ma hai visto che fisico? Ha un culo che-»
«A
proposito di culi», li interruppe Gilbert,
«guardate quella
lì.»
Lunghi capelli castani ed un fiore rosa, Gilbert stava
chiaramente fissando lei, che rideva assieme alle altre
ragazze.
«Insomma, la volete smettere di parlare di culi?!»,
Arthur cercò di non alzare la voce, ma era comunque
abbastanza
innervosito dal discorso.
«E perché dovremmo?», Francis invece
sembrava piuttosto coinvolto.
«Lascialo perdere, Francis, lui è
soltanto invidioso.»
Arthur si voltò verso Alfred, e lo squadrò
attentamente.
«E che cosa te lo fa pensare, di grazia?»
«Il
fatto che tu non abbia un bel culo. E non fare quella faccia. Fidati,
è così, l'ho guardato tutto il tempo proprio per
accertarmene.
Seriamente, Arthur, è troppo magro! Secondo me dovresti
mettere su
qualche chilo, dico sul serio!»
E mentre pronunciava quelle
parole oltraggiose, da una parte divertite e divertenti per tutti
gli altri ragazzi, Alfred versava nel piatto di Arthur una dosa
abbondante del cibo che aveva preso per sé. E naturalmente
rideva
come un matto, complice l'espressione sconvolta dell'inglese.
«Sei
un idiota! Sei un cretino! Ti meriti di scivolare! Ma che sto
dicendo?! Ti meriti di cadere giù dal palco! Sei un
deficiente! E
smettila di ridere! E voi che cosa diamine avete da guardare?!
Aiutatemi, aiutatemi che lo ammazzo! Stupido! Maiale!»
Ed erano
cominciati così, il suo meraviglioso giorno e il suo sogno
di
bambino.
E
dopo un lungo periodo di torpore, finalmente ho ripreso a scrivere.
Non odiatemi se non aggiorno le fic da così tanto tempo,
prometto di
farlo al più presto. Voi non me ne vogliate... Ma
è estate e quel
poco che scrivo lo faccio perché ne ho voglio in quel
momento.
Altrimenti, col poco tempo che ho, non scriverei proprio nulla.
;^;
Su questa storia vorrei spendere due paroline. Innanzitutto,
mi ci sono già affezionata, visto che parla di danza.
Inserirò
tutti e quindici i personaggi citati, e ognuno di loro avrà
almeno
un capitolo tutto per sé! =)
E credo di inserire un link di
YouTube per ogni capitolo, per far vedere il balletto (la variazione)
eseguito, visto che so che non molti hanno la mia stessa passione.
Ci
terrei a precisare anche che il rating è destinato a
diventare
rosso! =) E ora vi lascio, ci sentiamo nel prossimo capitolo per le
risposte alle recensioni!
PS: secondo voi chi sarà il primo?
Provate a indovinare! :D