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Autore: Mikaeru    28/07/2010    7 recensioni
Questa è una raccolta basata sull'omonimo CD di Fabrizio de André; è principalmente incentrata su Edward (e spesso il suo rapporto con Alphonse), ed ogni fic sarà ispirata ad una canzone. Andrò nell'ordine che il cd impone.
[01; "Dormono sulla collina" - Edward] Edward, scampato ad Auschwitz, trova un modo tutto suo per ricordare a se stesso e al mondo la sua famiglia; tatuarsi croci sul corpo.
[02: Un matto, Edward, Alfons, Alphonse - Edward/Alfons, vagamente NC-17 per una scena lemon]
Alfons, innamoratissimo di Ed, inizia a convivere con lui e con il suo fratellino che non vede mai perché sempre chiuso in camera, misteriosamente.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Elric
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Aveva uno studio minuscolo, ma ci teneva a tenerlo pulito. Aveva appeso una decina di foto di donne che più che corpi avevano delle tele. Edward rimaneva spesso affascinato dal loro sguardo fiero e profondo. Gli piacevano, sembravano indipendenti, di quelle persone che non avevano bisogno di niente e di nessuno se non della propria libertà. Le sentiva affini, in un qualche modo: sembravano proprio di quelle persone che ne sanno apprezzare il sapore e l’odore, il valore infinito. Era soprattutto per questo che a Edward piacevano, oltre che per il loro sorriso splendido.

 

Ogni sabato mattina, anche se la sera prima aveva avuto il turno di notte, Edward risaliva la collina, da quando fu in grado di rifarsi una vita – non ne ha mai saltato uno. Si doveva svegliare almeno tre quarti d’ora prima dell’alba, se voleva arrivare in tempo per contemplare la sua amata città mentre sbadigliava e tentava di riprendere la propria vita, quando ancora la luce albicocca dei primi, timidi raggi solari la annacquava, stringendola a sé.

Sbadigliò sonoramente, quella mattina di aprile, stiracchiandosi, aprendo la minuscola finestra. Salutò dolcemente quello che da anni era il suo nuovo nido. “Buongiorno, New York.”

Vicino alla finestra teneva tanti vasi di margherite, così da averne almeno quattro, tutto l’anno, da appoggiare vicino ai cumuli di terra dentro cui aveva ficcato delle croci sghembe di rametti secchi legate con dello spago vecchio. Quelle che aveva su tutto il corpo erano state fatte un po’ meglio, erano tatuaggi precisi che un po’ lo facevano rassomigliare ad una mappa del tesoro.

 

“Dove lo facciamo stavolta, Edward?”

Lo chiamavano Magnum per le dimensioni notevoli del suo corpo e perché il suo nome italiano, Mario, non sembrava adatto a lui. Edward lo conosceva bene da due anni perché, oltre a tornare con cadenza semestrale, gli offriva un boccale di buona birra tedesca almeno una volta ogni dieci giorni – se la bevevano assieme quando il locale chiudeva, e la serata finiva sempre con un Ed ubriaco in spalla all’omone, che delirava sulla sua famiglia persa ad Auschwitz, visioni mistiche di sua madre e di suo fratello.

Il ragazzo si buttò sulla sedia, guardando l’amico diritto negli occhi azzurrissimi. “Questo lo facciamo qui, sul cuore.”, un ghigno e il pugno battuto sul petto.

 

Uscì di fretta perché aveva dormito dieci minuti in più del dovuto, e la collina era distante dalla sua casa di periferia. Stringeva delicatamente i fiorellini tra le dita, facendo attenzione a non sgualcirli: sarebbe stata un’offesa, altrimenti. Risalì il pendio che l’abitudine di anni di camminata avevano reso dolce, particolarmente allegro.

All or nothin' at all, half a love never appealed to me...”, canticchiava quella mattina mentre sistemava i fiori nuovi e toglieva di mezzo quei quattro petali rimasti da quelli secchi della settimana precedente. Sorrideva sempre mentre li piantava nella terra che smuoveva con le sue mani - lo faceva senza guanti, quasi a voler sentire meglio il contatto, come se potesse sentire con i polpastrelli il battito del cuore dei suoi cari estinti.

“Frank Sinatra ti sarebbe piaciuto tantissimo, mamma. Forse a papà no, ma sono sicuro che glielo avresti fatto piacere a forza. Hai sempre saputo come addomesticarlo.”

Si sedette per terra, tenendo lo sguardo dritto davanti a sé: sentiva sotto i palmi l’erba solleticarlo, le orecchie si riempivano piano piano, goccia dopo goccia, nel lieve cinguettare degli uccelli. New York riposava ancora.

Si sentiva un po’ folle, ma amava parlare con sua mamma. Non che credesse nell’anima, o quelle cose lì, era un ebreo per finta, per compiacerla anche dopo anni; anche quando il suo corpo, se ce ne fosse stato uno, non sarebbe stato altro che un mero ricordo permanente.

“Ti piace qui, vero?”

Non glielo chiedeva da un bel po’. Anzi, a dir la verità non lo aveva mai fatto. Aveva ricucito pezzi di ricordi e sorridi addosso ai rami, e lì li aveva messi, accanto alle memorie più care.

“Se potessi vederlo ti piacerebbe moltissimo. New York è strana, sai? È chiassosa, caotica, è come un piatto cucinato da venti cuochi diversi, c’è un pezzetto di ogni cosa. Credo ti piacerebbe molto, ameresti quest’aria frizzante e un po’ superficiale. Passeresti la mattina con le orecchie tese ad ascoltare dischi, il pomeriggio a sgridare noi uomini di casa per come sperperiamo le nostre ore di luce, la sera a ballare con papà su melodie mezze inventate dal suo fischiare. Vivresti bene, saresti contenta, mamma. Qui è pieno di quelle frivolezze a cui hai sempre rinunciato per darci la vita migliore, e noi lavoreremmo sodo per permettertele. Ah, sì, New York ti piacerebbe.”

Il vento che passava attraverso le fessure del legno, Edward quasi lo sentiva ridere dolcemente.

 

“Certo che te li fai sempre in posti strani, Ed.”

Quello rise, sistemandosi meglio sulla poltrona.

“Aah, lo sai benissimo che hanno tutti senso, smettila di dirmelo ogni volta. Me l’hai detto la prima volta per quello di mia madre, e lì posso capirlo, e forse forse anche per quello per mio padre. Ma quelli dopo no. Sei monotono, Magnum.”

Conosceva tanto il dolore del tatuaggio che strinse i denti in anticipo, quando l’ago era a quasi mezzo centimetro dal cuore.

“Sì, e quindi? Guarda che te la faccio rosa, la croce.”

“Tu provaci, e io ti farò bere cianuro.”

“Ah! Come se qualcosa potesse scalfirmi!”

“Stai zitto e lavora, su.”

Edward si strinse il labbro fra i denti; ma torturarlo fino a lasciare i segni non era davvero il modo migliore per distrarsi.

“Ehi, senti, te le ricordi tutte le storie che ti ho raccontato sui miei tatuaggi?”

“E come dimenticarle? Io me le ricordo tutte, le storie che mi raccontano i clienti. Mi piace lavorare quando lo faccio per un motivo più profondo.”

“Ma come parli bene. Ci attiri molti clienti, facendo così? Dai, ricordarmele, allora…

 

“Forse non ti piacerebbero i tatuaggi che mi sono fatto.”

Ridacchiò, sdraiandosi sull’erba con le mani dietro alla nuca. Inspirò l’aria fresca, riempiendosene i polmoni. Amava i ricambi d’aria.

“Però i motivi sì. Anzi, ti verrebbero i lacrimoni perché ti commuoveresti tantissimo. Lo vedi questo, sul polso destro? Questa sei tu.”

Non li aveva spiegati alla sua famiglia, ancora – quella uccisa ad Auschwitz, da cui era scampato per miracolo, quella che ancora sulla pelle puzzava di morto e di cenere e di grida e di sangue e dell’orrore umano, e quella piccola parte che là non c’era arrivata, ma per lo stesso motivo aveva perso la vita.

“Perché tu mi hai insegnato a scrivere, a leggere e… tutte quelle cose lì, no? A vivere. Ogni volta che voglio mollare tutto e mandare a fare in culo il mondo intero, mi guardo il polso e penso a chi avrebbe e ha dato la vita per me. Per questo non mollo, sarebbe come insultarti, e questo non posso proprio farlo.”

Rise; sentiva in petto crescere la voglia di parlare, per recuperare tutti i silenzi precedenti, quelli dettati dal senso di colpa che ancora, nelle giornate più buie, lo schiacciava fino a non respirare.

 

“Non ricordo però quanti anni c’hai messo a fare quella specie di cimitero.”

“Non chiamarlo cimitero, lo fa sembrare una cosa lugubre.”

“Cazzo, Edward, è una cosa lugubre.”

“Non è un cazzo di cimitero, e basta. Comunque ci ho messo due anni. Un anno per uscire dal tunnel della depressione” fece una smorfia, ironizzando su se stesso “e un anno per decidere come poterli celebrare. Sai, tutte quelle cose tipo ma perché io sono salvo e loro no, tutte quelle stupidaggini che ti portano a stare come un cane? Beh, mi hanno impedito di riuscire a confrontarmi con loro serenamente.”

Inspirò profondamente, digrignò i denti quando l’ago toccò un punto particolarmente sensibile.

“Per fortuna che te lo dici da solo, che sono stronzate.”

“Io ho detto stupidaggini, non stronzate.”

“Beh, io traduco meglio quello che dici.”

“Non sono—“

“D’accordo, ora stai zitto.”

Il profilo era fatto, Ed poteva sentire la x battere come il suo cuore.

“E questo chi è?”

“Ah, questo è Al.”

 

Aveva passato un anno buono a chiedersi perché; a tutte le ore del giorno e della notte (l’insonnia fu l’amante più calorosa della sua vita intera), si domandava perché lui era sopravvissuto, lui e nessun altro, lui che sentiva che meno di tutti lo meritava. Avrebbe dato dieci vite perché la sua famiglia sopravvivesse al suo posto. Aveva passato tanto tempo (troppo, riusciva a definirlo ora) a sentire nelle narici l’odore di bruciato e nelle orecchie le urla, negli occhi i loro visi scavati. Aveva fallito con ogni mezzo di fuga, non riusciva assolutamente a dimenticare – ci è voluto più del previsto per arrivare all’ovvio.

“Mi manchi. E non mi sento affatto un bambino a dirtelo, nonostante la mia età. In fondo va bene, credo di non essere mai cresciuto, di non esserci riuscito da quando sono uscito dal campo di concentramento. Anche se, in fondo, forse sono cresciuto di colpo proprio lì, e non mi è servito più diventare ancora più grande. Non lo so. Ma in fondo va bene così, no, mamma?”

 

“Al?”

“Oddio, non ti ho mai parlato di Al? Al è Alphonse, mio fratello. Il mio fratellino minore, per l’esattezza. Avevo diciannove anni, quando ci hanno presi, lui ne aveva quasi diciotto. Lui è stato ucciso subito, assieme alla mamma. Sai, la gente inutile. È sempre stato molto magro per sua costituzione, tossiva spesso.”

Mario lo guardò, aspettandosi di ritrovargli gli occhi adombrati di lacrime; invece il suo era uno sguardo fiero, orgoglioso.

“Sono sicuro di essere sopravvissuto anche grazie alla loro forza, quella che non è salita al cielo assieme alle loro ceneri. Loro sono entrati in me e se ne sono andati quando sono uscito da Auschwitz. Sai, a quel punto anche loro hanno voluto riposarsi. Solo mio padre ha vissuto con me, fino a quando non sono scappato. Te l’ho detto, no? Sono scappato con lui durante una marcia; ma lui l’hanno preso, perché è caduto sulla neve. Mentre camminavamo mi ha ripetuto, sottovoce, in dialetto, di scappare, che non doveva importarmi nient’altro, poteva succedere qualunque cosa ma a me non doveva importare, doveva importarmi solo di scappare. È l’unica volta in tutta la mia vita che gli ho ubbidito.”

 

Le croci erano infilate in un mucchio di terra nel modo più saldo possibile. Dall’alto si poteva identificare un triangolo, un’ironia lugubre; sua madre e suo padre erano il vertice destro; a sinistra una croce sola, una solitaria ancora era il vertice alto.

“Ti farebbe piacere sapere che sono vivo perché ho ascoltato papà. Saresti contentissima, visto quanto poco lo ascoltavo. Okay, sì, non lo ascoltavo proprio mai. Litigavamo sempre, eravamo troppo simili. Testardi, incapaci di parlare se non direttamente, quello che ci dicevamo l’un l’altro erano praticamente solo insulti. Ci tenevi sempre il muso quando ci urlavamo contro, e ci chiedevamo scusa a vicenda solo per amor tuo. Ti ricordi le liti assurde perché volevo farmi crescere i capelli e lui non voleva? Io ho avuto la meglio, ne sono ancora oggi molto orgoglioso. Vedi che bella coda lunga sono riuscito a farmi crescere, anche dopo aver avuto il capo rasato per anni? È ancora il mio segno di ribellione contro papà. Lui è qua, sull’avambraccio sinistro.”

 

“Lui è il padre che non hai mai ascoltato.”

A Mario piacevano le storie, anche quelle che conosceva a memoria. Gli piaceva sentirle dire da Ed, aveva un qualcosa di affascinante, quando parlava.

“A differenza di Mustang.”

“Ma se dici sempre che non lo sopportavi!”

“Però lui lo ascoltavo. Mio padre non lo ascoltavo per principio, perché mi dava sui nervi la sua stessa voce, per chissà quale—“

“Odio contro il genitore autoritario, sì lo so, me lo hai ripetuto cento volte. Lui è il padre che ti ha insegnato a combattere blabla.”

“Inutile che prendi per il culo, sfigato.”

 

“Proprio qui, sul muscolo, a ricordarmi come sia grazie a lui che posso lottare, adesso. Nel vero senso della parola. Tu non lo sai, ma lui mi ha insegnato a fare a botte, mi ha insegnato come e quando tirare fuori la forza fisica. Da papà ho voluto imparare solo questo, e a pensarci sono stato un gran deficiente, perché ho perso un sacco di occasioni. Però, insomma, un po’ mi sono rifatto con Mustang.”

 

“Lui è quello minuscolo che hai dietro l’orecchio, no?”

Edward si grattò la X dietro il padiglione destro; annuì, sorridendo. “Esattamente, è proprio lui. Mustang era il padre che ascoltavo. Non che lui mi stesse meno antipatico di Hohenheim, credo di avere un piccolo problema con le autorità.”

Mario annuì, solennemente: ricordava a menadito tutte le urla che si lanciavano lui e il suo capo, al locale, che non lo cacciava a pedate per non si sa quale pietà. Forse gli piaceva litigare con lui.

“È venuto ad abitare vicino a noi quando avevo sedici anni, lui e la moglie, senza figli. Mi ha subito preso di mira, solo perché sono… sono… beh, lo sai.”

Bas—

“Zitto, animale. Beh, sì, quello.”

 

“Mi rimproveravi continuamente perché litigavo anche con lui. Avresti di che sgridarmi anche adesso, sai?”, rise, “Però lui mi affascinava. Piuttosto che ammetterlo a lui mi ammazzerei, però è così. Qualcosa nella sua ambizione, nella sua testardaggine, nel suo orgoglio e nel suo modo protettivo di interessarsi di me e di Al; qualcosa che lo rendeva simile a me, non troppo come papà, ma che me lo faceva sentire vicino.”

 

“Lui è morto prima di tutti, no?”

Edward sospirò, gemette di dolore ancora una volta per l’ago, poi riprese a parlare, quando ebbe abbastanza aria per parlare.

“Sì, ha cercato di difendere me e Al quando sono venuti a prenderci. Lui e sua moglie sono stati uccisi da un soldato tedesco. La forza con cui ha si è frapposto fra quelli e noi è stato… cazzo, qualcosa che non si dimentica per tutta la vita. Il fuoco che aveva negli occhi. Sai, ti sarebbe piaciuto Mustang, era uno che sapeva il fatto suo.”

“Se riusciva a metterti sotto mi sarebbe piaciuto moltissimo.”

Tsk, ora nessuno ne è più in grado.”

“Questo non è un punto a tuo favore, visto il caratteraccio che ti ritrovi. Comunque mi stavi parlando di Al, prima.”

 

Edward sospirò profondamente. “Credi che sia riuscito a dimostrare abbastanza ad Al quanto lo amavo, mamma?”

Sospirò di nuovo, e sentì il tatuaggio bruciare.

 

“Al era ciò a cui più tenevo al mondo. Più di me stesso, più di tutto. Ci sono volte che prego che qualcuno si prenda vent’anni della mia vita per darli ad Al, preferirei morire prima e stare con lui per un altro po’. Ma sto diventando sentimentale, e non mi va di piangere.”

Restarono in silenzio fino a quando il ronzio dell’ago non cessò, e il tatuaggio era finito.

“Spero sia venuto bene.”

“Perché non dovrebbe essere venuto bene, Ed?”

“Magari ti sei commosso troppo ed è venuto traballante per le lacrime.”

“Ma vai a cagare.”

“Dopo questa posso anche andarmene.”

“Non senza aver pagato.”

“Non te lo scordi mai, eh?”

“Assolutamente no.”

Risero; Edward tirò fuori un paio di banconote, lasciandogli pure il resto. L’altro incassò il denaro, e lo guardò.

“Ma non ti fa più male vedere tutti sti segnacci sul corpo? A ricordarteli ad ogni ora del giorno?”

“Bah!”

Ed sbuffò, tirandosi su, e lo guardò quasi offeso. Sbuffò di nuovo per spingere un ciuffo di capelli al proprio posto.

“Dopo tutti questi anni ancora non mi conosci? Non sono più tipo da piangere come una femminuccia. Io non piango più. Questi mi servono solo a ricordare quanto è preziosa e importante la mia vita, quanto lo fosse la loro, e che devo sempre ricordarlo. E poi mi piace averli sempre con me, anche quando non posso andare a trovarli. È bello ricordarli. In fondo loro sono lì, a dormire sulla collina; è bene che io li ricordi, hai idea di quanto si annoiano?”

Per salutarsi, batterono un pugno contro l’altro, come al solito.

“Questi sono gli ultimi soldi che riceverò da te, allora?”

“Non preoccuparti, la birra te la offrirò comunque.”

“Bravissimo, mi hai letto nel pensiero.”

“Alla prossima birra, allora.”

Edward uscì, fischiettando allegramente.

 

“Ci vediamo sabato prossimo, mamma. Mustang. Papà. Al.”

Baciò la croce del fratello con devozione, come un oggetto sacro. Si baciò le dita e le portò al petto, toccando il tatuaggio.

“Questo mi ha fatto un male cane. Tutto per te, sai?”

Si tolse l’erba dal sedere e dalle ginocchia, li salutò sbracciandosi mentre ritornava a casa, pestando le orme che aveva lasciato poche ore prima, canticchiando basso con la sua voce ruvida e stonata.

A sabato prossimo, soffiò il vento.

 

  
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