Aveva
uno studio minuscolo, ma ci teneva a tenerlo pulito. Aveva appeso una decina di
foto di donne che più che corpi avevano delle tele. Edward rimaneva spesso
affascinato dal loro sguardo fiero e profondo. Gli piacevano, sembravano
indipendenti, di quelle persone che non avevano bisogno di niente e di nessuno
se non della propria libertà. Le sentiva affini, in un qualche modo: sembravano
proprio di quelle persone che ne sanno apprezzare il sapore e l’odore, il
valore infinito. Era soprattutto per questo che a Edward piacevano, oltre che
per il loro sorriso splendido.
Ogni sabato mattina, anche se la sera prima aveva avuto
il turno di notte, Edward risaliva la collina, da quando fu in grado di rifarsi
una vita – non ne ha mai saltato uno. Si doveva svegliare almeno tre quarti
d’ora prima dell’alba, se voleva arrivare in tempo per contemplare la sua amata
città mentre sbadigliava e tentava di riprendere la propria vita, quando ancora
la luce albicocca dei primi, timidi raggi solari la annacquava, stringendola a
sé.
Sbadigliò sonoramente, quella mattina di aprile,
stiracchiandosi, aprendo la minuscola finestra. Salutò dolcemente quello che da
anni era il suo nuovo nido. “Buongiorno, New York.”
Vicino alla finestra teneva tanti vasi di margherite,
così da averne almeno quattro, tutto l’anno, da appoggiare vicino ai cumuli di
terra dentro cui aveva ficcato delle croci sghembe di rametti secchi legate con
dello spago vecchio. Quelle che aveva su tutto il corpo erano state fatte un
po’ meglio, erano tatuaggi precisi che un po’ lo facevano rassomigliare ad una
mappa del tesoro.
“Dove
lo facciamo stavolta, Edward?”
Lo
chiamavano Magnum per le dimensioni notevoli del suo corpo e perché il suo nome
italiano, Mario, non sembrava adatto a lui. Edward lo conosceva bene da due
anni perché, oltre a tornare con cadenza semestrale, gli offriva un boccale di
buona birra tedesca almeno una volta ogni dieci giorni – se la bevevano assieme
quando il locale chiudeva, e la serata finiva sempre con un Ed ubriaco in
spalla all’omone, che delirava sulla sua famiglia persa ad Auschwitz, visioni
mistiche di sua madre e di suo fratello.
Il
ragazzo si buttò sulla sedia, guardando l’amico diritto negli occhi
azzurrissimi. “Questo lo facciamo qui, sul cuore.”, un ghigno e il pugno
battuto sul petto.
Uscì di fretta perché aveva dormito dieci minuti in più
del dovuto, e la collina era distante dalla sua casa di periferia. Stringeva
delicatamente i fiorellini tra le dita, facendo attenzione a non sgualcirli:
sarebbe stata un’offesa, altrimenti. Risalì il pendio che l’abitudine di anni
di camminata avevano reso dolce, particolarmente allegro.
“All or nothin' at all, half a love never appealed to me...”, canticchiava quella mattina mentre sistemava
i fiori nuovi e toglieva di mezzo quei quattro petali rimasti da quelli secchi
della settimana precedente. Sorrideva sempre mentre li piantava nella terra che
smuoveva con le sue mani - lo faceva senza guanti, quasi a voler sentire meglio
il contatto, come se potesse sentire con i polpastrelli il battito del cuore
dei suoi cari estinti.
“Frank Sinatra ti sarebbe piaciuto tantissimo, mamma.
Forse a papà no, ma sono sicuro che glielo avresti fatto piacere a forza. Hai
sempre saputo come addomesticarlo.”
Si sedette per terra, tenendo lo sguardo dritto davanti
a sé: sentiva sotto i palmi l’erba solleticarlo, le orecchie si riempivano
piano piano, goccia dopo goccia, nel lieve cinguettare
degli uccelli. New York riposava ancora.
Si sentiva un po’ folle, ma amava parlare con sua mamma.
Non che credesse nell’anima, o quelle cose lì, era un ebreo per finta, per
compiacerla anche dopo anni; anche quando il suo corpo, se ce ne fosse stato
uno, non sarebbe stato altro che un mero ricordo permanente.
“Ti piace qui, vero?”
Non glielo chiedeva da un bel po’. Anzi, a dir la verità
non lo aveva mai fatto. Aveva ricucito pezzi di ricordi e sorridi addosso ai
rami, e lì li aveva messi, accanto alle memorie più care.
“Se potessi vederlo ti piacerebbe moltissimo. New York è
strana, sai? È chiassosa, caotica, è come un piatto cucinato da venti cuochi
diversi, c’è un pezzetto di ogni cosa. Credo ti piacerebbe molto, ameresti
quest’aria frizzante e un po’ superficiale. Passeresti la mattina con le
orecchie tese ad ascoltare dischi, il pomeriggio a sgridare noi uomini di casa
per come sperperiamo le nostre ore di luce, la sera a ballare con papà su
melodie mezze inventate dal suo fischiare. Vivresti bene, saresti contenta,
mamma. Qui è pieno di quelle frivolezze a cui hai sempre rinunciato per darci
la vita migliore, e noi lavoreremmo sodo per permettertele. Ah, sì, New York ti
piacerebbe.”
Il vento che passava attraverso le fessure del legno,
Edward quasi lo sentiva ridere dolcemente.
“Certo
che te li fai sempre in posti strani, Ed.”
Quello
rise, sistemandosi meglio sulla poltrona.
“Aah,
lo sai benissimo che hanno tutti senso, smettila di dirmelo ogni volta. Me
l’hai detto la prima volta per quello di mia madre, e lì posso capirlo, e forse
forse anche per quello per mio padre. Ma quelli dopo
no. Sei monotono, Magnum.”
Conosceva
tanto il dolore del tatuaggio che strinse i denti in anticipo, quando l’ago era
a quasi mezzo centimetro dal cuore.
“Sì,
e quindi? Guarda che te la faccio rosa, la croce.”
“Tu
provaci, e io ti farò bere cianuro.”
“Ah!
Come se qualcosa potesse scalfirmi!”
“Stai
zitto e lavora, su.”
Edward
si strinse il labbro fra i denti; ma torturarlo fino a lasciare i segni non era
davvero il modo migliore per distrarsi.
“Ehi,
senti, te le ricordi tutte le storie che ti ho raccontato sui miei tatuaggi?”
“E
come dimenticarle? Io me le ricordo tutte, le storie che mi raccontano i
clienti. Mi piace lavorare quando lo faccio per un motivo più profondo.”
“Ma
come parli bene. Ci attiri molti clienti, facendo così? Dai, ricordarmele, allora…”
“Forse non ti piacerebbero i tatuaggi che mi sono
fatto.”
Ridacchiò, sdraiandosi sull’erba con le mani dietro alla
nuca. Inspirò l’aria fresca, riempiendosene i polmoni. Amava i ricambi d’aria.
“Però i motivi sì. Anzi, ti verrebbero i lacrimoni perché ti commuoveresti tantissimo. Lo vedi
questo, sul polso destro? Questa sei tu.”
Non li aveva spiegati alla sua famiglia, ancora – quella
uccisa ad Auschwitz, da cui era scampato per miracolo, quella che ancora sulla
pelle puzzava di morto e di cenere e di grida e di sangue e dell’orrore umano,
e quella piccola parte che là non c’era arrivata, ma per lo stesso motivo aveva
perso la vita.
“Perché tu mi hai insegnato a scrivere, a leggere e… tutte quelle cose lì, no? A vivere. Ogni volta che
voglio mollare tutto e mandare a fare in culo il mondo intero, mi guardo il
polso e penso a chi avrebbe e ha dato la vita per me. Per questo non mollo,
sarebbe come insultarti, e questo non posso proprio farlo.”
Rise; sentiva in petto crescere la voglia di parlare,
per recuperare tutti i silenzi precedenti, quelli dettati dal senso di colpa
che ancora, nelle giornate più buie, lo schiacciava fino a non respirare.
“Non
ricordo però quanti anni c’hai messo a fare quella specie di cimitero.”
“Non
chiamarlo cimitero, lo fa sembrare una cosa lugubre.”
“Cazzo,
Edward, è una cosa lugubre.”
“Non
è un cazzo di cimitero, e basta. Comunque ci ho messo due anni. Un anno per
uscire dal tunnel della depressione” fece una smorfia, ironizzando su se stesso
“e un anno per decidere come poterli celebrare. Sai, tutte quelle cose tipo ma
perché io sono salvo e loro no, tutte quelle stupidaggini che ti portano a
stare come un cane? Beh, mi hanno impedito di riuscire a confrontarmi con loro
serenamente.”
Inspirò
profondamente, digrignò i denti quando l’ago toccò un punto particolarmente
sensibile.
“Per
fortuna che te lo dici da solo, che sono stronzate.”
“Io
ho detto stupidaggini, non stronzate.”
“Beh,
io traduco meglio quello che dici.”
“Non
sono—“
“D’accordo,
ora stai zitto.”
Il
profilo era fatto, Ed poteva sentire la x battere come il suo cuore.
“E
questo chi è?”
“Ah,
questo è Al.”
Aveva passato un anno buono a chiedersi perché; a tutte
le ore del giorno e della notte (l’insonnia fu l’amante più calorosa della sua
vita intera), si domandava perché lui era sopravvissuto, lui e nessun altro,
lui che sentiva che meno di tutti lo meritava. Avrebbe dato dieci vite perché
la sua famiglia sopravvivesse al suo posto. Aveva passato tanto tempo (troppo,
riusciva a definirlo ora) a sentire nelle narici l’odore di bruciato e nelle orecchie
le urla, negli occhi i loro visi scavati. Aveva fallito con ogni mezzo di fuga,
non riusciva assolutamente a dimenticare – ci è voluto più del previsto per
arrivare all’ovvio.
“Mi manchi. E non mi sento affatto un bambino a dirtelo,
nonostante la mia età. In fondo va bene, credo di non essere mai cresciuto, di
non esserci riuscito da quando sono uscito dal campo di concentramento. Anche
se, in fondo, forse sono cresciuto di colpo proprio lì, e non mi è servito più
diventare ancora più grande. Non lo so. Ma in fondo va bene così, no, mamma?”
“Al?”
“Oddio,
non ti ho mai parlato di Al? Al è Alphonse, mio fratello. Il mio fratellino
minore, per l’esattezza. Avevo diciannove anni, quando ci hanno presi, lui ne
aveva quasi diciotto. Lui è stato ucciso subito, assieme alla mamma. Sai, la
gente inutile. È sempre stato molto magro per sua costituzione, tossiva
spesso.”
Mario
lo guardò, aspettandosi di ritrovargli gli occhi adombrati di lacrime; invece
il suo era uno sguardo fiero, orgoglioso.
“Sono
sicuro di essere sopravvissuto anche grazie alla loro forza, quella che non è
salita al cielo assieme alle loro ceneri. Loro sono entrati in me e se ne sono
andati quando sono uscito da Auschwitz. Sai, a quel punto anche loro hanno
voluto riposarsi. Solo mio padre ha vissuto con me, fino a quando non sono
scappato. Te l’ho detto, no? Sono scappato con lui durante una marcia; ma lui
l’hanno preso, perché è caduto sulla neve. Mentre camminavamo mi ha ripetuto,
sottovoce, in dialetto, di scappare, che non doveva importarmi nient’altro,
poteva succedere qualunque cosa ma a me non doveva importare, doveva importarmi
solo di scappare. È l’unica volta in tutta la mia vita che gli ho ubbidito.”
Le croci erano infilate in un mucchio di terra nel modo
più saldo possibile. Dall’alto si poteva identificare un triangolo, un’ironia
lugubre; sua madre e suo padre erano il vertice destro; a sinistra una croce
sola, una solitaria ancora era il vertice alto.
“Ti farebbe piacere sapere che sono vivo perché ho
ascoltato papà. Saresti contentissima, visto quanto poco lo ascoltavo. Okay,
sì, non lo ascoltavo proprio mai. Litigavamo sempre, eravamo troppo simili.
Testardi, incapaci di parlare se non direttamente, quello che ci dicevamo l’un
l’altro erano praticamente solo insulti. Ci tenevi sempre il muso quando ci
urlavamo contro, e ci chiedevamo scusa a vicenda solo per amor tuo. Ti ricordi
le liti assurde perché volevo farmi crescere i capelli e lui non voleva? Io ho
avuto la meglio, ne sono ancora oggi molto orgoglioso. Vedi che bella coda
lunga sono riuscito a farmi crescere, anche dopo aver avuto il capo rasato per
anni? È ancora il mio segno di ribellione contro papà. Lui è qua,
sull’avambraccio sinistro.”
“Lui
è il padre che non hai mai ascoltato.”
A
Mario piacevano le storie, anche quelle che conosceva a memoria. Gli piaceva
sentirle dire da Ed, aveva un qualcosa di affascinante, quando parlava.
“A
differenza di Mustang.”
“Ma
se dici sempre che non lo sopportavi!”
“Però
lui lo ascoltavo. Mio padre non lo ascoltavo per principio, perché mi dava sui
nervi la sua stessa voce, per chissà quale—“
“Odio
contro il genitore autoritario, sì lo so, me lo hai ripetuto cento volte. Lui è
il padre che ti ha insegnato a combattere blabla.”
“Inutile
che prendi per il culo, sfigato.”
“Proprio qui, sul muscolo, a ricordarmi come sia grazie
a lui che posso lottare, adesso. Nel vero senso della parola. Tu non lo sai, ma
lui mi ha insegnato a fare a botte, mi ha insegnato come e quando tirare fuori
la forza fisica. Da papà ho voluto imparare solo questo, e a pensarci sono
stato un gran deficiente, perché ho perso un sacco di occasioni. Però, insomma,
un po’ mi sono rifatto con Mustang.”
“Lui
è quello minuscolo che hai dietro l’orecchio, no?”
Edward
si grattò la X dietro il padiglione destro; annuì, sorridendo. “Esattamente, è
proprio lui. Mustang era il padre che ascoltavo. Non che lui mi stesse meno
antipatico di Hohenheim, credo di avere un piccolo
problema con le autorità.”
Mario
annuì, solennemente: ricordava a menadito tutte le urla che si lanciavano lui e
il suo capo, al locale, che non lo cacciava a pedate per non si sa quale pietà.
Forse gli piaceva litigare con lui.
“È
venuto ad abitare vicino a noi quando avevo sedici anni, lui e la moglie, senza
figli. Mi ha subito preso di mira, solo perché sono… sono… beh, lo sai.”
“Bas—“
“Zitto,
animale. Beh, sì, quello.”
“Mi rimproveravi continuamente perché litigavo anche con
lui. Avresti di che sgridarmi anche adesso, sai?”, rise, “Però lui mi affascinava.
Piuttosto che ammetterlo a lui mi ammazzerei, però è così. Qualcosa nella sua
ambizione, nella sua testardaggine, nel suo orgoglio e nel suo modo protettivo
di interessarsi di me e di Al; qualcosa che lo rendeva simile a me, non troppo
come papà, ma che me lo faceva sentire vicino.”
“Lui
è morto prima di tutti, no?”
Edward
sospirò, gemette di dolore ancora una volta per l’ago, poi riprese a parlare,
quando ebbe abbastanza aria per parlare.
“Sì,
ha cercato di difendere me e Al quando sono venuti a prenderci. Lui e sua
moglie sono stati uccisi da un soldato tedesco. La forza con cui ha si è
frapposto fra quelli e noi è stato… cazzo, qualcosa
che non si dimentica per tutta la vita. Il fuoco che aveva negli occhi. Sai, ti
sarebbe piaciuto Mustang, era uno che sapeva il fatto suo.”
“Se
riusciva a metterti sotto mi sarebbe piaciuto moltissimo.”
“Tsk, ora nessuno ne è più in grado.”
“Questo
non è un punto a tuo favore, visto il caratteraccio che ti ritrovi. Comunque mi
stavi parlando di Al, prima.”
Edward sospirò profondamente. “Credi che sia riuscito a
dimostrare abbastanza ad Al quanto lo amavo, mamma?”
Sospirò di nuovo, e sentì il tatuaggio bruciare.
“Al
era ciò a cui più tenevo al mondo. Più di me stesso, più di tutto. Ci sono
volte che prego che qualcuno si prenda vent’anni della mia vita per darli ad
Al, preferirei morire prima e stare con lui per un altro po’. Ma sto diventando
sentimentale, e non mi va di piangere.”
Restarono
in silenzio fino a quando il ronzio dell’ago non cessò, e il tatuaggio era
finito.
“Spero
sia venuto bene.”
“Perché
non dovrebbe essere venuto bene, Ed?”
“Magari
ti sei commosso troppo ed è venuto traballante per le lacrime.”
“Ma
vai a cagare.”
“Dopo
questa posso anche andarmene.”
“Non
senza aver pagato.”
“Non
te lo scordi mai, eh?”
“Assolutamente
no.”
Risero;
Edward tirò fuori un paio di banconote, lasciandogli pure il resto. L’altro
incassò il denaro, e lo guardò.
“Ma
non ti fa più male vedere tutti sti segnacci sul corpo?
A ricordarteli ad ogni ora del giorno?”
“Bah!”
Ed
sbuffò, tirandosi su, e lo guardò quasi offeso. Sbuffò di nuovo per spingere un
ciuffo di capelli al proprio posto.
“Dopo
tutti questi anni ancora non mi conosci? Non sono più tipo da piangere come una
femminuccia. Io non piango più. Questi mi servono solo a ricordare quanto è
preziosa e importante la mia vita, quanto lo fosse la loro, e che devo sempre
ricordarlo. E poi mi piace averli sempre con me, anche quando non posso andare
a trovarli. È bello ricordarli. In fondo loro sono lì, a dormire sulla collina;
è bene che io li ricordi, hai idea di quanto si annoiano?”
Per
salutarsi, batterono un pugno contro l’altro, come al solito.
“Questi
sono gli ultimi soldi che riceverò da te, allora?”
“Non
preoccuparti, la birra te la offrirò comunque.”
“Bravissimo,
mi hai letto nel pensiero.”
“Alla
prossima birra, allora.”
Edward
uscì, fischiettando allegramente.
“Ci vediamo sabato prossimo, mamma. Mustang. Papà. Al.”
Baciò la croce del fratello con devozione, come un
oggetto sacro. Si baciò le dita e le portò al petto, toccando il tatuaggio.
“Questo mi ha fatto un male cane. Tutto per te, sai?”
Si tolse l’erba dal sedere e dalle ginocchia, li salutò
sbracciandosi mentre ritornava a casa, pestando le orme che aveva lasciato
poche ore prima, canticchiando basso con la sua voce ruvida e stonata.
A
sabato prossimo, soffiò il vento.