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Autore: yesterday    30/07/2010    15 recensioni
"Aveva un buco - enorme - al centro del petto, un vuoto - assurdo - ad occupare il posto di un organo già fermo ed ormai inutile.
C’era quel nome che continuava a gocciolarle nel cervello come un rubinetto che perdeva.
Plic. Plic. Plic.
James. James. James.
Cinque meravigliose dolorose sanguinanti lettere.
"
Quarta classificata al contest "Characters&Quote" indetto da Only_Me sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Victoria
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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Nick Autore: yesterday
Titolo: Cinque Splendide Lettere.
Generi: introspettivo, vagamente romantico, drammatico (?)
Rating: arancio.
Disclaimer: niente di mio, se non il tempo utilizzato per scrivere :)
Intro/NdA: Lo stile è volutamente ripetitivo e la punteggiatura particolare. Volevo che questa fosse una sorta di...nenia piuttosto malsana. Spero di esserci riuscita, almeno in parte. Grazie infinite a per il bannerino *w* (Altri chiarimenti, le traduzioni e precisazioni al dopo-shot :D)





Cinque Splendide Lettere.

Quarta classificata a parimerito al contest "Characters & Quote" indetto da Only_Me sul forum di EFP.



Cinque splendide lettere, J A M E S.
Impossibile non accorgersi di come il suono accarezzasse vellutato i brevi fonemi, con quella punta di dolcezza da far male al cuore scatenato ed immobile.
Victoria lo sapeva.
Victoria lo aveva sempre saputo, che James era un nome bellissimo.
Lo aveva già intuito quando, debole carne umana e memoria fumosa, lo incontrò per la prima volta.
Il cielo era coperto da uno spesso manto di nubi, presagio di pioggia, ed i capelli di Victoria erano rinchiusi in una gabbia di perline; lei stessa era rinchiusa in un vestito troppo scomodo e stretto per i suoi gusti.
Lei - Victoria - voleva i ricci liberi sulla sua schiena e la sola chilometrica - ed altrettanto libera - vestaglia bianca addosso.
Malediceva sempre il giorno in cui era nata da una famiglia nobile, tranne in quell’occasione - quando scoprì che James era un nome assai melodioso.
Pensò, sbagliando, che lui l’avesse notata per via dei suoi raffinati abiti.

Il ricordo più sconvolgente era quella distesa di papaveri. Un campo sterminato. Una via, tanta fretta di accompagnare un bambino - un fratello? - a.. Victoria questo l’aveva dimenticato.
Come non ricordava perché lo stesse accompagnando lei personalmente, di norma era una mansione della servitù.
Erano impalliditi, quei leggeri dettagli, impalliditi nei giorni di fuoco della sua trasformazione. Erano impalliditi perché l’istante che visse dopo era tremendamente più importante ed assoluto, uno dei momenti da imprimere nella memoria a qualsiasi costo.
Perché aveva visto lui - e non importava perché si trovasse lì, come ci fosse arrivata e dove dovesse dirigersi. Non importava più.
Un campo di papaveri, una strada sterrata, tanta fretta, un bambino - un fratello? - e poi lui.
Non la guardava, osservava dritto avanti a sé.
Victoria se ne stupì - era solita essere ammirata, lei.
Invece si ritrovava a ricoprire un ruolo marginale nelle attenzioni di un uomo tanto bello da far sì che fosse lei, per una volta soltanto, ad ammirare.
Si voltò, e durò un attimo. Victoria rabbrividì incrociando quegli occhi feroci, ma fu un secondo.
Assunse un’aria cortese, e lei giustificò le strane iridi di sangue dandole per effetto d’una brutta malattia, di quelle che imperversavano dalle Americhe, di quelle strane e difficilmente curabili.
« Buenos días, señorita » la salutò scostando leggermente il cappello.
Victoria si bloccò, scordando tutta la fretta e la mano paffuta che stringeva la sua.
Quell’uomo aveva una voce bellissima. Ammaliante, quasi. Victoria desiderò poter chiudere gli occhi e sentirlo parlare per ore.
Se suo padre l’avesse scoperta probabilmente l’avrebbe picchiata, ma Victoria drizzò le spalle e rispose al saluto dello sconosciuto.
« Buenos días » e sorrise impacciata.
Anche lo sconosciuto sorrise, rivolgendosi poi ai papaveri.
Il bimbo - fratello? - la strattonava verso la direzione opposta, impaurito dalla vicinanza dell’uomo. Victoria allentò la presa, ed il bambino corse via.
« ¿Puedo saber cómo se llama Usted? » lo sconosciuto piegò la testa di lato.
D’improvvisò Victoria soffrì per la mancanza dei suoi ricci - ora relegati in una stretta crocchia sulla nuca -, tanto folti da poterla proteggere.
Quegli occhi - quell’uomo tanto pallido e bello sembrava sondarle l’anima coi suoi occhi accesi.
« Victoria » balbettò appena.
« Yo soy James. »
Quel nome le entrò in circolo, e James dilatò le narici per un istante, respirandola. (*)
Victoria fu strattonata lontano dalla servitù dei suoi genitori - perché parlare con gli sconosciuti era un sacrilegio bell’e buono, oh sì - e solo più tardi avrebbe scoperto che quella piccola folla di spettatori (accorsa dopo le suppliche del bambino, preoccupato) le aveva prolungato la vita di un paio di settimane.
Solo più tardi avrebbe scoperto che quegli occhi non simboleggiavano nessuna rara malattia, ma un’arcana maledizione senza fine.
Solo più tardi avrebbe scoperto che quelle erano le uniche parole che James conosceva, in spagnolo, imparate giusto per l’occasione.
E sempre più tardi avrebbe scoperto che già da tempo, lui, l’osservava.
La respirava.

Iniziò ad incontrarlo spesso. Erano sempre fortuite coincidenze, di norma, o almeno lo sembravano.
Iniziò a pensarci, a giocare con quel nome così strano - e Victoria immaginò che dovesse essere un americano o forse un marinaio inglese - affibbiandogli una storia, una personalità.
Aspettandosi che, un giorno, l’avrebbe visto contrattare con suo padre i termini di matrimonio. Fantasticò sul fatto che l’avrebbe chiesta in moglie, data la sua età propizia.
Una settimana dopo Victoria s’accorse di quanto quegl’incontri non fossero fortuite coincidenze e di quanto quegli sguardi di sfuggita fossero carichi di desiderio. Tanto, forse troppo.
Ma dei due generi di desiderio che divoravano James lei ne poteva ipotizzare uno soltanto, all’epoca.
Victoria era sempre stata altalenante, caratterialmente parlando, lo sapeva. Un giorno, un giorno soltanto, non lo vide. Era un jueves, (**) e lo ricordava bene: il sole era tornato a splendere dopo due settimane di pioggia e nuvole.
Passò il pomeriggio a crogiolarsi nei dubbi, stringendo il parasole con le dita e voltandosi di continuo.
Era un marinaio inglese - sì, lo era per forza - ed era partito per un lungo viaggio.
La consapevolezza si fece largo nelle sue ossa e Victoria capì che quei casi e quelle iridi cariche di desiderio travolgente non le dispiacevano: stentava ad ammetterlo, ma quasi le mancavano.
Sbirciò fuori dal calesse e, notando la strada assolata ma vuota, si sentì sola.

Sciolse i capelli, pettinando quel suo vanto con estrema calma.
Era un gesto che le infondeva serenità starsene lì, di fronte alla finestra aperta, la stanza libera dall’invasione di cameriere ed il vento a solleticarle la pelle nuda della spalla sinistra.
Inspirò a pieni polmoni, socchiudendo gli occhi; rimase in quella posizione per un po’.
Scosse la testa accorgendosi di cosa popolasse i suoi pensieri anche in quel momento - cinque lettere, sempre le stesse, l’unico legame reale con il bel marinaio inglese dalla pelle diafana - e riaprì gli occhi.
Trovando un estraneo appoggiato al davanzale.
Forse avrebbe dovuto urlare - sicuramente - o forse scappare via - giustamente.
Ma in fondo avrebbe solo sprecato fiato ed energie; il motivo l’avrebbe scoperto poi.
« ¿J-James? » incespicò, sorpresa ma nient’affatto delusa.
Lui annuì.
« Victoria.. » salutò con un breve cenno del capo.
In risposta lei arraffò la sua vestaglia, coprendosi quanto meglio, e s’avvicinò alla porta per chiuderla a chiave.
Cos’avrebbe pensato suo padre? Cos’avrebbe pensato la servitù, vedendola lì? Avrebbe allontanato James, forse l’avrebbe messo in fuga - e Victoria non desiderava questo.
James avanzò, sembrava a proprio agio nella sua stanza, come se conoscesse ogni dettaglio, persino quali erano le assi di legno del pavimento a fare rumore - le evitava tutte, sembrava volare.
Victoria avrebbe voluto chiedergli com’era arrivato fino al terzo piano - aveva una scala? Una fune? - avrebbe voluto che parlasse di lui, tanto per rendersi conto di quanto differisse la sua immaginaria descrizione dalla realtà.
Avrebbe voluto decine d’altre cose, ma se le dimenticò tutte quando James le si parò a pochi centimetri di distanza.
Avvertì il proprio respiro come bollente, e nello stesso istante scorse in lui una sorta di tensione - l’ultimo granello di un già debole autocontrollo, ma l’avrebbe scoperto poi.
Non provava paura.
Sbagliava anche in questo, e se ne rese conto ritrovandosi scaraventata sul suo letto, in un unico balzo felino ed istantaneo, stretta tra la coperta e lui, che si addentrava dalla spalla scoperta alla scollatura, implacabile.
Victoria era inerme, ancora intontita dal salto: troppe domande le affollavano la mente. Come era riuscito a compiere quel balzo? Non le sembrava un saltimbanco. E soprattutto, cosa intendeva fare? Non.. Non erano sposati!
Prestò attenzione solo quando, quattro secondi dopo, s’accorse di essere completamente nuda sotto di lui. E come se non bastasse, di averlo appena aiutato a togliersi la camicia.
Istintivamente si coprì il seno con un braccio, braccio che lui allontanò subito dopo, portandolo sopra alla sua testa, sul cuscino.
La stretta al polso era tanto ferrea da sembrare dolorosa, ma Victoria la interpretò come un’impressione - solo successivamente avrebbe scoperto quanto si sbagliava, quella stretta il polso gliel’aveva rotto.
Era divisa a metà: il suo buonsenso le urlava di divincolarsi, ma la sua sinistra non voleva saperne di staccarsi dal groviglio di capelli castani - a quella constatazione capì che doveva trattarsi d’un marinaio americano, poiché tutti gli inglesi erano biondi - il ventre d’esser sfiorato dalle dita di lui, le gambe di spostarsi, alzarsi, andare via.
Non le passò in mente nemmeno di urlare, di chiedere aiuto: si ritrovò costretta ad abbandonare il raziocinio e ad ammettere che gli unici suoni a fuoriuscire dalla sua bocca erano di tutt’altro genere.
Rispose ai baci famelici, aiutandolo a liberarsi dei pantaloni.
« Ja-mes » cinque lettere che le si spezzarono in gola
Avvertì dolore e chiuse ancora gli occhi. Sperò che passasse presto, lasciando spazio a ben altre sensazioni - quelle di cui spettegolavano giù in cucina le cuoche che il padre definiva spesso “donnacce” , quelle che avrebbe dovuto sentire quand’avesse portato al dito una fede da almeno un giorno.
E quelle, di sensazioni, non tardarono ad arrivare, offuscate però dal dolore sempre presente, sempre crescente - ingenuamente pensò fosse normale, lei, per quanto le fosse dato sapere - e riaprì gli occhi.
James - cinque lettere, sue in quel momento - inspirava, lo sguardo basso sul poco sangue a macchiare il lenzuolo.
Candidamente avrebbe voluto dirgli “non è nulla, è normale”, ma quando lui risollevò il viso lei capì che era abbastanza.
Successe in una frazione di secondo, probabilmente; inarcò la schiena avvertendo un sonoro crack del bacino.
La sinistra di lui sfiorò il suo busto, cercando di puntellarsi al letto, e Victoria avvertì nuovo dolore - all’altezza delle costole, stavolta.
E per quanto gemiti si alternassero a lamenti, nella sua gola, non si sentì violata, non riuscì a pentirsi.
Forse c’è qualcosa di malato, nell’amore che proviamo.
Nell’amore che ci costruiamo come un castello, nelle piccole come nelle grandi cose.
In ciò che attribuiamo agli altri - il più delle volte a torto, a voler essere sinceri.
Ed in quello che attribuiamo a noi stessi - anche stavolta spesso a torto.
Victoria non ne ebbe il tempo materiale, ma anche se l’avesse avuto il suo pensiero non sarebbe cambiato: c’è sicuramente qualcosa di sbagliato, nell’amore che ci immaginiamo al sicuro nel nostro cervello, ma in ogni caso non riusciamo a pentircene.
Tredici respiri ed un millesimo di secondo dopo, Victoria capì che le iridi di James non erano di certo una forestiera malattia.
James s‘era abbassato sul suo collo, posando una scia di sospiri e scendendo verso la spalla sinistra - la prima a scoprirsi del suo corpo.
Victoria, poi, si sentì divampare un incendio addosso. E chiuse, di nuovo, gli occhi.

Avvertì un incendio anche quel giorno di quasi trentadue milioni cinquecentoquaranta mila quattrocento inutili respiri prima.
E non l’avrebbe scordato mai, a prescindere dall’infallibile memoria da immortale.
Era stato... Logorante, ritrovarsi di fronte la fine di entrambi.
La morte di lui, in fondo, era stata la morte anche di lei.
Lei, Victoria, l’unica sfida che James prese così tanto a cuore - come se improvvisamente ne avesse davvero avuto uno - da trasformarla e volerla per sé e sé soltanto. Per sempre, come nelle fiabe che le raccontavano da bambina.
E le favole - lo imparava ogni giorno a sue spese - esistevano solo nei libri che aveva smesso di leggere da quasi due secoli.
Victoria era un essere inutile, ormai.
Victoria era malata - se fosse stata umana si sarebbe definita depressa - quei vani milioni di secondi le erano testimoni: giorni per mettere a fuoco l’idea che James - quelle cinque splendide lettere che dovevano essere sue per l’eternità - potesse aver fallito.
Victoria non aveva mai dubitato delle sue doti di segugio, o l’avrebbe ovviamente seguito.
          « Ricostruisci la vita di Isabella Swan » le ultime cose che le disse di persona prima di andare. Sarebbe tornato al massimo una settimana dopo, diceva.
« Ci rivediamo domani, Vic » l’ultima volta che sentì la sua voce, attutita da distanza e telefono.
Vic, tre sole lettere; James le aveva detto sarebbe stato veloce, aveva un piano - e poi sarebbe tornato da lei, da Vic.
Non era andata così.
Altri giorni - mesi? - per accorgersi che davvero, davvero era come se fosse morta anche lei.
Per accorgersi che avrebbe voluto essere morta anche lei.
E non aveva senso, un’eternità intera, se era obbligata a viverla in quel modo.
Non aveva senso - altre cinque lettere, ma stavolta non splendide.
Cinque splendide lettere non le avrebbe trovate mai più, Victoria, non c’erano parole e nomi che potessero competere.
Se fosse morta, Victoria, l’avrebbe incontrato. E se fossero stati divisi, lei l’avrebbe trovato.
Cinque splendide lettere, la sua voce e..

« L’umana » fu la prima parola che pronunciò dopo la fine, era settembre.
Umana, altre cinque lettere, nemmeno lontanamente splendide.
Laurent era lì con lei. Era il motivo per cui s’era decisa a parlare di nuovo.
« E’ ancora umana? No » si corresse di fretta « è già sotto una tomba? »
Tomba, ciò che non le era permesso. (***)
Aveva perso il conto del tempo, Victoria, tanto per lei non faceva differenza.
Potevano rincorrersi gli anni, dal canto suo, potevano davvero.
Perché dentro qualcosa di immobile e ghiacciato non sarebbe mai guarito.
Cuore, altre cinque lettere. No, non splendide.
Attese che Laurent tornasse con la risposta.
E nella sua testa c’era già tutto - ennesime cinque non splendide lettere.
L’umana, lei. Lei era la causa, lei era il gioco che gli era costato l’esistenza.
E lui - lui, il vampiro, Edward - la mano. L’umana il motivo, Edward l’aguzzino.
« E’ ancora viva. Ma è protetta da Edward, da Carlisle e dagli altri civilizzati di Forks. »
Victoria sorrise, per la prima volta dopo mesi di mutismo ed immobilità.
Un lampo di memoria umana definì quel che aveva preso forma nel suo spazioso cervello; era un detto spesso usato da suo padre. Occhio per occhio..

Non era un’irruente neonata, Victoria aveva ben compreso il sottile sbalzo - un non troppo timido strappo, una lacerazione - a separare l’istinto vendicativo dei vampiri da ciò che le smuoveva forte l’anima - se mai ne avesse avuta una; ma lei non aveva mai avuto abbastanza tempo per pensarci, all’anima, per paradossale che fosse.
Lei che aveva tutto il tempo del mondo, ma ne avrebbe volentieri fatto a meno.
C’era qualcosa anche oltre l’amplificazione della sua caratteristica, la particolarità che aveva saputo portarsi appresso, abbandonato il suo stato mortale - lei, lei che si era trascinata nel per sempre la costanza.
Aveva un buco - enorme - al centro del petto, un vuoto - assurdo - ad occupare il posto di un organo già fermo ed ormai inutile.
C’era quel nome che continuava a gocciolarle nel cervello come un rubinetto che perdeva.
Plic. Plic. Plic.
James. James. James.
Cinque meravigliose dolorose sanguinanti lettere.
Victoria era malata, probabilmente. Non che qualcuno si fosse mai apprestato a studiare la psiche di un vampiro, o perlomeno la sua (Victoria rise, lo sciagurato strizzacervelli sarebbe sopravvissuto per un lasso di tempo pari a dodici centesimi di secondo), ma già sapeva d’avere qualcosa fuori posto.
La consapevolezza - pesante - di dover vivere per sempre senza le sue cinque lettere.
Victoria aveva smarrito il senso, aveva smarrito la via. E non le interessava ritrovarla.
Victoria era malata, Victoria era folle - ma dopotutto, c’è amore vero che non sia folle?
La follia se l’era trascinata fino alla fine, lei.
Anche Laurent era morto - il suo odore misto a puzza di cane, ecco cos’aveva trovato nella foresta.
Ma lei non avrebbe fallito.
Quella era la sua occasione.
Odore, sentiva il suo odore - odore, altre cinque insensate lettere - Isabella era vicina.
Victoria aveva pianificato la morte di quella stupida umana attimo dopo attimo, per saziarsi di vendetta e godere del dolore di lei, della disperazione di lui - Edward.
Edward avrebbe capito, in quel momento, quanto si trascinasse Victoria giorno dopo giorno in un’interminabile esistenza vuota.
Lui avrebbe capito.
E lei ne avrebbe gioito.
Desiderava urlare, Victoria, e onde evitare preferì scendere sotto la scura superficie dell’oceano.
L’umana era lì, sull’orlo dello spuntone di roccia.
Victoria non perse tempo a chiedersi il motivo.
Se avesse avuto un cuore funzionante, probabilmente le sarebbe scoppiato nel petto in quel preciso istante.
Gustò le sue cinque lettere ancora una volta - « James » mormorò - e chiuse gli occhi.
Un tuffo in lontananza. Inspirò, Victoria, proprio come faceva lui.
Aprì gli occhi e rise. Rise, prima di iniziare a nuotare.
Una fiamma rossa tra le onde. (****)
Non avrebbe sbagliato, no.
Ciò che ha dato morte dovrà ricevere morte - morte.
M O R T E.
Victoria si stupì.
Eccole, altre cinque splendide lettere.




Le traduzioni spagnolo-italiano:
“Buongiorno, signorina”
“Buongiorno”
“Posso sapere come vi chiamate?”
“Victoria”
“Io sono James”.

(*) "e James dilatò le narici per un istante, respirandola" è una vaga ripresa alla scena descritta in Twilight: James che "respira" Bella, l'inizio della caccia del segugio.
(**) jueves sta per giovedì.
(***) "tomba, ciò che a lei non era concesso" be', un vampiro per morire deve essere fatto a pezzi e bruciato. E non ci sarà alcuna tomba a contenere le sue spoglie.
(****) "
Una fiamma rossa tra le onde." testualmente ripresa da New Moon. Così è chiarito anche il tempo della narrazione.





N/A
Di Twilight mi piacciono le cose non dette, e la storia di Victoria rientra tra queste.
Il nome mi suonava spagnolo, e nella mia testa eravamo circa nel 1800.


Riporto i punteggi assegnati alla mia storia dalla Giudice, la citazione era "L'amore non è amore se non è follia" (Anonimo).
Totale: 54.5/60.
- Originalità: 9.5/10
- Grammatica: 9.5/10 → La giudice ha segnato come unico errore "Era divisa a metà: il suo buonsenso le urlava di divincolarsi, ma la sua sinistra non voleva saperne di staccarsi dal groviglio di capelli castani - a quella constatazione capì che doveva trattarsi d’un marinaio americano, poiché tutti gli inglesi erano biondi - il ventre d’esser sfiorato dalle dita di lui, le gambe di spostarsi, alzarsi, andare via.". Ho chiesto ai giudici del CoS e ad un paio di betareader, i quali mi hanno detto che la frase è sì un po' "particolare" e pesante, ma contestualizzata nel testo. Passo velocemente dalla forma attiva alla passiva all'impersonale, ma la frase è corretta.
- Forma: 9/10
- Caratterizzazione personaggi: 9.5/10
- Attinenza al tema: 7/10
- Gradimento personale: 10/10

Grazie a chiunque si fermerà qui a leggere, grazie anche a chi, magari, mi lascerà il proprio parere.
Alla prossima :*

Kim.
   
 
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