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Autore: Ilaja    31/07/2010    1 recensioni
La vita è sempre stata un ciclo, e lo sarà sempre. A volte, però, penso che noi non possediamo gli occhi per capirla. Forse quelli di una bambina sono i più adatti per svelare ciò che si cela dietro il segreto della nostra esistenza: la morte.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Contest La Stazione e… il Drago

Indetto da Eylis

 

l'ultima fermata

 

Note dell’autore: Vorrei precisare che questa storia tratta argomenti piuttosto forti, come le violenze su una bambina e la morte, ma che ho cercato di descrivere con il più tatto possibile, ed è per questo che ho messo rating giallo. Per qualunque problema con il rating, segnalatemelo. La mia e-mail è: chiara.saretta@libero.it 

 

Capitolo I – L’epilogo

Non riuscivo più a capire se ciò che mi appannava lo sguardo era il fumo o le lacrime. Veli di tristezza e disperazione mi adombravano gli occhi, stanchi di quell’orrore, di quella terribile realtà che era il mondo umano. Volevo andare via, tornare al mio castello, farmi abbracciare da mamma e papà, strusciarmi contro la mia bambola preferita e dimenticare tutto, ogni, singolo granello di paura che stava tartassando il mio cuore.

Dolore, null’altro che dolore.

Basta.

Basta!

 Avrei voluto urlare, gridare, menare fendenti a quei villani, pregarli di tacere, di smetterla. Però non potevo fare altro che rimanere lì, come una conchiglia svuotata e slavata dal mare, corrosa fino al cuore, la parte più tenera del guscio. Ma, oramai, non sentivo più nemmeno quello. Ero lì, esanime, uccisa dalla vergogna e dalla crudeltà di quegli uomini.

Il mio amico spalancò le fauci, ringhiando chiari avvertimenti, ma nessuno se n’era accorto. Emetteva fumo, troppo fumo dalle narici, che andava confondendosi a quello delle sigarette, aspirate e bruciate sulla mia pelle, che appannava l’aria, offuscando l’ossigeno e quel profumo di primavera che tanto amavo. Ti prego, sospirai tra me, mentre l’ennesimo farabutto mi cavalcava. Ti prego, non farlo. Ci ucciderai tutti.

Ma lo conoscevo bene, e sapevo che non poteva resistere di fronte a tanta ingiustizia, tanta brutalità.

 Quante volte lo avevo aiutato a mantenere il controllo! Quando passavamo per le strade del nostro villaggio e ci imbattevamo in qualche ladruncolo messo alla gogna, quasi sempre una piccola nuvola di fumo usciva da quel muso squamato. “Ci dovrai fare l’abitudine, prima o poi” gli dicevo. “Mio padre usa questo metodo molto spesso.”

Ora, però, non si trattava di un pallido velo grigio. Le fiamme stava ardendo nei pressi della sua gola, pronte a scintillare appena il suo cuore non avrebbe retto di fronte alle disumanità. Cercai di tapparmi la bocca, di smetterla di gemere, nella speranza di impedirlo. Ma come fare? Avevo sette anni, le mani bloccate dalle stringhe e quattro uomini grassi e disgustosi di fronte a me.

Anche lui era stato rapito e imprigionato. Uomini meschini, ecco cosa erano! Avevano approfittato della sua distrazione quando mi avevano svestita, del suo sguardo rapito e orripilato, incapace di reggere di fronte a una tale, rude verità. Gli avevano imprigionato le ali, quelle belle ali squamate, luccicanti e dorate all’alba, quando la brina non era ancora scivolata via, rimasta attaccata per godersi i primi, tiepidi raggi di sole. Gli avevano legato il muso e le zampe.

Chiusi gli occhi. Mamma, pensai, piangendo. Papà…

I loro volti erano impressi nella mia memoria come un timbro rimaneva marcato nella ceralacca. Mia madre era bionda, con fili d’oro intrecciati nella chioma, luminosi, splendidi. Aveva i miei occhi: verdi come la speranza che l’animava nel profondo. Ultimamente era ingrassata parecchio, però. Io pensavo di sapere il perché. Anche la madre di un mio amico aveva quel tondo sulla pancia. Forse era incinta, anche se a noi bambini nessuno svelava mai nulla.

Mio padre ci scherzava su: “metti a dieta tua madre” mi diceva ogni volta che mi sorprendeva a osservarle il ventre. Io ridevo. Gli unici momenti in cui ridevo con mio padre. Era spesso burbero e indaffarato. Non cenava quasi mai con noi. Era sempre nella sala del trono, a parlare con i cortigiani, i consiglieri e gli studiosi. Usciva di rado.

Mia madre. Mio padre. Non avevo mai potuto chiamarli ‘mamma’ o ‘papà’, come i bambini di questo mondo. E dubitavo che avrei potuto mai farlo.

Il mio amico drago lanciò un ruggito che squarciò la luna, quella luna insanguinata e dolorosa, piena nella notte più sofferente della mia vita. Finalmente, uno degli uomini si alzò e andò a controllarlo. La gabbia del drago era fuori, ai limitari della foresta bruna. “Ehi!” esclamo, rientrando di corsa nella catapecchia, vestendosi in fretta. “Il mostro sta per andare a fuoco!”

Idioti. Non avevano mai visto un drago fino ad ora? In quel mondo non esistevano?

Una cosa positiva ci fu, però. Mi lasciarono andare. “Con te finiremo dopo, bambolina” ammiccò uno, prima di uscire a dare manforte agli altri.

Sollevai un pelino la testa, per vedere in che stato ero. Sanguinavo. Le gambe e il corpo erano percorse da bruciature, piccole macchie scure lasciate da quei tubetti di tabacco infuocati. Vomitai, sfinita.

Era uso ricorrente fare così male a una persona straniera, in quel mondo? Forse tutte le bambine avevano dovuto patire quella sofferenza. Forse non era un male. Così, una volta finito tutto, sarei stata finalmente riconosciuta come membro di quel villaggio, se villaggio era. Dalla finestra non vedevo altre case, né strade, né tantomeno un castello. Solo il fumo che andava condensandosi per il bosco, il bosco fitto che ci circondava. Mi avevano sempre fatto paura, i boschi. Soprattutto di notte.

Cercai di slegarmi, ma senza riuscirci. Potei solo restare lì, a fissare il soffitto con le gambe aperte, le lacrime di disperazione e dolore rimaste sulle mie guance, solchi di rabbia e tormento in quella notte che pareva infinita.

Improvvisamente, sentii un altro rumore, diverso, più spaventosi dei ruggiti del mio drago. Mi spaventai. Volevo scendere da quel letto maledetto e correre in aiuto del mio amico. “Non fategli del male!” urlai, per quanto poteva valere. Di sicuro non mi avevano sentito.

Fiamme. So quanto è alto il tuo punto d’onore, ma, per favore, mantieni la calma.

Fuoco. Fermati! Fermati!

Urla. Così li ucciderai tutti!

Un botto, che però non apparteneva al mio amico, mi fece tremare dalla paura. Cosa poteva essere stato? Non avevo mai udito un rumore simile, peggiore pure delle grida della folla quando veniva impiccato un nemico del castello. Temevo per il mio drago.

Come a confermare il mio timore, le grida che si dipanarono per la pianura trafissero il cielo dal loro dolore.

“No! Basta!”

Fiamme. Odore di bruciato. La catapecchia aveva preso fuoco.

“Aiuto! Liberatemi!”

Nessuno mi sentì. Nessuno pensò a me.

L’ultima cosa che sentii furono i ruggiti del drago che squassarono la volta nera della notte.

Poi, più niente. 


 

Oggi sono in vena di drammi. Probabilmente perchè, con il caldo che fa qui a Bologna, per strada non gira un'anima, e il mio umore va sotto l'asfalto roso dal sole (che bella immagine^^") Comunque questa storia l'avevo scritta per un concorso - e prevedo di aggiornare con l'ultimo capitolo il giorno in cui usciranno i risultati, tanto per tenervi informati/e -.

Scusate, ma proprio devo scappare. Ne approfitto solo un attimo per ringraziare e salutare calorosamente Alih, per gli innumerevoli complimenti alla mia ultima ff, _Gemellina_, per le risate che ci facciamo su msn, Starfantasy, perchè le sue storie mi accendono il cuore, Elfa_dei_boschi, per ugual motivo, e Erica_8, per il semplice fatto di essere sempre lì, pronta a rispondere al telefono del mio cuore.

Ringrazio anche Martina, Giulia e Clelia per il costante supporto morale:)

Un sorriso a tutti

Ilaja

 

  
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