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Autore: __roxanne    06/08/2010    1 recensioni
Lei, Roxanne 15anni capelli color del grano e occhi cobalto. Lui, 16anni moro occhi verde smeraldo. Un incontro dei più normali il loro, nell'ufficio del preside, gli viene incaricato un compito in grado di salvare lei da una media scarsa e lui dalla bocciatura. La loro storia nata in un paesino del New Jersey si sviluppa in lungo e in largo celandosi anche nella grande mela che non dorme mai.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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" Hello, I love you.
Won’t you tell me your name?
"*
Era mattina, e lei odiava la mattina. La luce del sole filtrava attraverso le tende biancastre e raggiungeva esattamente la sua faccia, infastidendola notevolmente. Eccola mormorare qualcosa, un'imprecazione, per poi richiudere le labbra e schiacciarsi il cuscino sulla faccia. La sveglia aveva ripreso a suonare, erano appena le sette di mattina. Dopo aver cercato di zittirla più volte tirandogli tutto quello che riusciva a trovarsi tra le mani decise, rassegnata, che era ora di alzarsi. La camera era in preda al caos, era in balia della più pura essenza d’anarchia. I vestiti usati recentemente erano ammassati sulle due sedie presenti; la scrivania era completamente coperta da un fitto strato di quaderni, libri, e di tutte quelle che sua madre avrebbe definito porcherie. I led colorati del suo pc, che aveva dimenticato di spegnere, emanavano una luce appena visibile che amalgamata a tutto il resto le diede uno strano senso di nausea. Quel posto le faceva schifo. Si chiuse in bagno, l’unico posto in perfetto stato, e si fece una doccia veloce. Mentre usciva di casa scorse per un istante la sua immagine riflessa in uno specchio. Aveva una grande cornice d’argento al centro della quale, sotto un lieve strato di polvere, c’era lei. Un’impetuosa cascata di capelli biondi dai riflessi dorati le cadevano fin oltre il seno e in quell’ovale dall’incarnato diafano splendevano due occhi color cobalto screziati di smeraldo. Un metro e sessantanove di pura bellezza la faceva spiccare tra tutte le altre diciassettenni. La mancina si muove in direzione della vitrea superficie portandosi alta esattamente dove si specchiava il suo volto. Con dei movimenti lenti e fluidi fa scomparire la polvere, uno sguardo profondo, magnetico scruta la sua stessa figura ingordamente contemplandone l’effimera bellezza. Non se la meritava, la bellezza, sarebbe stato meglio se Dio o chi per lui l’avesse data a una delle tante oche presenti a scuola. Uno sbuffo fuoriesce dalle sue labbra rosee e carnose mentre lei scompare dietro il portoncino blindato che si richiude immediatamente dopo il suo passaggio. La scuola distava a malapena settecento metri da casa sua, ci andava a piedi e nonostante la vicinanza era costantemente in ritardo. « Smith! » Una voce proveniente dal fondo dell’aula aveva catturato la sua attenzione,
« Professoressa McPheen. » Tono garbato, gentile. Di quelli adatti a dei leccaculo, era immensamente gentile lei, con i suoi insegnanti forse perché non aveva la minima intenzione di subirsi sermoni e ramanzine di vario genere. Aveva deciso, ormai rassegnata, di accondiscendere ad ogni loro richiesta ; non voleva nessun genere di problemi. Con un cenno della mano, la professoressa, mi invitò ad aggiungermi ai compagni senza interrompere nuovamente la lezione. Mentre prendevo posto nel penultimo banco a sinistra gli occhi dei miei compagni, come sempre, mi seguivano come ammaliati da tutto quel fascino che, sinceramente, non avevo mai voluto. « Allora, come stavo dicendo il termine ‘Mecenate’ è nato grazie . . .» La lezione passò come le altre, dalla seconda ora di letteratura passai ad una terza di matematica poi ad una quarta e una quinta di spagnolo. La voce dei professori mi annoiava, preferivo i libri che non avevano quell’aria da saccente e non cambiavano mai opinione su una cosa . A scuola non andavo poi così male, avevo la media dell’8 e pensare che non aprivo quasi mai un libro; mi bastava - o meglio, dovevano bastarmi – le lezioni anche perché nel mio tempo libero facevo la cameriera in un ristorante un lavoro che mi permetteva vestiti nuovi e trucchi decenti. Meno di un anno fa appartenevo ad una delle famiglie più ricche del quartiere ma poi, con la crisi, mio padre che ormai si avvicinava al pre-pensionamento perse gran parte dei suoi risparmi in un investimento sbagliato. Così entrambi i miei genitori furono costretti a tornare al lavoro. Lavoravano tutto il giorno, tornavano a casa solamente la sera poi accettarono delle richieste di lavoro all’estero. Non so che lavoro facciano, l’importante per me è che mi arrivino i soldi a fine mese necessari per il mantenimento della casa. Ho anche un fratello, Nathan, ma se ne è andato di casa tempo fa. Tornava a trovare la sua sorellina solo in due occasioni: quando era al verde, oppure quando era nei guai. In ogni caso, quando mi veniva a trovare, dovevo cominciare seriamente a preoccuparmi; soprattutto se decideva di rimanere per qualche giorno.
« Potete andare, mi raccomando ricordate che domani è l’ultimo giorno per consegnare la vostra ricerca sulle guerre di secessione. » La voce del professor Crowford, l’insegnante di Storia, era l’unica che riusciva a solleticare la mia curiosità. Spiegava bene quell’uomo e malgrado non l’avessi mai ammesso quella era la mia materia preferita. Ero già pronta ad andare via e, appena il professore ce lo permise, non esitai. Il giorno dopo però appena entrata, con l’ennesimo ritardo, in classe la professoressa Dumbley, docente di Fisica, mi accompagnò in presidenza. Immediatamente pensai fosse dovuto alla mia lunghissima serie di ritardi, eppure non sembrava quello il motivo per cui il preside, un uomo basso sulla cinquantina quasi completamente calvo e con un paio di occhiali inguardabili, aveva richiesto la mia presenza. Bussai alla porta e non appena sentii una specie di borbottio dall’altro lato lo interpretai come una risposta e mi permisi di entrare. «Preside Showper. » Mi limitai a rispondere al suo saluto che accompagnato da un cenno della mano mi invitava a sedermi. Presi posto esattamente d’innanzi a lui e affrettando i soliti convenevoli lo affrettai a parlare. « Lei sa, signorina Smith, che il suo rendimento è calato notevolmente nell’ultimo periodo. » Aveva iniziato a parlare e già non riuscivo nemmeno a capire quello che diceva tant’era noioso. Avevo talmente voglia di abbandonare il suo ufficio che presi a mordermi il labbro inferiore cercando di distrarmi. « Mi creda, comprendo la sua situazione, tuttavia penso che lei abbia bisogno di diversi stimoli; di nuove attrattive.» Continuava a parlare e io gli concessi la mia attenzione, « Lei era la studentessa più brillante di tutto l’istituto nonché capitana delle Cheerleader. . .» Quella che usciva dalla sua bocca era la sacrosanta verità. Tuttavia io non ero disposta a parlare con lui della mia gloria passata. « Sono stata molte cose tempo fa, perfino quelle che mi ricorda lei, » Una piccola pausa consentì alla mia lingua di umettare le labbra e di abbandonarsi in un sonoro schiocco prima di continuare il mio discorso. « Tuttavia immagino che non sia questo il motivo per cui io mi ritrovo davanti a lei, adesso, ha sempre saputo che non sarei tornata ad essere quella che ero se non per mi iniziativa. » Il ritmo della conversazione si fece incalzante, lui che cercava di prendersi tutta la calma e il tempo che riteneva necessario e dall’altra parte c’ero io: divorata tanto dalla curiosità quanto mossa dalla mia caparbietà che faceva acquisire un certo ritmo al discorso. Sputato il rospo tutto mi sembrò più facile, entrambi ci prendemmo il tempo necessario per parlare. Io volente o nolente dovevo ubbidirgli perché lui, un vecchio amico di famiglia, mi permetteva di accedere ai corsi e risolveva i problemi che avevo con i docenti concedendomi dunque di studiare. Dopo una lunga battaglia nella quale si lottava per centimetri di terreno accettai esausta e nauseata dalla nuova realtà su cui mi sarei imbattuta. Questa mia nuova realtà si chiamava Richard Chase. Moro, occhi verde smeraldo, labbra carnose. Aveva dei capelli lievemente rialzati in una cresta che gli dava un’aria quasi puerile. Non era male ma io, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a sopportarlo neanche un po’. Lo ignorai per la maggior parte del tempo e lui, quasi come fosse un cane fedele comunque al suo padrone cattivo, mi seguiva ovunque andassi. Era insopportabile, mi squadrava dall’alto in basso soffermandosi soprattutto sulle mie curve, poi osservava incuriosito i miei modi di fare. Si perdeva nel blu dei mie occhi oppure nell’odore afrodisiaco d’orchidea che avevano i miei capelli. Amava i piccoli gesti, quelli quotidiani che facevo per portami indietro il ciuffo oppure quelli che mi accompagnavano durante le lezioni. Mi rivolse parola per la prima volta al termine della terza ora. « Roxanne, quand’è che usciremo insieme io e te? » Un sorriso si increspò spontaneamente sul mio volto, consapevole che sarebbe stato il primo e l’ultimo della giornata . « Punto primo: tu non puoi permetterti di chiamarmi per nome, per te sarò solamente ‘Smith’.» Cominciai a issare delle barriere tra me e lui, perché lui era quello bello che va con tutte uno di quelli predestinato a diventare popolare e io ero quella che faceva zittire tutti, quella che attirava gli sguardi, quella che – dopo la popolarità – si era ridotta alla solitudine. « Punto secondo: Noi non usciremo » Infilai i libri che non mi servivano per studiare nell’armadietto e prima di chiuderlo per la prima volta i nostri sguardi si incrociarono. Aveva lo sguardo intenso e penetrante di quelli che non scordi mai. Aveva la luce negli occhi, quasi come fosse acceso da un barlume di speranza. « Punto Terzo: Nessuno saprà mai di noi. » Chiusi l’armadietto di scatto e me ne andai. Fredda, meschina, le mie parole gli arrivarono al cervello come arriva uno schiaffo su una guancia ad un bambino. Pensai, quantomeno ci speravo, che fossi riuscita ad allontanarlo per sempre e invece.


* Il Testo della Canzone iniziale: Hello, I love You ( The Doors )*
  
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