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Autore: miseichan    12/08/2010    0 recensioni
E’ sempre difficile ragionare con un’ombra. Quasi impossibile, anzi. Questo pensa Nell, eppure ci prova, sperando di sbagliarsi. Non è colpa sua, ne è convinta. E’ stata l’idea a svegliarla. Sono stati loro, Becky e Duncan. Con loro se la sarebbe dovuta prendere, non con lei. Cosa ci poteva fare lei? Sono stati loro, con la loro villa, il loro alcool, le loro passioni ed i loro dolori a svegliarla. Salem le crede. Rimane sempre l’ombra, però: sarcastica, caustica. Un’ ombra a cui ben sa tuttavia, di non poter rinunciare.
Genere: Commedia, Dark, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sotto l’inchiostro

 

_Eslaf

 

 

 

“ Non posso farci niente, lo sai ! ”

 

Si passò una mano sugli occhi, tirando su con il naso e sorridendo stancamente.

Non era colpa sua: era tutto merito del buio.

Della notte, ad essere precisi: delle stelle, della luna, anche delle sporadiche e minaccianti nuvole; dell’atmosfera in generale.

Non era sua la colpa, comunque. Poco ma sicuro.

Mosse le dita sulla tastiera, socchiudendo appena gli occhi, giocando con i tasti piena di buoni propositi.

Si sentiva pronta, eccitata: completamente in fibrillazione.

E niente l’avrebbe smossa dal suo proposito.

Non si curava del compito in classe che avrebbe dovuto affrontare la mattina successiva.

Né del fatto che l’ora fosse già tarda né dei piccoli puntini bianchi che ora vedeva davanti agli occhi.

Non aveva sonno, o almeno voleva credere di non averlo.

Tutto quello che sapeva era che un’idea l’aveva svegliata, costringendola con metodi blandi ad alzarsi dal letto e raggiungere la scrivania: ancora in stato di incoscienza aveva acceso il portatile, sgranchendosi le dita senza nemmeno rendersene conto.

Sentì la pendola del nonno, quella che suonava ogni ora, battere due rintocchi dal piano di sotto.

Scrollò le spalle, pienamente indifferente: erano le due, e allora?

Era forse un problema?

No, si rispose da sola. No, che non era un problema.

C’era un motivo se si era svegliata e lo sapeva benissimo. Lo sapeva lei e lo sapeva Salem, il gatto. Anche lui, poverino, si era svegliato con lei, o meglio era stato svegliato dal calcio che lei gli aveva involontariamente sferrato scendendo dal letto.

E lui, ormai abituato a quella routine era sceso, sbadigliando ed allungando le zampe posteriori: l’aveva seguita silenziosamente per poi acciambellarsi sulla scrivania, godendo del calore diffuso dal computer.

Lei sorrise, passandogli pigramente la mano sul lucido pelo bianco: sì, bianco. Un bianco candido, al punto da sembrare quasi rilucente. Non era nero, come ci si aspetterebbe: non aveva niente a che fare con i gatti delle streghe, quelli dei racconti dell’orrore. No, lui era buono, dolce, affettuoso, con due enormi e languidi occhi azzurri. Eppure lei lo aveva chiamato Salem, così, perché le andava e perché sentiva che era giusto. Il gatto non si era mai lamentato.

- Che fai alzata ? -

Sobbalzò, sentendo quella voce.

Fece girare piano la sedia, senza far rumore, cercando nel buio.

Non è facile cercare nel buio, soprattutto se non si è un gatto e non si ha la capacità di vedere, in quel buio.

Per lei era così: tutto era una massa indefinita, senza contorni e quindi irriconoscibile.

Non ci mise troppo a capire da dove proveniva la voce, però.

Si era quasi abituata ormai: così individuò velocemente, ai piedi del letto, quel corpo ancora più nero del nero in cui era immersa. Sospirando si adagiò comodamente, facendo aderire il corpo allo schienale della sedia, e sorrise.

Ebbe l’impressione di sorridere al niente, almeno finché lo schermo del computer non prese ad illuminarsi, diffondendo una fioca luce nella stanza. A quel punto, con somma soddisfazione, cominciò a vederci di nuovo.

Con la vista riacquistata, oltre all’immagine sfocata della sua stanza, in primo piano le apparve finalmente chiara la figura di lui: se ne stava lì, di fronte a lei, seduto sul bordo del suo letto.

I piedi sul tappeto, le mani nelle tasche. Non aveva un’aria amichevole.

- Sai che ore sono? – chiese, con voce tagliente.

Era una domanda retorica, eppure lei si sentì in dovere di rispondere.

- Le due e qualcosa, credo -

- Esatto. Le due. Di mattina. – di nuovo quella voce arrabbiata, di chi a stento si trattiene dall’urlare.

Perché mai poi ? Mica l’aveva obbligato…

Non ottenendo alcuna replica lui sembrò spazientirsi: assottigliò lo sguardo e ritornò alla sua prima domanda.

- Che fai alzata, Nell ? -

- Lo sai. Che me lo chiedi a fare ? – rispose lei irritata, scrollando le spalle.

- Te lo chiedo perché speravo di sbagliarmi, ecco perché! La devi smettere di fare così, devi cominciare a prenderti le tue responsabilità, a pensare alle conseguenze delle tue azioni, santo cielo! Non sei più una bambina, non puoi più contare sempre e solo sull’aiuto degli…-

Lei lo interruppe, incurante di tutto ciò che aveva detto fino a quel momento.

- Mi è venuta una nuova idea -

- Cosa ? –

Si era zittito improvvisamente, studiando con disappunto la figura di lei: se ne stava su quella sedia a gambe incrociate, con indosso un pigiama nero pieno di cuoricini rossi; una coperta di pile bianca sulle spalle, pantofole sopra i calzini… ma quello che più di tutto gli tolse momentaneamente la parola fu il suo viso: i capelli rossi e lisci tenuti dietro le orecchie, le lasciavano libero il visino piccolo e dolce.

La pelle bianchissima, tendente al pallido, era in contrasto con i grandi occhi verdi che, sgranati, sembravano luccicare nel buio e le labbra a cuore, rossissime quasi più dei capelli, erano tremanti e leggermente dischiuse.

- Non è possibile – ansimò lui, incredulo.

L’aveva trovata in quello stesso stato febbrile meno di una settimana prima e credeva che se ne sarebbe stata buona per un po’.

Invece no.

- Sì. Non ci credevo neppure io e invece sì! Una nuova idea, Eslaf. Riesci a crederci ? -

Avrebbe voluto risponderle che no, non riusciva a crederci. E nemmeno voleva.

Non disse niente però, si limitò a guardarla ancora: ad osservare l’espressione estatica di lei, il modo in cui agitava le dita senza accorgersene e l’intensità con cui lo fissava.

Era il suo lavoro in fondo, no? Era così che doveva andare, punto.

Perciò, senza fiatare, sorrise. Era la prima volta che sorrideva da quando l’aveva fatta trasalire con la sua voce, e lei ne fu felicissima.

Il suo sorriso aveva un effetto placebo su di lei: meglio di qualsiasi calmante o droga.

Il che era, al tempo stesso, un bene e un male.

Ancora una volta, comunque, non poteva farci assolutamente niente.

Tutto quello che le riuscì fu di ricambiare il sorriso di quel ragazzo così tetro, vestito interamente in nero: scarpe nere, jeans neri, camicia e giacca nere. Anche i capelli lunghi fino alle spalle lo erano, così come gli occhi.

E gli occhi erano un che di spaventoso ed unico, perché sembravano buchi neri.

Erano contemporaneamente inespressivi e pieni di significato: il nero anice delle pupille si confondeva con quello delle iridi, facendone un tutt’uno. Occhi di ebano.

Solo il viso era uno sprazzo di colore, se colore si poteva definire quel rosa opaco.

Non era brutto, però. Tutto il contrario. O almeno, era così che la pensava lei.

La cosa più importante poi era che all’oscurità esteriore, a quell’aspetto da addetto alle pompe funebri, si opponesse una mente brillante.

Anzi, brillante era un eufemismo con lui.

Eslaf era indescrivibile.

- Nell -

Sentendosi chiamare, sobbalzò ancora una volta, incontrando di slancio i suoi occhi, perdendosi in quei maledetti e attesi buchi neri.

- Sì ? -

- Che idea ti è venuta ? – chiese lui, paziente.

Aveva un sorrisetto ancora fisso, a modellargli le labbra. Si era sistemato meglio sul letto, sdraiandosi ed allungando le gambe: le mani non erano più nelle tasche, ma ben piazzate dietro la testa, a mo’ di cuscino.

- L’idea per una nuova storia – rispose lei con ovvietà, quasi offesa dal fatto che lui non l’avesse intuito.

- L’avevo capito questo, - spiegò lui – quello che ti chiedevo era che genere di storia, Nell –

- Oh, bè allora viene il difficile –

- Perché Nell ? –

Lei sorrise, accarezzandosi le braccia, leggermente a disagio.

Non sapeva come spiegarglielo, o forse non voleva.

Lui però continuava a incatenarla con lo sguardo, per niente accomodante. Voleva delle spiegazioni. Le pretendeva.

Non era la prima volta che trovava Nell in quelle condizioni, sperava di riuscire in qualche modo a farla ragionare e rimandarla a letto, sotto le coperte.

- Eddai Eslaf, lo sai… renditi conto che è stata l’idea a svegliarmi! Non potevo ignorarla, hai presente come succede, no? Dovevo alzarmi. Dovevo scriverla. E se poi me ne fossi dimenticata, sai che catastrofe ?! -

- Nell – sospirava, adesso, cominciando ad intuire la situazione. Continuò imperturbabile, con voce calma e moderata. Doveva giocare bene le sue carte:

- Nell, è tardi. Sai meglio di me che quando una cosa ti entra in testa, non ne esce più. La tua è una stupida quanto futile paura. Non dimenticherai l’idea. Tornatene a letto, adesso –

- Non ci penso proprio! – ribattè lei, accalorandosi.

- Sì che lo fai, invece. Domani hai compito di matematica, santo cielo! Devi dormire! –

Aveva parlato con uguale e maggiore enfasi di lei, ma sapeva di aver perso.

Lo sapeva perché aveva perso in partenza.

Da quando gli occhi verdi della ragazza, umidi e timorosi, si erano fermati nei suoi.

- Nell… -

Era stato un semplice sussurro questa volta, un mormorio che sapeva di preghiera.

Inutile.

Resse solo per un istante ancora lo sguardo di lei, poi, sconfitto, le concesse la vittoria. Con un gridolino di gioia lei fece girare di nuovo la sedia, dando le spalle a lui e posando gli occhi sullo schermo bianco del computer.

Un foglio bianco di word era già aperto: si apriva in automatico.

Eslaf sospirò ancora, osservandola scrivere il suo nome in cima al documento.

Sapeva che opporsi ancora non sarebbe servito a niente: sottolineare ad esempio che di storie lei ne aveva già iniziate a centinaia e che nemmeno una di queste era conclusa, sarebbe stato solo sbagliato. Sarebbe stato anzi un colpo basso. Sì, e in più non sarebbe stato da lui.

Aveva un animo da scrittrice la ragazza, e lui lo sapeva meglio di tutti.

Era sempre stato così: quella era solo l’ennesima volta, una delle innumerevoli, troppe volte, in cui la trovava sveglia in piena notte, preda di una frenesia che era solo sua.

Sua e di nessun altro.

Riaprendo gli occhi si accorse che lei era ancora concentrata sul nome che stava scrivendo: il suo nome. Lo scriveva e poi lo cancellava. Ancora e ancora.

- Problemi ? – chiese, con il sorriso nella voce.

- Mm… -

Lui richiuse gli occhi, sapendo perfettamente cosa stava succedendo: non era la prima volta.

La ragazza scriveva il nome completo, Ornella Fergi, per poi eliminarlo subito dopo.

Eslaf richiamò alla mente le altre volte in cui era successo, i discorsi precedenti:

 

Qual è il problema?

E’ che non mi piace.

Cosa?

Ornella.

Non ti piace il tuo nome?

No.

Ma…

Non mi rappresenta. Non sono io, Ornella.

E allora non scrivere Ornella.

 

E come se si fossero detti quelle stesse cose lui ruppe il silenzio, sicuro:

- Non scrivere Ornella, scrivi Nell –

Sorrise davvero, riaprendo gli occhi, soddisfatto.

Si era convinto a prendere parte a quel gioco finalmente, ancora una volta.

Era il loro gioco, in fin dei conti.

- Hai ragione: Nell va meglio – acconsentì lei, soddisfatta.

- Siamo a posto con il nome quindi, passiamo al titolo? –

-  Please, remember”, ti piace ? – chiese incerta, attendendo una conferma.

Lui annuì impercettibilmente prima di commentare, divertito:

- Oh, è magnifico… se non sbaglio anzi, è anche il titolo di una canzone di Celin Dion; a parte questo però, se non mi dici di che parla la storia, non posso aggiungere altro, Nell -

Lei rigirò la sedia, tornando a dare le spalle al computer e a quel foglio non più tutto bianco: un piccolo nome in alto a destra e un titolo più giù a sinistra, gli davano un  po’ di colore.

- Allora, vediamo. Mi ascolti, Eslaf ? – domandò, temendo che si addormentasse.

- Certo che sì, Nell. Sono tutto orecchi –

Ignorando quell’ironia che era parte integrante di tutte le sue frasi, lei continuò:

- Non è proprio allegra come storia, partiamo da questo -

- Più della metà delle tue storie non sono allegre, Nell. O muore sempre qualcuno, o il protagonista è terribilmente depresso.  Non so come fai a scriverle con il sorriso sulle labbra –

Lei sgranò gli occhi, senza più fiato dopo quella sua interruzione:

- Credi che… -

- Non fraintendere, ti prego. Sono bellissime. Toccanti nel loro modo di essere. Solo mi chiedevo perché non ti viene mai in mente una storia più adatta alla tua età. – continuò lui, prima che lei potesse dire qualcosa.

- In che senso? –

- Nel senso che sei in piena adolescenza. Dovresti avere gli ormoni impazziti e scrivere unicamente storielle banali d’amore. Hai presente, no? Quelle che fanno venire il diabete –

Sorridendo Nell alzò gli occhi al cielo.

Eccolo finalmente il suo Eslaf: stava tornando in sé. Ora sì che lo riconosceva.

Fece spallucce, conscia del fatto che lei non aveva una risposta e lui non se l’aspettava davvero.

- Dicevo, prima che tu mi interrompessi, ripetutamente ci terrei a precisare ma non lo faccio… dicevo, che la storia forse è un pochino triste. Malinconica, per lo più, ecco. -

- Sono scoccate le tre, Nell. Vediamo di non fare giorno, okay? –

Sbuffando lei gli fece cenno di tacere con la mano, minacciandolo quasi, e lui sorridente ubbidì.

- Il punto di vista è quello della protagonista, ancora senza nome, che se ne sta nel giardino del campus, ai piedi di un albero, con un libro sulle ginocchia e … -

- … un bruco che le cammina sulle scarpe? Non avevamo detto di sintetizzare, Nell? –

L’occhiata che gli scoccò avrebbe potuto farlo bruciare di autocombustione.

- Scherzavo, Nell -

- Lo so. E so anche che mi stai rompendo –

Se ne stava ancora sdraiato, sorridendo sotto i baffi questa volta.

- Scusa, non lo faccio più – disse, facendo il gesto di chiudersi la bocca e gettare via la chiave.

Lei sospirando scosse la testa: chissà perché quella chiave la ritrovava sempre troppo in fretta.

- Lei quindi sta lì, non ti azzardare a rovinarmi ancora l’atmosfera!, e invece di guardare il libro come dovrebbe, tiene lo sguardo fisso di fronte a sé, su qualcuno -

- Un ragazzo voglio sperare, o hai cominciato a scrivere di amori alternativi ? No, perché sarebbe interessante, sai ? Dovresti provare –

- Ma tu non avevi buttato la chiave? –

- Ne avevo una di riserva. Butto anche questa ? –

- Sì, grazie – rispose, fra il divertito e l’irritato, continuando poi come se niente fosse successo:

- Questo qualcuno, un lui, se ne sta mezzo sdraiato su una panchina poco distante, insieme a una ragazza. Abbracciati, baci e carezze, la solita solfa insomma e lei… -

- Sogna il triangolo – mormorò lui, con voce sognante.

La provocava volutamente, lo sapevano entrambi. Ma non importava.

Perché avevano dimenticato entrambi che fosse piena notte, che fossero passate le tre e che di lì a cinque ore ci sarebbe stato un compito in classe. L’unica cosa a cui pensavano ora, non era possibile spiegarla: non erano più nella camera di Nell, erano nel giardino di quel college, ai piedi della quercia, sotto un cielo in cui il sole si accingeva a tramontare.

Tutto quello che importava era la voce di Nell.

- Che triangolo? -

- Il triangolo fra lei, il ragazzo sulla panchina e la ragazza che pomicia con il ragazzo – rispose lui.

- No. Giuro che te la cucio io la bocca, Eslaf, se non te ne stai un po’ buono –

- Okay, okay, continua. Perché lo fissa ? –

Lei fece fare un giro completo alla sedia prima di continuare, con voce meno sicura:

- Lo fissa perché lo desidera – disse semplicemente.

- In che senso ? – chiese lui, tirandosi un po’ su e reggendosi sui gomiti.

Lei lo fissò negli occhi, invitandolo a continuare.

- La solita cotta non corrisposta ? – azzardò allora lui. Lei scosse la testa.

- No, no. Ha avuto una storia con lui, solo che lui non lo ricorda – spiegò Nell.

- Credo di essermi perso. Come ha fatto il ragazzo a dimenticare la loro storia ? Che fa, ha preso una mazzata in testa ? –

Sorrise sornione, sicuro che Nell si sarebbe spiegata, come faceva sempre. Doveva solo ingranare, poi tutto sarebbe scivolato liscio come l’olio e la storia sarebbe nata e finita, come per magia.

- Nessuna mazzata. Solo una buona quantità di alcool -

- Ma allora non era una storia quella che hanno avuto, attenta. Se è roba di una notte non la si può definire storia. E’ stata una notte, punto. A meno che, naturalmente, il nostro tipo non è un alcolizzato sempre ubriaco. –

Nell strinse gli occhi, corrugando le sopracciglia.

- Vero. Una notte. Non è una storia. Come si chiama allora? – chiese, indecisa.

- Tresca? –

- No, quella è se la si ha con qualcuno di sposato, Eslaf – precisò lei, sorridendo. Lui sbuffò.

- Non abbiamo il tempo per bloccarci su questo, Nell. Sono stati assieme una notte, concentrati. Poi ? Come ha fatto lui a dimenticarsene ? –

- Giusto. Ti dicevo: lei lo fissa e lo desidera. Perché ? Perché sono stati insieme una notte e lui non lo ricorda. E’ normale che lui non lo ricordi però. Quelle erano le regole. Lei ha sbagliato. Lei ha infranto le regole. La colpa è sua. Anche lei non avrebbe dovuto ricordare, ma dimenticare

Come sempre, come lui sapeva sarebbe successo, Nell era partita.

Per uno di quei mondi che sapeva creare solo lei.

E quando finalmente entrava nel pieno del racconto, lui non interveniva più. Non se ne sentiva in diritto e non ci sarebbe neanche riuscito. No, perché veniva trascinato da lei, dal suo racconto… e si perdeva al seguito delle parole che lei bisbigliava, incapace di reagire.

Si mise a sedere, fissando gli occhi di Nell che non ricambiavano il suo sguardo. Assenti e opachi, ecco come erano gli occhi di Nell. Ancora più belli, se possibile.

- Quelle erano le regole prefissate, e lei lo sapeva. Glielo aveva specificato l’amica, invitandola alla festa il sabato sera: nessun limite, nessun legame, nessun ricordo. Ecco cosa le aveva detto.

E lei aveva accettato. Senza pensarci, aveva detto di sì, che sarebbe andata. Lo aveva detto perché non ce la faceva più: studio, ecco cosa era rimasto nella sua vita. Nient’altro che quello: lo studio. Non faceva altro. Erano mesi che non usciva. Mesi che non faceva altro che studiare. Da poco se ne era resa conto con sgomento. Non era quella la vita che voleva. Non era il tipo che desidera chissà cosa, eppure era sicura che non le sarebbe piaciuto ritrovarsi a cinquant’anni senza alcun aneddoto da raccontare… con l’impressione di non aver mai vissuto per davvero. C’era una frase che diceva: puoi vivere cent’anni senza vivere un minuto. Ecco, lei non voleva finire così. Lei voleva vivere. Voleva un minuto vissuto per davvero. E lo avrebbe avuto. Forse sbagliava. Forse faceva una pazzia ad andare a quella festa. Non le importava -

Eslaf non era più seduto sul letto: era scivolato pian piano, lentamente, fino ad arrivare alla fine del materasso. Aveva continuato a scivolare, trovandosi alla fine seduto sul tappeto rosso, con la schiena contro il letto ed il viso attento e concentrato sulle labbra di Nell. Anche i suoi occhi come quelli della ragazza erano opachi. Non era sul tappeto, non erano le quattro meno dieci.

Tornava indietro con Nell, fino alla notte di quel sabato sera.

- Arrivò alla villa con il fiato corto, si fermò fuori il grande portone, il dito esitante vicino al campanello. Non ce l’avrebbe fatta, ecco cosa pensava. No, non era da lei. Non poteva andare contro se stessa. Non poteva. Non doveva. Si guardò, infilando a forza la mano in tasca: non era nessuno. Era come se non esistesse. Un jeans, dei semplici stivali e una felpa. Ecco come diavolo era vestita. Poteva mai bussare ? -

Nell si fermò un attimo, prendendo fiato, riordinando le idee. Poi continuò:

- No che non poteva. E perché non era vestita decentemente, e perché non aveva un vestito decente. Non poteva. Si era informata: aveva capito come faceva ad essere una festa senza limiti, senza legami e senza ricordi. L’alcol, ecco la magia. Era dovere dei partecipanti al festino, una volta trovato qualcuno con cui divertirsi, ubriacarsi senza remore. Alcol, alcol e alcol. Così avrebbero dovuto fare. Per dimenticare. Per non ricordare. Ma lei ne era capace ? Era capace di avere una relazione da una notte e via, era capace di prendersi una sbronza come si deve, al punto da arrivare all’indomani senza la minima idea di quello che era successo la notte ? -

Nell sospirò, chiudendo gli occhi.

- Non lo sapeva. Quello che sapeva era che se fosse tornata nella sua camera avrebbe trovato un cellulare vuoto: privo di messaggi o chiamate. Un computer pieno unicamente di tesine. Una scrivania ricoperta da volumi universitari. Era questo che voleva ? Tornarsene in camera a prepararsi ancora? Per un esame che semmai era previsto di lì a tre mesi? No. No, no, no. No, che non era quello che voleva. Cosa, cosa voleva allora ? Senza nemmeno accorgersene, tirò fuori dalla tasca la mano e l’avvicinò di nuovo al campanello. Cosciente o meno, volente o nolente, lo fece. E sorrise, facendolo. Premette il campanello. -

La pendola suonò le quattro ma nessuno sembrò accorgersene.

- Ad aprirle la porta fu una ragazza. Lei la osservò e l’altra fece altrettanto: si stavano studiando, come solo due donne possono fare. Sentiva l’odore di alcol che emanava. Notò subito la bottiglia di birra che stringeva nella mano sinistra, e si soffermò ben poco sull’assai ridotto abbigliamento della ragazza: una davvero mini gonna e un brindello di stoffa a coprirle il seno. Ma ricordava male lei, o erano in novembre? Senza concedersi il tempo di pensarci ancora, guardò la biondina con aria di sfida, ignorando il modo in cui l’altra osservava la sua felpa. “Permetti ?” Così disse e così non avrebbe dovuto dire. Era lei che aveva bussato in fin dei conti. Era a lei che avrebbero avuto il diritto di sbattere la porta in faccia. Non poteva comportarsi in quel modo: come se fosse un onore per gli altri avere la sua presenza, come se fosse dovere della biondina quello di farla entrare. Eppure lo aveva detto, con voce superiore, distante. E la ragazzetta, stupita, si era fatta indietro traballando sui tacchi. Senza darsi né il tempo né il modo di riflettere su ciò che aveva fatto e stava per fare, entrò nella villa, ignorando il rumore della porta che si chiudeva alle sue spalle. -

Nell sembrò tornare momentaneamente in sé: con un sospiro lanciò un’occhiata alla stanza, a Salem che dormiva placidamente, acciambellato ormai del tutto sulla tastiera del portatile. Quasi non si accorse della mano che Eslaf aveva allungato verso di lei e quando la vide sorrise, confortata dalla presenza di lui, dal suo tacito e fondamentale supporto.

Poggiò delicatamente la sua mano nella sua, godendo del brivido di calore che la pervase quando le dita del ragazzo la strinsero, trasmettendole un senso di sollievo. Aumentò la presa e docilmente, si lasciò guidare dal suo braccio che, sicuro, la attirava verso di sé.

Quasi senza rendersene conto si ritrovò anche lei sul tappeto, seduta al fianco di lui.

Non ebbe mai la certezza delle parole di lui, eppure era quasi sicura di averle sentite per davvero: “ Non fermarti, Nell ” .

Così senza aspettare ancora, continuò:

- Era una grande villa. Sembrava strano ma l’interno appariva ampio quasi il doppio dell’esterno. Un enorme salone fu la prima sala in cui si trovò: camini accesi, divani, tavoli. Niente luce.

Erano le braci del fuoco, le fiamme delle candele, a rischiarare il tutto. Si mosse adagio, come un cucciolo che fa i suoi primi passi. Evitava qualsiasi contatto. L’odore di alcol sembrava creare quasi una cappa sulla sua testa. Era fortissimo. Catini, botti, birra, vino, liquore. Ovunque e comunque. Sempre. Le sembrava incredibile, fuori dalla realtà. Giovani in ogni angolo: ragazzi, ragazze, più o meno vestiti, giravano come lei. In gruppo, soli, in coppie. Sembrava governare al tempo stesso un clima di tacita confusione e ragionevole consenso. La musica non era da discoteca: non martellava le orecchie, non era psichedelica. Era soffusa, leggera, un lieve e quasi invisibile accompagnamento. Così come le voci, i suoni: non giungevano precisi, forti, ma sempre attutiti, smorzati. Come se si trovassero in una dimensione parallela.

Senza neanche sapere come, dopo qualche minuto, si accorse di avere un bicchiere in mano: un liquido ambrato, con riflessi dorati, si agitava piano seguendo il suo passo. Sobbalzò, lasciandolo di scatto sul primo tavolo e voltandosi sperò di non aver percorso troppa strada e di essere ancora in tempo per prendere la porta. Voleva andarsene. Solo di quello era sicura.

Con sconforto però realizzò di non trovarsi più nel salone d’ingresso e di aver percorso tantissimi corridoi in stato di semi incoscienza. Non aveva bevuto, solo non riusciva quasi più a ragionare. Si guardò attorno, camminando ancora a rilento. Esplorò distaccata altre stanze, altri corridoi. Sembravano tutti uguali e non riusciva a farsene una ragione.

Quando all’improvviso si sentì afferrare per una spalla, arretrò istintivamente di parecchi metri, mettendo la maggiore distanza possibile tra lei e chi l’aveva toccata. Sollevò lo sguardo, incontrando gli occhi di un ragazzo esile, con un tremito diffuso per il corpo: le pupille erano dilatate e gli occhi iniettati di sangue; un sorriso pericoloso gli increspava le labbra e quando allungò di nuovo una mano, lei scattò senza pensare: in pochi passi si allontanò, raggiungendo il lato opposto della stanza. Intravide delle scale a chiocciola, confusa si decise a salirle. Non era la scelta migliore, doveva ammetterlo: così si allontanava solamente dall’uscita. Eppure ora la cosa che più voleva era lasciarsi alle spalle quel tipo. Perciò salì in fretta gli scalini, senza guardarsi indietro e raggiunse il piano superiore. -

Nell non era più seduta al fianco di Eslaf: non sapeva nemmeno come ma era fra le sue braccia. La schiena contro il torace di lui, la testa poggiata alla sua spalla, una mano sul suo ginocchio.

E stava bene, perfettamente a suo agio. Si sentiva al sicuro.

- Un lungo corridoio, ampio e fiocamente illuminato le si aprì  davanti: una sfilza di porte lungo di esso. Alcune aperte, altre chiuse o appena socchiuse. Per un po’ lo percorse, abbracciandosi da sola. Poi vide un ragazzo chiudersi piano una porta alle spalle e avviarsi lentamente per il lato opposto del corridoio. La sua mente realizzò da sola l’informazione, immaginando chissà perché che ci potesse essere un bagno dietro quella porta. Senza rifletterci troppo si avvicinò. Sperando in una specie di oasi, in un’ancora di salvezza. Aveva già afferrato il pomello fra le dita quando con la coda dell’occhio notò che il ragazzo appena uscito si era fermato, voltando la testa verso di lei. Lui prese a scuotere la testa, facendole cenno di fermarsi con le mani.

Lei però non se ne era  accorta, e aveva aperto leggermente la porta. Corrugando la fronte, impensierita dal comportamento del ragazzo, fece per cercare a tentoni un interruttore sul muro alla sua sinistra quando si sentì afferrare il braccio. Voltò il viso, scorgendo quello del ragazzo a pochi centimetri dal suo. La stava tirando indietro, cercando di chiudere al tempo stesso la porta. E fu solo in quel momento che lei riuscì a scorgere la sagome indefinita di un letto, immerso nel buio, con sospiri ed ansiti sconnessi che rompevano il silenzio. Si ritrasse, incredula, lasciando fare al ragazzo: lui l’aveva già tirata via e chiuso di scatto la porta di legno. La fissava, sorridendo in lieve imbarazzo. Niente in confronto a come si sentiva lei. Non osava immaginare a cosa avrebbe combinato accendendo la luce. Fu lui a parlare, sussurrando:

“ Ho fatto lo stesso errore, poco fa. Ho rischiato il linciaggio. Volevo evitarti il pericolo.”

Lei sorrise appena, pensando che sì, non doveva essere piacevole venir interrotti ripetutamente in una situazione come quella. Sospirando poggiò le spalle al muro, guardando il giovane che tanto gentilmente aveva avuto la prontezza di fermarla: era alto una spanna più di lei, con corti capelli neri e spettinati. Vestito di scuro, sembrava voler confondersi nell’ombra che regnava.

Il viso era aperto e cordiale però: sorridente, mostrava una sfilza di denti bianchi, e gli occhi scuri sembravano amichevoli.

Lei si accorse in ritardo della mano che gli tendeva.

“ Duncan ” disse lui, stringendo quella fredda di lei nella sua.

“ Becky ” rispose la ragazza, non riuscendo a smettere di guardarlo.

Quando sentì la voce di Eslaf, la recepì come se provenisse da molto lontano, eppure non era così: voltandosi Nell lo trovò ancora lì, dietro di sé. Sorrise, sentendo le sue parole:

- Becky, allora. Potrebbe andare sì, e almeno così smetterai di chiamarla solo con pronomi personali – mormorò, cercando di allentare la tensione che si era creata.

Nell annuì, grata per quel diversivo che le dava modo di riprendere fiato e riordinare le idee.

Tornando a poggiare la testa sulla spalla di lui, riprese il racconto da dove lo aveva interrotto.

Erano solo bisbigli i loro, mormorii che nel silenzio si facevano portatori di una storia.

 

*

 

   
 
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