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Autore: Gufo    15/08/2010    2 recensioni
"Il mio nome è Bellatrix e sono quella che non fu più sola."
Com'era la vita di Bellatrix? Che ricordi ha lei di sè? In questa ff lei si racconta e, forse, in fondo a quel mostro che è diventata si nasconde un'anima fragile.
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bellatrix Lestrange
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bellatrix.

Il mio nome è Bellatrix e sono quella che non fu più sola.

Tutti si ricordano il loro primo giorno ad Howgarts, è inevitabile, succedono troppe cose la prima sera per essere dimenticate, eppure a me non piace ricordare, per nulla.

Quella sera io ero solo una bambina, come tutte le altre.

Sull’Espresso mi ero seduta con delle ragazze più grandi di Serpeverde e Corvonero, che conoscevo grazie alle feste che i miei genitori davano: solo i purosangue nobili erano ammessi; eppure quelle ragazze che si dimostravano così carine e gentili non erano veramente interessate a me, mi prestavano un’attenzione cordiale, ai limiti della freddezza, mi ignoravano quando facevo delle domande che riguardavano cose assolutamente scontate per loro, come le materie, i professori. Ridevano di me e questo mi faceva male, mi ripromisi che non sarei diventata così, che mi sarei interessata alle persone e non ne avrei mai fatto sentire una umiliata e a disagio come ero io.

Ma le cose non vanno come uno si immagina, e io non sono un’anima candida e forte. Io sono debole, estremamente, ma nessuno è mai riuscito a capirlo, nessuno tranne lui: il mio signore Oscuro.

La sera in cui divenni una serpe fu una delle più brutte: tanti applausi nella Sala Grande, tante botte nella Sala Comune; lo chiamavano rito di passaggio, prima ti picchiavano, poi ti facevano bere fino a storditi, infine i “maschi più puri”, i leader, ti seviziavano e poco importava se avevi solamente 11 anni. In quella notte perdevi tutto e nessuno ti dava una mano, nessuno ti rivolgeva uno sguardo. Per la prima volta mi sentii veramente sola.

Passarono gli anni, incominciai a capire che una Serpe non poteva avere amici nelle altre Case e nemmeno nella propria, l’esclusione era diventata esclusivismo e motivo di orgoglio insensato.

Non parlavo nemmeno più con mia sorella Andromeda, che era stata smistata a Serpeverde  e a quanto pareva era molto amica di certe mezzosangue: una macchia per la mia famiglia e per la mia reputazione. Fortunatamente però ci pensò mia madre a lavare l’offesa: la diseredò un paio d’anni dopo, quando si sposò con un babbano. D’altra parte anche mio cugino Sirius non era più di famiglia; se possibile lui aveva fatto di peggio: aveva scelto Grifondoro e sbandierava questa sua decisione in faccia a tutti. Anche io avrei voluto poter scegliere, ma il Cappello non aveva avuto nessun dubbio con me. Narcissa mi aveva confidato di aver scelto Serpeverde e non Corvonero solo per tradizione di famiglia, Andromeda avrebbe potuto scegliere Tassorosso, Sirius Grifondoro. Io ero Serpeverde nel midollo, a quanto pareva, e così mi misi d’impegno per ostentarlo sempre, come se fosse un vanto, un onore. Formai il mio gruppo. Mi muovevo tra i corridoi come una regina egizia, lavoravo sodo per esserlo: i capelli non erano più solo belli e neri, ma avevano il riflesso del mare a mezzanotte, erano sempre acconciati con fermagli d’argento e smeraldi, la mia pelle era più chiara della neve e allo stesso modo fredda, i miei occhi erano carboni neri ornati di polvere d’onice. Volevo essere una divinità temuta e rispettata, ma ne ero solo l’impronta di carta.  Una volta che le mie schiavette furono diplomate, che io fui diplomata, mi ritrovai di nuovo sola, daccapo, senza una meta.

Tornai nella casa paterna, passavo le mie giornate oziando e preparando di tanto in tanto pozioni e amuleti che vendevo agli studenti di Serpeverde facendoli pagare ben più cari del loro valore reale, per il resto mi dedicavo alla cura del corpo. Una sera passò un ometto smilzo, con gli occhi febbrili, la pelle gialla e unticcia e un naso a punta, sembrava un povero e anche malato, ma mio padre lo fece accomodare nel soggiorno dove stavo leggendo un libro. La visione di me, una creatura dalla bellezza eterea, e lui nella stessa stanza mi fece rabbrividire d’orrore, mi alzai con discrezione e uscii con un leggero, e voluto, fruscio d’abiti. Per la prima volta da quando era entrato in casa lo sentii guardarmi, ma non mi girai.

Il giorno dopo andammo a pranzo dai Malfoy, io e  Narcissa eravamo stupende, naturalmente io lo ero di più.  Risaltavo nel grande Malfoy Manor quanto una gemma sotto i riflettori, Narcissa invece, con il suo pallore cereo e i suoi capelli pressoché bianchi, si confondeva con l’arredamento e la cosa, sebbene a pensarla mi sentissi un po’ in colpa, mi faceva piacere.

Passarono quasi due mesi da quel giorno e passammo molti fine settimana assieme, in particolare io, Narcissa e Lucius ci allontanavamo dagli altri e passeggiavamo nel bosco. Lui era molto galante e anche se aiutava lei quando il sentiero si faceva più scosceso, era me che guardava con desiderio.

Quando mio padre mi disse che un uomo aveva chiesto la mia mano, che veniva da una delle più potenti famiglie purosangue e che mi aveva promessa a lui, io non ebbi più alcun dubbio. Scioccamente pensavo che fosse il giovane Malfoy, che finalmente si fosse dichiarato, immaginavo già Malfoy Manor nella luce che sarebbe nata dalla nostra unione, le risate dei nostri figli, le loro corse nel parco, i nostri sguardi complici e felici mentre li osservavamo giocare. Mi ripromisi che i miei figli non avrebbero conosciuto privazioni e che sarebbero stati tutti Corvonero, una volta a scuola, la Casa dei geni, dei creativi, sicuramente mai Serpeverde, con quello che avevo dovuto passare io non l’avrei mai augurato loro.

Sorrisi radiosa per la fantasia di me e Lucius mano nella mano. Mentre scendevo le scale per arrivare nell’atrio addobbato a festa per l’annuncio del mio fidanzamento, i miei occhi rilucevano, i miei piedi quasi non toccavano il suolo, ma quando mio padre mi mostrò il mio futuro marito il mio colpo mancò un battito. Nessuno si accorse del cambiamento, la mia espressione si era congelata da prima nel bellissimo sorriso che avevo, solo gli occhi si erano spenti e il passo si era fatto più grave.

Non era Lucius. Quello vicino a mio padre non era il mio Lucius, anzi, paggio! Narcissa stava a braccetto con lui e lui la guardava ammirato, lei era infinitamente più bella di me quella sera, le gote le si erano tinte di rosa, sembrava una candida rosa selvatica. Io oramai ero diventata solo rovi attorcigliati.

Scesi l’ultimo scalino e mia madre mi prese sotto braccio portandomi faccia a faccia con quell’essere.

L’uomo unticcio e trascurato, con ancora lo stesso sguardo inquieto, le occhiaie e la pelle giallognola, quell’uomo che mi aveva fatto allontanare dal mio salotto pur di evitarne la vicinanza, quello era mio marito, o meglio: lo sarebbe diventato presto.

Rodolphus Lestrange, il mio futuro marito.

Rodolphus Lestrange, non avrei mai fatto nessun figlio con lui, non lo volevo, volevo che morisse e che nessuno ricordasse di noi. Non potevo oppormi a mio padre, ma mi sarei opposta a lui, i posteri non avrebbero saputo della nostra storia. Promisi in quell’istante che sarei diventata una terribile e fredda moglie, che mai un sentimento diverso dall’indifferenza avrebbe potuto aprirsi nel mio cuore. Mai più umana, sempre più sola e inafferrabile.

I primi tempi del nostro matrimonio erano stati anche abbastanza sereni: lui non mi toccava mai, si limitava a guardarmi e adorarmi a distanza. Il solo bacio che mi aveva mai dato era stato al nostro matrimonio, sulla mano che portava ora una scomoda fedina incantata, di quelle che rimangono al dito finchè uno dei due non muore. Quell’anellino pesava più di un macigno, sul mio cuore, perché ora era diventato palese a tutti che io fossi una moglie e non più una dea seducente come lo erano ancora le mie sorelle.

In giro si diceva, e dovevo affidarmi alle chiacchiere dato che i nostri rapporti si erano interrotti anni fa, che mia sorella minore Andromeda avesse la mia stessa eleganza di anni addietro, che però si accompagnava con una gentilezza a me sconosciuta e un fascino particolare dato dalle forme più morbide del suo corpo e all’espressione serena del suo viso. In più si mormorava anche che fosse ben più felice di quando stava in famiglia, che nessuno di noi le mancava perché eravamo degli “ottusi bigotti”. Naturalmente la gente si zittiva quando mi vedeva, ma ero piuttosto brava a nascondermi e non farmi notare, nonché ad ottenere informazioni da spie di fiducia. Così avevo saputo che era anche incinta, e questo era certo, e che ci si aspettavano grandi cose dal futuro nascituro perché già sembrava avere poteri magici.

Felice, sposata e con un figlio superdotato benché non purosangue. La invidiavo.

Stavo nella mia nuova villa, con un marito odiato che non vedevo quasi mai se non in occasione di qualche festa in cui mi esibiva come un trofeo. Mi passò persino la voglia di curarmi. Un giorno mi disse anche qualcosa che suonava come “sei vecchia, che ti succede? “ io gli risi in faccia, così.

Era la prima volta che ridevo a quel modo, come una donnaccia: buttai indietro la testa di scatto, aprii quanto più possibile la bocca e risi, una risata malefica, senza vera allegria. Lui si impietrì e se ne andò via.

Passarono ancora settimane, poi un giorno in cui c’era un terribile temporale lui mi si parò davanti, trafelato, più pallido del solito. “Ha chiamato” mi disse, non una spiegazione di più, solo un avambraccio teso di fronte a me con un simbolo contorto: un teschio e un serpente.

Non sapevo ancora cosa significasse, lo guardai con sufficienza credendo che mi volesse portare a qualche stupida riunione del gruppo di cui faceva parte, una specie di setta contro i babbani e i mezzosangue. Non mi ero mai interrogata su cosa fosse realmente, su che cosa facesse, perché gruppi così erano normali tra i purosangue, erano quasi dei club esclusivi e non era un mistero per nessuno la loro esistenza. Lo guardai, gli domandai se mi dovessi vestire e andai a cambiarmi.

Mi ricordo che non mi ero minimamente curata: un vestito nero intero, lungo, un po’ svasato ai piedi, stivaletti neri alti per non bagnarmi i piedi casomai avessi dovuto camminare, capelli scompigliati ricci e crespi dall’incuria, un trucco pesante che mi faceva assomigliare più a un vampiro che a una donna un tempo bella.

Ci smaterializzammo appena fuori casa per apparire in un posto tetro, isolato. Per un momento pensai che anche quell’uomo che dovevo chiamare marito si fosse stancato della fedina e mi volesse uccidere, così stetti all’erta con la bacchetta pronta, ma era tutt’altro: quella sera lui firmò la sua condanna a morte, lui mi presentò il mio Signore Oscuro.

 

 

 

 

Che ne dite di questo scorcio di vita? Mi lasciate una recensioncina?

 

Probabilmente seguirà una seconda parte in cui si vedrà in che modo Bellatrix diventò veramente quella che appare nei libri e come fece a liberarsi della sua precedente identità di signora Lestrange…

 

probabilmente, se la volete, altrimenti “passo e chiudo” come si dice.

(il carattere l’ho messo grande perché mi rendo conto che è un po’ pesante come impaginazione, quindi magari se uno è astigmatico, come me, trova più gradevole un carattere un po’ più grande )

 

 

 

Grazie a tutti quelli che leggeranno e ancor più a quelli che recensiranno! 

 

A presto,

Gufo

 

 

 

  
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