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Autore: Noony    04/09/2010    1 recensioni
Sospiro. Ho la maglia zuppa di sudore, e del tram neppure l'ombra, mi volto nella vana speranza di vederlo arrivare. E invece, vedo lei. Mi si ferma il cuore.
Quel profilo, quel naso, quelle labbra fini, la linea del collo giù fino al seno. I capelli, una massa informe e voluminosa di riccioli scuri...

Giulio non avrebbe mai creduto di rivederla proprio là, alla fermata dell'autobus.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho deciso di pubblicare nuovamente questa one shot, visto che non l'ho potuta utilizzare per il concorso. Ringrazio che l'aveva recensita e messa tra le storie preferite o seguite.




Un'altra afosa giornata d'Agosto. Si muore di caldo. Il sole picchia già alle dieci del mattino con potenza sulla città frenetica. Passanti e automobilisti che sudano e sudano, e pregano per quel soffio di vento che possa dar loro refrigerio, e ricercano uno spicchio d'ombra in cui nascondersi dal sol leone,e maledicono l'Estate tanto attesa, chiedendosi quando finirà quella torrida tortura. Tutto inutile. Le estati sarde sono lunghe si sa, maledire il tempo serve a ben poco, se non come valvola di sfogo.
Nessuno bada a me, fermo ad aspettare un tram che sembra non voler arrivare mai, forse anche lui troppo stanco e troppo accaldato per fare il suo dovere. Tutti sono troppo presi dalle loro vite, tutti pensano a loro stessi. A Cagliari in Agosto si diventa tutti un po' egoisti. La calura mista all'umidità rende tutto troppo caldo e appiccicoso perché la gente voglia avvicinarsi l'uno all'altro, rende tutti meno pazienti, tolleranti, più nervosi, e nessuno pronuncia una singola parola se non si trova nelle vicinanze di un condizionatore acceso alla massima potenza.
Mi guardo intorno e... Oh, un tram si avvicina... No, non è il mio. Ripenso con nostalgia e un poco di invidia alla mia auto, ferma all'interno del garage di un meccanico, a godere dell'ombrosa frescura di un angolino semibuio. In realtà, mi domando se sono io l'unico sfigato che il dieci Agosto ha la macchina dal meccanico, una macchina fresca di fabbrica che si rifiuta di partire. Forse si, d'altronde Murphy insegna. E io lo maledico, perché anche io sono meno paziente, meno tollerante, e notevolmente incazzato con quello stupido pezzo di lustra ferraglia che a tre giorni dalle sospirate vacanze mi ha lasciato a piedi. Almeno ho trovato un meccanico che non fosse ancora in ferie.

Il numero cinque, un filobus che ha visto certamente giorni migliori ma non meno torridi, si ferma davanti a me. Le porte centrali si aprono, e una fiumana di persone accaldate e sudate quanto me, scende e si disperde lungo il marciapiede. Le osservo portandomi una mano al volto, a proteggerlo dalla luce forte. C'è chi con uno zaino, i bermuda colorati sembra pronto per andare in spiaggia. Ci sono anziane signore cariche di buste della spesa, che fanno tenerezza, e insieme pena. Probabilmente hanno dei figli da qualche parte, e nessuno di loro pensa che è un atto incivile costringere la donna che li ha generati e cresciuti, quella che ha donato loro tutta la sua vita e se avesse potuto anche di più, a trascinare quelle pesanti buste con più di trenta gradi all'ombra, prendere un bus affollato dove nessuno mai le cederà il posto, e camminare fino a casa con i piedi doloranti, le braccia sfinite. Una casa silenziosa in cui saranno tristi e sole. Il loro nido vuoto, dove dei loro pulcini rimangono solo poche piccole piume.
Una di loro mi passa accanto, le sorrido. Mi ricorda mia nonna, così piccola, grassottella e con un'andatura un poco zoppicante, segno che le sue gambe cominciano a cedere al peso del tempo che passa. I capelli candidi sono legati in uno chignon, creano uno strano contrasto con gli abiti rigorosamente neri, forse vedovili. Il volto è segnato da tante rughe, la pelle è cadente ma io trovo che sia un bellissimo volto. Parla di una storia che non conosco, di eventi che non mi verranno raccontati, di gioie e tragedie che non mi riguarderanno mai. E penso che è bello carezzare il volto rugoso di una nonna, perché è sempre morbido. Le nonne per un nipote profumano sempre di buono. La mia aveva un profumo dolcissimo, sapeva di un vecchio profumo che il nonno amava, e che lei mise fino al giorno della sua morte.
La vecchina mi sorride di rimando e in quel momento mi sento orgoglioso di me stesso. So di non aver fatto niente di niente, forse se l'avessi accompagnata a casa, se le avessi portato quelle buste pesanti, se le avessi fatto compagnia per qualche ora allora avrei potuto essere davvero orgoglioso... Ma anche io sono egoista, e un sorriso è tutto quello che voglio darle quella mattina. Forse, in una mattina meno calda, avrei potuto... Ma sembra bastarle, e si allontana felice, e con la testa alta, mi sembra. Forse è vero che un sorriso riesce ad illuminare anche il più buio dei momenti.
Sospiro. Ho la maglia zuppa di sudore, e del tram neppure l'ombra, mi volto nella vana speranza di vederlo arrivare. E invece, vedo lei. Mi si ferma il cuore.
Quel profilo, quel naso, quelle labbra fini, la linea del collo giù fino al seno. I capelli, una massa informe e voluminosa di riccioli scuri, una volta lunghi e folti, ora corti e sbarazzini, non più una cortina dietro la quale nascondersi. Sono passati otto anni, ma di lei non mi sono mai scordato. Non potrei mai dimenticare il mio primo grande amore.

Alessia, è questo il suo nome. Aveva sedici anni quando mi innamorai di lei, e di quella ragazzina minuta e magrolina è rimasto poco e niente. La mia Alessia non era così flessuosa, quel seno prosperoso, messo in evidenza dalla scollatura della sua canottiera, lo sognava e desiderava, e guardandosi allo specchio della sua camera diceva sempre – Su ragazze mie, crescete!- Le ragazze dovevano averla ascoltata.
Voleva essere sensuale come le donne della televisione, non capiva che così com'era per me era più bella di qualsiasi velina o letterina.
Indossa dei corti pantaloncini, che ne mostrano le gambe ora lunghe e abbronzate. Quando era ancora la mia Alessia, era troppo timida per indossare qualcosa di simile. Si sarebbe vergognava a morte. Nascondeva la sua sensualità in boccio sotto t-shirt larghe e jeans. Passava i pomeriggi al mare rintanata sotto l'ombrellone, vergognandosi del proprio corpo acerbo, così incompleto in confronto a quello delle sue amiche, che ai suoi occhi erano tutte belle, tutte così donne mentre lei in quello specchio vedeva ancora una bambina.
Io l'amavo per questo. Per il suo essere apparentemente fragile, per quel visino un poco smunto ma adorabile. Amavo avvolgerla tra le braccia. Sembrava che in quei momenti fosse davvero mia, e che lo sarebbe stata per sempre. Mi chiedeva sempre – Ma come fai a volere me? Guarda Elena! Lei è così bella!- E io non rispondevo, perché proprio come ora, mi perdevo nel contemplare quegli occhi scuri dal taglio allungato e felino, dallo sguardo così forte e deciso che pareva potesse spaccare il mondo intero se solo avesse voluto.
É diventata alta. Porta delle zeppe che sembrano veri trampoli, dei trabiccoli scomodi, magari pure pericolosi. Una volta si sarebbe rifiutata di portarli, e avremmo riso insieme di quelle che ancheggiando come oche si torturavano per qualche centimetro in più d'altezza. E che si rendevano ridicole.
Lei non sembra ridicola però. Sembra una modella, appena uscita da una di quelle riviste dalle pagine patinate. Non ha conservato nulla della sua ingenuità. Ora è sensuale, è meravigliosa eppure... Eppure... Vorrei non fosse così. Vorrei rivedere ancora quella ragazzina, non mi piace questa Alessia, non voglio la donna sensuale. Eppure la voglio, scopro che la desidero ancora, è eccitante, e se solo potessi sfiorarla, Dio solo sa cosa non vorrei farle. Ma una parte di me, respinge quel corpo invitante. Nel mio cuore sono conficcati frammenti di lei, di com'era un tempo.
Siamo stati insieme due anni. Due anni in cui lei è cresciuta, è diventata sempre adulta, proiettata completamente verso il suo futuro, verso il raggiungimento dei propri obbiettivi. E sempre più distante. Mi accorsi troppo tardi di non essere incluso della sua vita futura. Stavo diventando storia vecchia, ricordo passato. Ma io la volevo ancora, e non mi importava. Avevo vent'anni e non mi importava se lei non mi voleva più.
Lo ricordo come se fosse ieri. Facevamo l'amore, quella fu l'ultima volta. Aprii gli occhi, scosso dalla passione, dall'emozione di poter sfiorare ogni centimetro di lei, di essere con lei, su di lei, in lei. Lei fissava il soffitto, inespressiva, priva di alcun sentimento se non la triste consapevolezza di stare portando avanti qualcosa che non aveva più ragione d'esistere. Quella fu la fine. Io lo sapevo, lei lo sapeva, ma io non volevo ascoltare cosa lei voleva dire, e non volevo vedere ciò che lei mi voleva mostrare.
Era Agosto anche allora, un acquazzone estivo rendeva l'aria ancora più umida, più pesante, l'odore di pioggia era forte e nauseante. Ho sempre odiato quell'odore di umido e sporcizia mescolato insieme. Davanti al portone di casa sua, bagnato fradicio, la imploravo di non lasciarmi. Forse avevo fatto qualcosa di sbagliato, forse avrei potuto rimediare, forse avrebbe potuto amarmi di nuovo, se solo mi avesse dato un'ultima possibilità.
Forse, forse, forse... Forse ero solo un patetico illuso. No, lo ero. Lei mi lasciò li, sotto la pioggia, non aprì mai quella porta. Lo sapeva, che se l'avesse fatto, non avrebbe avuto il coraggio di cacciarmi via. Era diventata risoluta, quasi spietata. Aveva deciso che nella sua vita, non c'era più posto per me. E osservandola ora, mi chiedo se un frammento di me sia rimasto in lei. Almeno uno, mi basterebbe un'innocua, minuscola e insignificante scheggia. In un'Alessia che ora non ha nulla di diverso dalle altre, che si è uniformata alla massa, a ciò che la moda impone. Ad un'Alessia che ha fatto del suo corpo, meraviglioso, sensuale, travolgente corpo dalla pelle scura il suo biglietto da visita. Sento una strana sensazione, come un peso sul petto.
Poi, sorride. Penso mi abbia visto, sorrido anche io, ma lei non guarda me. Un altro le si avvicina, le corre incontro e la solleva tra le braccia. Incurante del sudore che imperla la pelle di entrambi, incurante di tutti, passanti, automobilisti, curiosi affacciati alle finestre dei palazzi.
Sorride a lui, non a me. Il peso sul petto si fa più pesante. Lei è andata avanti, come voleva fare. Sono solo io ad essere rimasto indietro. Lei mi ha dimenticato. Non mi riconosce neppure, non mi vede neppure, è meglio dire. Invisibile, questo sono diventato.
La rabbia monta. Perché io non ho lasciato niente in lei, perché non c'è traccia del mio passaggio sul suo volto? Devo essere stato insignificante, mi dico.
Quando lui la posa a terra, lei gli prende una mano con la sua. Al suo polso fine ciondolano rumorosamente tanti braccialetti colorati. La mia Alessia non amava i colori appariscenti, la sua invece si. Amiamo due persone diverse racchiuse in una.
-Andiamo?- Le sento dire. Lui annuisce, ma prima di allontanarsi, lei si volta. Per la prima volta mi guarda. Mi sento penetrare dai suoi occhi scuri. Mi sorride, solleva una mano, i suoi braccialetti tintinnano mentre mi saluta. - Ciao, Giulio!-
Il peso sul mio petto si dissolve. Vola via, sparisce nel nulla. Sorrido, le rispondo, e lei mi volta le spalle. Sulla spalla noto un piccolo tatuaggio, una D, l'iniziale del nome di suo padre.
Si allontanano insieme, mano nella mano, ma ho il tempo di sentire lui chiederle. - Ma chi era, quello?-
E lei rispondere, con un sorriso grande sul volto. - Una persona importante.-
Allora forse, non sono stato così insignificante. Forse, c'è un piccolo frammento di me ancora conficcato nel suo cuore, e lei non vorrà mai liberarsi della sensazione dolce amara e del piacevole dolore di quando si ripensa a ciò che è stato e che non sarà mai più.
Intanto il mio tram è passato, e io l'ho perso. Non importa, aspetterò il prossimo. Perché così è la vita, a volte si perde qualcosa per guadagnare qualcosa di più.















  
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