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Autore: Cleo    05/09/2010    1 recensioni
Spezzo una spiga con la scarpa e il crac che ne esce è uno strappo dentro di me; mi rassetto il vestito, chiudo gli occhi, respiro, respiro, e la testa gira per la sensazione di sbagliato che aleggia tutt’intorno.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono in un campo di grano secco, il sole mi batte sulla pelle che si arrossa lentamente e le cicale cantano per un pubblico sordo. La casa davanti a me è vecchoa, dalla vernice scrostata dal vento e dal tempo, e sembra che la porta di legno scuro possa cadere con il soffio di un respiro.
Spezzo una spiga con la scarpa e il crac che ne esce è uno strappo dentro di me; mi rassetto il vestito, chiudo gli occhi, respiro, respiro, e la testa gira per la sensazione di sbagliato che aleggia tutt’intorno.
- Ha senso essere qui?- mi domando – Ha senso?
Sento che dovrei svegiarmi, sento che qualcosa mi porterà presto via, ma non succede ed apro la porta con una forza non necessaria ed entro.
Tutti festeggiano con un bicchiere in mano e seguono il conto alla rovescia per mezzanotte, senza notare lo splendore rosso fiammeggiante del cielo fuori, il sole che scalda e attraversa i vetri delle finestre impolverate; vado inciampando al bancone del bar e chiedo qualcosa da bere, così forse saprò vedere e capire il perché di questo Capodanno diurno.
Il barista mi sorride complice –ed è un sorriso che gli arriva fino agli occhi – e mi tende un panetto di pastafolla dorata e soffice.
“Con questa forse saprai vedere – e sorride di nuovo e stavolta posso vedere il bagliore dei denti, e sento l’inevitabilità eruttare su di me con piena forza, vulcano e tempesta.
Prendo un morso del dolce e non mi sento ubriaca, sono solo più percettiva, e per un attimo le cose mi sembrano  più nitide, definite, e terribilmente fragili allo stesso tempo. Un mio amico corre per la stanza, delirando, con un’espressione estatica in volto, gridando: “Maratona, maratona, tutti pronti per la maratona!”
Non ricordo di averlo mai visto correre, né praticare attività sportiva, e tutto questo entusiasmo mi sembra eccessivo; osservo con stupore tutti gli invitati alla festa alzarsi e protrarre le mani al cielo, per poi uscire e incominciare e correre come non ci fosse un domani, come se fossero rincorsi dal loro più grande timore.
Urlano di gioia e posso sentirlo, ma non capisco, ogni spiga spezzata dalle loro suole è come graffio sulla mia pelle secca, il sole li investe ma non li illumina e sono come ombre in quel vento che non dovrebbe provenire da sud, invece da lì è partito.
La sala si è svuotata rapidamente e solo ora noto una scala di legno rovinato; la salgo lentamente, assaporando ogni scricchiolio, ringraziandolo come un segno che il semplice rumore esiste ancora, e giungo in una cucina nuovissima, dai mobili di nuova generazione, in completo contrasto con il resto della casa. Davanti a me si staglia un’enorme vetrata, a cui affacciato sta un ragazzo che mi volge le spalle.
Solo il suo collo ben disegnato e l’attaccatura definita dei suoi capelli ricci mi riportano qualcosa alla mente, e non è suono, né immagine o parola, ma soltanto il pensiero che mi ricorda quanto tempo sia passato.
Il ragazzo si volta verso di me senza fretta, ed è inconfondibile.
“È passato molto tempo.” Non è una domanda, né un’affermazione, qualcosa di sospeso a metà che mi fa sentire in colpa per non aver pensato abbastanza a lui.
“Mi hai dimenticato?”
“No!” grido, ed è vero, perché mai in nessun altro ho visto occhi tanto neri, o un sorriso così enigmatico.
Sospira e non mi risponde, si sdraia sul pavimento disponendosi come a formare un angelo sulla neve, e io faccio lo stesso, dopo essermi tolta il vestito, perché so ciò che vuole. Gli dicevo spesso, un tempo, che non eravamo gemelli perché un anno e sei giorni separavano le nostre nascite, ed un amore che non avrei mai avuto il coraggio di pronunciare, poiché none era tale, divideva le nostre vite.
Eravamo giovani e fragili e incoerenti, allora, e sono passati quattro anni dall’ultima volta che l’ho visto, fino ad ora.
“Non mi sei mancato”, rifletto, rabbrividendo per il freddo del marmo sotto la pelle nuda
“Hai solo sentito la nostalgia di qualcosa che avevi e che hai perso senza rendertene conto, e nemmeno sapevi di preciso di cosa si trattasse”, risponde, e non ho bisogno di guardarlo in viso per sapere che ha ragione. “Ho sempre sperato per te in un futuro brillante. Mi sono chiesto dove fossi finita e, anche quando ho saputo rispondere, sono stato troppo codardo per dirti ‘ciao’; ti ho odiato, a volte. Abbiamo vissuto vite diverse, ed ogni tanto di te mi torna il sentore. Saresti potuta essere il mio avvenire migliore, o una storia senza lieto fine, ma non ti ho mai avuta, né capita, e questo non era abbastanza per sentire la tua mancanza.”
Mi alzo di scatto, vado alla finestra, e osservo i maratoneti, che sembrano non essere avanzati di un passo; mi giro di nuovo verso di lui, che stavolta sorride ed indica il suo contorno scuro di angelo caduto rimasto impresso sul pavimento.
Il sole è allo Zenit, e si può udire il boato di Mezzanotte.

  
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