Fanfic su artisti musicali > 30 Seconds to Mars
Ricorda la storia  |      
Autore: shanna_b    06/09/2010    12 recensioni
L'insonnia distrugge le persone, le rende schiave della notte e dei ricordi, del passato e del presente. Ma non e` soltanto Jared a soffrirne...
FF che ha partecipato al Contest, organizzato dal Forum DreamsWriters, "Fino all'Ultimo Respiro", Prova numero 1.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

INSOMNIA

 

 

 

 

La seta di questo completo camicia da notte e vestaglia è di una morbidezza unica. L’ho percepita fin dal primo momento in cui l’ho comprata e ancora ne resto stupefatta. Il colore è un tenero crema e i grandi fiori bianchi e neri che la disegnano la rendono molto raffinata, come pure il contorno nero di seta.

Dopo la lunga doccia tiepida, infilo la camicia da notte lasciandomela scivolare addosso, con un sospiro di soddisfazione.

Ed è l’ennesimo di quella lunga giornata, iniziata stamattina alle cinque con un aereo e terminata appena un’ora fa in un ristorante londinese di lusso, per festeggiare.

Sono le due di notte e dalla finestra al dodicesimo piano del mio albergo posso vedere il London eye splendere su tutto. E’ fermo ora, ma davvero sembra che vegli sugli inglesi, con il suo occhio gigantesco, luminoso e spalancato. Sorrido, mentre mi pettino i capelli umidi: domani ci voglio salire assolutamente, ho l’aereo per tornare a casa soltanto verso sera, per cui ce la faccio tranquillamente.

Sbadiglio e mi stiracchio ma, anche se sono oltre venti ore che sono in piedi, in realtà non ho per nulla sonno. Sicuramente è l’adrenalina che mi circola per le vene, ne ho tanta che potrei imbottigliarla, ma d’altra parte questo nuovo lavoro che ho trovato e che mi porterà verso una nuova vita, mi eccita moltissimo: sono anni che lo rincorro e finalmente il mio sogno si realizza in pieno e...

Non ho sonno.

Assolutamente  no.

Comincio a camminare scalza sulla moquette chiara, silenziosamente, come a misurare la mia stanza: non faccio uso di  sonniferi, sono del tutto astemia, ho l’ipod scarico (che comunque contiene quasi tutta musica classica), nessuna connessione ad internet disponibile in camera, non guardo mai la TV, di tutti i libri che ho portato non mi va di leggerne nemmeno uno.

Male, molto male.

Malissimo, oserei dire.

Mi passo una mano sulla fronte, ho capito che sta succedendo: decreto ufficialmente che ho un attacco di insonnia.

 

 

 

E per fortuna che è dimagrito. Per fortuna che mio fratello non pesa più quasi cento chili come l’anno scorso, altrimenti davvero non riuscirei a sostenerlo mentre lo sorreggo, ubriaco sfatto, e lo porto verso la sua camera d’albergo.

Povero il mio piccolo Shannon, come mi fa pena: così stanco di questa lunga tournee mondiale e così sensibile per fare questo lavoro, non ce la fa più. E quando è all’estremo lui beve.

Come una spugna e qualsiasi cosa.

Ho perso il conto di quanti bicchieri si è scolato questa sera al pub ‘The Lamb and Flag’, qui a Londra, ma sono tanti se ora, dopo averlo sdraiato sul suo letto e privato delle scarpe e del suo fedele berretto rosso, sta già sonoramente russando.

Non lo spoglio, mi limito a coprirlo con il copriletto ed esco dalla sua camera sorridendo, al pensiero di cosa direbbero le sue numerose shangirls a vederlo in questo stato pietoso, mentre russa come il loro vecchio nonno.

Guadagno la mia camera velocemente.

E stanotte, accidenti se non sono di buon umore: la nostra performance di ‘Bad Romance’ al BBC Radio 1 Live Lounge è stata una cosa formidabile, da brividi, ci è riuscita benissimo, come non avrei mai detto… e qualche ora dopo averla registrata era già su youtube e le echelon su twitter ne facevano un forsennato RT. Molto meglio dell’originale, anche perché ne ho cambiato il testo, l’ho reso molto più esplicito e sexy. Sono una volpe, lo so!

Mi spoglio velocemente e mi infilo sotto la doccia fredda.

Cristo, che sollievo!

Che beatitudine immensa le gocce che mi scivolano addosso… e quasi quasi non mi asciugo del tutto, lascio che evaporino lentamente e mi regalino tutto il loro benessere.

Mentre mi asciugo i capelli con una salvietta, mi metto alla finestra a godermi il panorama. Eccolo lì, il London eye! Che spettacolo. Uno spettacolo di cui non mi stanco mai, visto che lo fotografo ogni volta che vengo a Londra… e ogni volta mi viene diverso. E’ come se si mettesse in posa per me.

Sogghigno: che cazzata sto dicendo?

Mi gratto la testa ritraendomi dalla finestra e mi accorgo che non ho per nulla sonno. Mi metto a guardarmi attorno, perplesso, mentre mi infilo i pantaloni del mio pigiama di seta nera e prendo il blackberry in mano. Accidenti, su twitter ho già twittato il twittabile, non ho nessuna foto da pubblicare su tweetphoto, FB non lo so usare e non ho voglia di imparare, libri da leggere non ne ho, telefonate da fare nemmeno, sono astemio, la TV non la guardo, musica ora non mi va, non prendo sonniferi e non ho nemmeno fame.

Sbuffo infastidito.

Ecco, ora so cosa sta succedendo: caro Jared, ti presento la tua amica insonnia.

 

 

 

Giro.

Mi rigiro.

Mi giro nuovamente.

Ho già girato su me stessa cinque milioni di volte ma su questo letto proprio non riesco a stare, se non per sembrare una mummia egizia avvolta nel lenzuolo bianco.

Con una specie di grugnito, butto via tutto e mi alzo di scatto, nervosissima, accendendo la luce dell’abat-jour. Sbuffo seccata: certo che sono una cretina con i fiocchi a farmi venire un attacco di insonnia proprio a Londra e proprio la notte successiva al giorno più bello della mia vita. Mi guardo allo specchio della camera: sono spettinata come non mai, pallida come un cencio e domani che devo andare a firmare il contratto sembrerò un panda, dalle occhiaie che già vedo spuntare.

Mi massaggio la fronte, tento una specie di massaggio sulle tempie: che diavolo devo fare?

Mi porto alla finestra nuovamente: la notte è buia come la pece e non si vede una stella che sia una. In lontananza, il Tamigi sembra inchiostro di china e tutto il mondo oltre la finestra sembra addormentato.

Tutto dorme.

Tranne la sottoscritta.

Mi sposto nuovamente verso il letto e solo allora mi accorgo di quanto piccola sia questa stanza d’albergo, prima non ci avevo fatto caso. E’ anche vero che a questo piano ci sono le suite e nel ritaglio di spazio ci hanno cacciato questa piccola camera ma… ora mi sembra una cella di prigione.

Sembra quasi che mi manchi il fiato, devo dire.

No, non posso stare qui.

Devo uscire.

Almeno un attimo, ma devo uscire.

Mi infilo le ciabatte e la vestaglia e, quasi senza pensare, prendo le chiavi ed esco dalla stanza, nel corridoio semi buio.

Ma… dove sto andando?

Faccio qualche passo e poi mi blocco vicino all’ascensore, notando che appeso al muro in fondo al corridoio c’è un cartello che con una freccia dice “Alle terrazze”.

Sì.

E’ lì che andrò.

 

 

 

Se avessi la bici andrei a farmi un giro per Londra, ma dubito che qui all’hotel riescano a trovarmi una ‘due ruote-come-la-voglio-io’ alle due di notte.

Sì, è vero che sono un iperattivo e la sindrome ADHD la dovrebbero diagnosticare a me e non ai ragazzini, ma… ho sempre un sacco di cose da fare che davvero non mi posso fermare e devo farle io e nessun altro.

Però di notte, per non diventare ancora più magro di quel che sono, magari dovrei dormire, no? Non dico dodici ore, ma almeno cinque o sei, no?

E invece perché stanotte sono così sveglio, visto che nemmeno bevo caffè e le tazze di Starbucks sono esclusività di mio fratello?

Seduto sul bordo del letto, mi passo le mani tra i capelli e socchiudo gli occhi per un attimo: e se andassi a vedere come sta Shannon, a proposito? Tanto le sue chiavi le ho portate via io, come faccio sempre. Ma sì, un’occhiata per sincerarmi delle sue condizioni non mi può fare male e magari questi pochi passi che separano le nostre stanze mi rilassano e poi mi addormento.

Esco silenziosamente nella penombra del corridoio e mi avvicino alla porta della camera di Shannon. Un pesante russare che sento fino a fuori mi conferma che mio fratello è perfettamente abbracciato a Morfeo, al sicuro tra le sue braccia, nel mondo dei suoi sogni batteristici e non è il caso di disturbarlo.

Faccio per tornare in camera mia ma ad un tratto vicino all’ascensore, in fondo al corridoio, intravedo un’ombra.

Aguzzo la vista: sembra una ragazza, che si ferma un secondo e poi si avvia, in vestaglia a fiori bianchi e neri, verso le terrazze.

Il mio secondo nome non è Joseph come molti credono, ma ‘Curiosità’: in un momento decido che la seguo.

 

 

 

Una decina di gradini e poi una porta di ferro.

Qualche passo e poi finalmente sono fuori, oltre quella porta. Il buio è completo e sono costretta a procedere lentamente, al riverbero delle luci di Londra, di qualche lampada al neon del terrazzo e con un leggero vento primaverile che soffia, leggero e birichino.

Mi guardo attorno e realizzo che la terrazza probabilmente viene usata anche per le colazioni del mattino, quando è estate e fa bel tempo, vista la fila di tavolini e sedie che la percorrono.

Vasi con rampicanti ancora spogli fanno da contorno al tutto e producono una specie di pergola sopra i tavolini, davanti ad una porta a vetri che dà su un piccolo bar.

Mi siedo lì? No, troppo scomodi, le sedie sono di metallo e mi ammaccherei il deretano in due secondi, senza cuscino.

Vado ancora avanti e noto che al di là di tutti i tavolini, alla fine del terrazzo, c’è una specie di belvedere: una ringhiera che fa angolo dà sul paesaggio londinese e un dondolo piuttosto grande, di tek e con cuscini e copertura bianca, occupa quasi tutto lo spiazzo e sembra quasi prendere il volo al vento della notte.

Oh, sì.

Bello, mi piace assai.

Posto ideale! Sedersi lì, lasciarsi dondolare languidamente, godere dell’aria fresca e del landscape di Londra…

Bello…

Due passi e sono davanti al dondolo, ma prima di sedermi, mi affaccio alla ringhiera a guardare giù, appoggiandomi su di essa. Non soffro di vertigini, per fortuna, e mi metto ad ammirare il panorama con curiosità: da qui si vede anche il Big Ben, ora.

Mi sporgo ulteriormente: nessun passante per la via sottostante. Sospiro. Alla fine, nonostante il mio lavoro, credo che la solitudine mi si addica meglio di ogni altra cosa.

 

 

 

Sono scalzo e i miei passi sono ovattati come quelli dei gatti. Lentamente salgo le scale, apro la porta con cautela e mi affaccio sul terrazzo.

Cerco subito con gli occhi colei che ho visto oltrepassare la porta di ferro in un turbinio di vestaglia di seta e che sono curioso di sapere chi è e perché se ne va in giro a quest’ora di notte, prerogativa che credevo di avere solo e soltanto io in tutta Londra, stanotte.

La vedo che attraversa la grande terrazza dandomi le spalle, passando leggera come un fantasma tra i tavolini di ferro bianchi, alla luce fioca delle lampade al neon, mentre io mi nascondo vicino ad un rampicante, ad osservarla dall’ombra.

Capelli lunghi fino a metà schiena e biondi, leggermente ondulati e decisamente spettinati.

Una corporatura atletica e magra.

Due gambe perfette che escono dalla vestaglia corta sopra il ginocchio.

Improvvisamente la ragazza si gira a guardarsi intorno e il mio cuore dà un balzo.

Lineamenti non del tutto regolari, occhi azzurri e labbra turgide.

Cameron?

La paranoia mi colpisce in pieno: la vedo avvicinarsi prima e affacciarsi poi alla ringhiera e un moto di paura mi prende.

Si vuole buttare giù, sicuramente!

E’ una suicida!

Velocemente mi avvicino, correndo tra i tavolini, rischiando di inciampare: “No, Cameron, nooo!”, urlo.

Lei non fa in tempo a girarsi che l’ho già afferrata per la vita, quasi alzata di peso e buttata sul dondolo.

 

 

 

“ARRRRGGHHHH!!!”

Lancio un urlo spaventato!

Un maniaco! Noooooo!

Un uomo mi ha preso per la vita e buttata sul dondolo, e ora, con un ginocchio tra le mie gambe, mi tiene giù sui cuscini premendomi per le spalle.

Comincio a divincolarmi e ad urlare, ma lui mi mette una mano sulla bocca. “Zitta, zitta!”

Cristo Santo e come faccio a non urlare? E’ anche mezzo nudo, ha la barba sfatta, i capelli spettinati, gli occhi spalancati, l’aria decisa! Lezione di autodifesa numero uno: alzo un ginocchio e lo colpisco in mezzo alle gambe.

L’uomo con un lamento mi molla e si accascia per terra.

Ne approfitto per alzarmi, recuperare le ciabatte e cominciare a correre verso la porta.

“No, aspetta, aspetta… non voglio farti nulla… non volevo spaventarti, aspetta…”, e la sua voce arrocchita dal dolore ha un che di sincero, non so cosa. Mi blocco nei pressi della porta e mi giro con circospezione.

Ritorno lentamente verso il dondolo, guardandolo con curiosità: l’uomo ora si è seduto sopra e si tiene il davanti dei pantaloni del pigiama scuri, è senza fiato e non sembra affatto il violentatore delle terrazze.

Non appena sono a qualche passo da lui, mi guarda con i suoi occhi chiari e mi dice, con convinzione: “Ti… ti volevi suicidare, vero?”

Quasi mi metterei a ridere, se non vedessi che sembra veramente preoccupato per la mia salute mentale: “Ma… no, no. St-stavo guardando di sotto… i passanti… il paesaggio…”

Lui alza una mano e se l’appoggia sul petto nudo, ben disegnato e moderatamente muscoloso, come a voler fermare il cuore: “Cazzo… che spavento che ho preso!”

Beh, pure io ho i battiti accelerati. “Sì, anch’io…”

L’uomo scuote la testa, spostandosi dalla fronte i capelli umidi, assurdamente tagliati alla mohicana: “Scusami, non volevo farti paura… è che… io credevo che…”

Sembra quasi imbarazzato. Probabilmente mi deve aver scambiata per qualcuno a cui tiene particolarmente, altrimenti non mi si sarebbe avventato addosso a quel modo: “No-no… sì-sì… ho capito, non fa niente…”. Mi sistemo la vestaglia mezza sfilata e poi mi metto a sedere sul dondolo vicino a lui, visto che adesso mi accorgo di avere pure le gambe che mi tremano. Mi passo una mano sui capelli, mentre guardo il paesaggio davanti a me: “Io… non riuscivo a dormire e… beh… sono salita qui sopra per vedere se mi veniva sonno…”

L’uomo sorride e, quando mi giro a guardarlo, quel sorriso, quella fila di perfetti denti bianchissimi, per un momento mi ricorda qualcuno: “Insonnia anche per te?”

Sbuffo: “Eh, già. Troppa adrenalina che corre per le vene, credo… non trovo pace da nessuna parte. Anche tu?”

“Sì, temo di sì.” Poi allunga una mano. “Jared. E tu sei…”

“Rita.”

“Piacere.”

 

 

 

Rita.

Grazie a Dio.

E non Cameron.

Anzi, con Cameron non ha niente a che fare, né con il nome, né con il resto. Sì, forse può ricordarla per qualche cosa, quelle cose che mi hanno fatto sobbalzare prima, uno scherzo delle luci del terrazzo, ma poi, no… niente a che vedere, completamente diversa.

Ossatura sottile e portamento altero, molta grazia nei movimenti, occhi azzurri enormi, ciglia e sopracciglia scure, sorriso sincero.

Meno male.

“La tua adrenalina è dovuta a…?”, le chiedo, visto che ormai è notte fonda, non ho niente da fare e siamo entrambi insonni, tanto vale far conversazione.

“Un nuovo lavoro qui a Londra.”

“Che lavoro?”

“Una cosa sognata fin da bambina: prima ballerina alla Opera House. Sono… una ballerina classica.”

Beh, in effetti ora capisco la sua magrezza e il suo portamento: “Accidenti! Congratulazioni! E’ una cosa eccezionale.”

“Grazie, sì. E… la tua, di adrenalina?”

“Una cover cantata dal vivo riuscita particolarmente bene. Sono… un cantante.”

La ragazza mi guarda ad occhi spalancati, come se mi avesse già visto da qualche parte. “Ehm… cantante?” E’ dubbiosa, non capisco perché: “Sei sicuro? Cioè, certo… se lo dici tu ci credo, ma… mi par di averti visto da qualche altra parte, ma non ricordo dove…”

Ecco, ci risiamo.

Adesso mi dirà anche questa che sono Efestione. Far quella parte ha segnato la mia carriera e la mia vita per sempre. Per certe persone sarò sempre e solo Efestione, accidenti. Non che non ne sia orgoglioso… è che… beh è come aver lavorato alla CIA, ‘una volta dei nostri, per sempre dei nostri’! Svio il discorso: “Non segui la musica moderna tu?”

“Poco, a dire il vero.”

“30 Seconds to Mars?”

“Uhm… no, mai sentiti.”

“The Kill? From Yesterday? Kings And Queens? Closer to the edge?”

Rita scuote ancora la testa, i capelli che le danzano attorno al viso, gli occhi quasi addolorati: “No, mi dispiace. Non ho mai sentito queste canzoni. Scusa…”

Sì, il mio ego potrebbe anche rimanerne offeso e mettere il muso, a dire il vero, ma faccio il superiore: “Dai,  non fa nulla…”

Ma lei si mette a guardarmi, con occhio indagatore, le sopracciglia piegate, come se dentro la sua testa stesse sfogliando un archivio: “Uhmmm… Però tu…”

Niente, non si arrende. Ok. Mi arrendo io, ogni tanto capita: “Faccio anche l’attore.”, concedo.

Gli occhi le si illuminano: “Ah, ecco!”

 

 

 

Ma certo! Ora ricordo tutto! Sparo il titolo, puntandogli il dito addosso: “Sì, sì! ‘Sunset Strip’, sicuramente!”

Jared spalanca gli occhi e si mette a ridere di gusto: “Ma come? Di tutti i miei film ti ricordi solo uno dei meno famosi?” La sua risata è bellissima e gli occhi gli si illuminano mentre mi dice: “Beh… in effetti i pantaloni attillati di serpente non passavano indifferenti…”

Serpente? Ma che schifo! Trattengo un borbottio di ribrezzo: “Ehm… l’ho guardato solo perché c’è Simon Baker, veramente… io… beh… adoro quell’uomo…”, concludo velocemente, per non dire che ne sono cotta come una pera da tempo immemore, visto che adoro gli uomini biondi con gli occhi azzurri.

Jared allora si piega quasi su se stesso dal ridere: “Ne ho fatti anche altri, di film, eh…”

Ah sì? Davvero? Da non credere… “Non sono proprio una cinefila, a dire il vero… Passo la vita alla sbarra…  Sono anni che non vado al cinema…”

“Tranquilla, nemmeno io credo di aver mai visto il ‘Lago dei Cigni’… e passo la vita sul set o nello studio di registrazione.”

Mi metto a ridere: “Bene, ora che nessuno di noi sa nulla del lavoro dell’altro, di che parliamo?”

Jared mi lancia una strana occhiata, mentre si stiracchia come un gatto e mi concede la vista del suo corpo: senza volerlo i miei occhi scivolano lungo il suo petto glabro, sui muscoli della muscolatura del ventre, giù, verso il bordo dei pantaloni, sul rigonfiamento nella patta, giù, lungo le sue gambe, fino ai piedi ben disegnati che spuntano dalla seta nera…

Beh, io sono abituata a uomini muscolosi in calzamaglia e con il pacco in vista che mi sgambettano attorno, però… accidenti… da dove è saltato fuori uno così?

Con quel viso così dolce e intenso, quegli occhi così maliziosi e limpidi nello stesso tempo.

E io non sono una suora, mai stata.

Meglio se sto attenta. Deglutisco quasi imbarazzata e gli tolgo gli occhi di dosso, mentre tiro su le gambe e le avvolgo nella mia vestaglia, appoggiandomi meglio ai cuscini, come se volessi mimetizzarmi.

E allora Jared pianta un piede per terra e comincia a far muovere il dondolo, lentamente.  “Ti canto una ninna-nanna?”, chiede, mentre si sdraia anche lui di più tra i cuscini. Ma improvvisamente la sua espressione è cambiata e anche il tono della sua voce.

“No. Ti ballo qualche cosa sulle punte?”, lo sfido.

Lui scuote la testa: “No.”

Scappo, è meglio. “Bene. Buonanotte.” Mi alzo per andarmene ma lui si mette a sedere di scatto e mi tira la cintura della vestaglia.

“No… dai… stai qui…”

Mi giro e lo fisso, con un mezzo sorriso: “Hai l’occhio troppo da furbetto, tu… e io non voglio complicazioni, non ora per lo meno…”

Il suo sogghigno è tutto un programma: “Senti… e se stanotte… beh… facessimo qualcosa di insolito?”

L’immagine di noi che facciamo sesso sul dondolo mi appare all’improvviso in testa: “D-del tipo?”

Jared si sdraia di nuovo e mette le braccia dietro la testa, dichiarando: “Niente sesso, per esempio. Tu quando l’hai fatto l’ultima volta?”

Sono una santa, io. “Uhm… Oggi pomeriggio.” Jared si mette a ridere. “Beh… ho rivisto un mio ex qui a Londra e… vabbé… non si andava d’accordo su nulla ma sul sesso sì, per cui… E tu?”

“Oggi pomeriggio, nel camerino della BBC, con… uhm… non importa con chi…” E’ un santo anche lui, a quanto pare.

Mi risiedo sul dondolo, più tranquilla. “Ok. Niente sesso. E allora, che si fa?”

“Parliamo.”

“Di cosa?”

“Perché non dormi?”

Spalanco gli occhi, stupefatta.

Grazie della domanda, Jared.

Davvero.

 

 

 

“Troppa adrenalina, te l’ho detto.”, mi risponde Rita, ma troppo velocemente perché non sia una bugia colossale, di quelle impossibili da non scoprire.

Scuoto la testa. Non me la dai a bere. “No, non è vero.”

“E allora cosa ho, secondo te?”

“Qualcosa ti rode… E non fai che pensarci e non trovi una soluzione e quindi non dormi…”

La ragazza sospira e si guarda le mani, abbassando leggermente il capo. “Sì, è vero.”

Ho capito tutto. Perché, in fondo, io so tutto. “Chi era, lui?”

Rita si appoggia sullo schienale e sospira nuovamente, appoggia la testa sui cuscini e guarda il cielo nero, lo spicchio di luna in quella notte di primavera inoltrata. Poi, sottovoce, inizia a parlare: “Lui era Fabio. Fabio.” E detto da lei sembra il  nome più bello del mondo. “Ma il suo unico amore era l’acceleratore di particelle del CERN, non ero io. La Fisica era la sua religione, Enrico Fermi era il suo idolo, il bosone di Higgs era il suo ideale di ricerca e io non ero niente. Non esistevo. Non mi vedeva nemmeno. E io non sono mai stata in grado di dirgli cosa provavo per lui, neanche quella volta che siamo stati chiusi in biblioteca da soli un pomeriggio intero.” Rita si morde un attimo il labbro inferiore. “Però lui è stato il mio unico amore. Come mi batteva il cuore quando lo vedevo, con nessuno mai. Come sentivo in petto un amore caldo e sconfinato per lui, una tenerezza infinita, mai più. Come lo desideravo, non mi è più successo con nessun uomo.” Poi si gira a guardarmi, per un attimo, abbassando gli occhi. “Scusa. Sono una stupida romantica.”

Le appoggio una mano sulla spalla, colpito: “No, no… per gli uomini non è poi diverso… magari loro… noi… la mettiamo più sul possesso che non sul sentimento ma… è lo stesso. Quello che proviamo è lo stesso.”

Rita annuisce, poi si gira verso di me, gli occhi spenti: “Non riesco a pensare che non possa essere nella mia vita. Ci sto ancora male. Da oltre dieci anni. E non mi do pace. Non ci riesco. E vorrei andare da lui, ma ho paura che mi rifiuti e poi… non voglio mendicare il suo amore. Non è giusto… Non si può…”

Dopo un attimo, inaspettatamente, si avvicina, si appoggia contro di me e io le passo un braccio attorno alle spalle, stringendo.

Non avrei mai e poi mai pensato di trovarmi in una situazione del genere, stanotte, ma si sa, niente nella vita avviene per caso, sicuramente nemmeno questo incontro.

Dopo un po’ e qualche altro sospiro, mi dice: “E lei? Chi era, lei?”

E’ difficile ed è tanto che non ne parlo, ma ora devo.

Questa notte devo farlo.

DEVO.

Prendo fiato. “Lei era Cameron. Un’attrice. Siamo stati insieme quattro anni. E più volte, fin dal primo momento che l’ho vista, ho pensato che lei fosse il mio destino. Era simpatica, intelligente, di carattere. Io la adoravo. Ma… un giorno le cose sono cambiate. NOI siamo cambiati, senza quasi rendercene conto. Lei era troppo impegnata con il cinema e io con la musica, con il mio gruppo. Avevamo ottenuto il contratto per il nostro primo CD e io passavo le giornate in sala di registrazione con mio fratello.” Ricordo ancora con piacere quel periodo, il nostro progetto inseguito da una vita che si concretizzava, la felicità e la volontà di fare del nostro meglio. Riprendo a parlare, lentamente: “Non avevo smesso di volerle bene, ma il tempo è quel che è, non si dilata. Eravamo sempre riusciti a conciliare i nostri impegni ma in quel periodo no, non ci riuscivamo. O forse, inconsciamente, non volevamo. Lei passava le giornate sul set e non ci vedevamo mai. E quando succedeva, io dicevo sempre qualcosa di sbagliato, lei faceva il processo alle mie intenzioni, io mi arrabbiavo, lei pure, alla fine litigavamo e io andavo a dormire da mio fratello. Ad un certo punto non abbiamo potuto più stare insieme e ci siamo lasciati. Abbiamo lasciato andare il nostro amore. E poi… beh… non ho nessuna scusa, nessun alibi. Avrei dovuto far di tutto per non lasciarla andare via, no? E non l’ho fatto. Non l’ho fatto, capito? E noi, tutto quello che eravamo, siamo svaniti… alla velocità della luce… svaniti… come se non ci fossimo mai stati…” Mi fermo e sospiro, non avevo mai parlato così tanto di Cameron, con nessuno. E allora tanto vale finire. Svuotare il sacco, come ha fatto Rita, stringerla forte a me e finire, sicuro che lei mi capisca: “Ma… io un’altra come Cameron non l’ho più trovata: il suo sorriso e la luce nei suoi occhi non li ho più visti in nessuna donna. E l’ho amata così tanto che penso di aver esaurito il mio amore in quel momento e non potrò più amare nessuna donna.”

Non so più che dire.

Ma è questo che mi rode e che mi impedisce di dormire.

Da anni.

Da quel giorno in cui lei se n’è andata, senza dire nulla, senza darmi spiegazioni, per poi evitarmi ogni volta che tentavo di incontrarla. Lasciandomi dentro un vuoto immenso, un buco nero nel cuore, come non avrei mai creduto, come tento di esorcizzare scrivendo le parole delle mie canzoni.

Rita sospira, mentre mi accorgo che mi ha preso la mano del braccio che le tengo sulla spalla e la stringe: “Tu... tu ci credi alla storia della mezza mela? Nelle due creature fatte per stare insieme per sempre?”

Non ci ho mai pensato a dire il vero. “Potrei dire sì o anche  no. Per cui dico ‘non so’…”

“E se fosse vero? Che di amore ce n’è uno e tutti gli altri sono ripieghi? E per tutta la vita non ne troverai un altro, una volta perso…”

E’ un bel dilemma: “E se invece ci fossero altri amori?”

 

 

 

 

No, non può essere. “No. Le mezze mele sono due. Puoi tentare di incollarti ad una mezza patata, ma non è lo stesso. Non viene fuori una mela, ma una specie di Frankestein…”

Non so come mi sia venuta, ma Jared si mette a ridere di gusto. E la tensione derivata dai nostri racconti si stempera. Mi metto a sedere ridendo pure io, staccandomi da lui e lasciandogli la mano. Nessuno sa com’è, in realtà, se le mezze mele sono più di due (alla faccia della matematica) o se la combinazione mezza mela+mezza patata può, in certi casi, funzionare ugualmente e durare tutta la vita. “Lascia perdere, sono le sciocchezze che mi escono dovute all’insonnia…”, affermo convinta, girandomi a guardarlo.

Ma, improvvisamente, Jared si gira, si allunga sul dondolo e appoggia il capo sul mio grembo. Resto un attimo stupefatta: questa cosa è strana, ma non mi dispiace…

Lascio fare e inizio io a dondolare l’altalena.

E lui mi guarda fisso, con quei suoi occhi che ora mi appaiono perfettamente rotondi, e lo guardo in viso pure io, sorridendo.

Povero Jared.

Povero.

Così attraente e così solo.

Con la coda di donne alla porta e in preda all’insonnia per un amore sparito dalla sua vita.

Così preso ancora dalla sua Cameron, da avermi scambiata per lei, visti i miei capelli biondi, i miei lineamenti e il mio fisico.

Poi, senza pensarci, in automatico, gli sposto i capelli dalla fronte e gli accarezzo il viso, senza dire nulla, incantata da quei lineamenti perfetti e da quello sguardo, da quelle labbra sottili e socchiuse, dalla linea senza difetti delle sopracciglia.

E lui sospira e chiude gli occhi, un leggero sorriso.

Ma dopo un momento, quando non me la aspetto, Jared mi attira giù e mi bacia.

E lascio fare anche quello.

Lascio che il calore della sua bocca passi sulla mia, chiudo gli occhi, mi lascio andare, assaggio il suo sapore, la sua barba sfatta che mi solletica il viso.

E in quel bacio non c’è sesso e non c’è amore e io sono perplessa: “Perché? Perché, questo bacio?”, chiedo, quando ci stacchiamo.

Lui sorride, con un sorriso così dolce che potrei sciogliermi: “E’… è un bacio portafortuna. Tra due esseri umani, sfortunati in amore…”

“Tu lo troverai.”, dico ad un tratto, senza pensarci. “Il tuo amore, lo troverai. Quella della mezza mela è una cazzata. Tu… hai smesso di cercarlo, convinto che non ci sia. E lo stesso vale per me. Siamo ossessionati da una cosa passata ma… c’è, Jared. C’é. Sono convinta.”

“Sicura?”

Non so perché, ma so che è così, improvvisamente ho avuto un’illuminazione: “Sì… io lo troverò tra chi mi manda le rose dopo i balletti e tu… tu tra le tue fans, magari. Ne hai?”

Jared si mette a ridere: “Sì, qualcuna…”

“Le incontri spesso?”

Lui annuisce, convinto: “Sì, sempre… e mi fanno regali di tutti i tipi. Una ragazza una volta mi ha portato anche una torta gigantesca. Buonissima.”

“Al cioccolato?”

“Sì.”

“E’ quella.”

“Dici?”

“Sì, è lei.”

Lui sorride: “La prossima volta la fermo.”

Gli accarezzo la fronte per l’ennesima volta: “Sì, sì, prova… fermala. E amala.”

“Giuro, lo faccio…”

Poi Jared sbadiglia, ormai totalmente rilassato, e ricambiando una carezza su una guancia e rialzandosi, mi dice: “Allungati, sdraiati, dai…”

Ci sdraiamo abbracciati sull’altalena, il lieve rumore delle foglie che si muovono al vento e il dondolio che ci coccolano. Ad un tratto sento che Jared rabbrividisce e si stringe di più, il suo profumo tanto forte, allora apro la vestaglia e copro il suo petto nudo.

E lui mi bacia sulla fronte: “Grazie, Rita. E… l’ultimo che domani si sveglia, paga pegno. OK?”

Mi metto a ridere: “Che genere di pegno?”

“Ce lo scriviamo su un foglietto e chi se ne va lo lascia all’altro, va bene?”

Mi stringo di più a lui e mentre sento che gli occhi mi si chiudono, sussurro: “Sì… Jared…”

 

 

 

“JAREEEEEDDD?”

Glielo grido in un orecchio scuotendolo forte perché mio fratello non dorme quasi mai, ma quando lo fa, praticamente va in coma!

Si sveglia di soprassalto, mentre troneggio su di lui, già vestito di tutto punto e completo con i miei immancabili occhiali da sole, nonostante il sole a Londra sia pallido e velato, quel mattino.

Si guarda un attimo intorno e solo allora probabilmente realizza che é sdraiato sul dondolo del terrazzo dell’albergo, che é ancora in pigiama e che ha dormito lì.

Probabilmente anche benissimo.

Filippico immediatamente: “Stavo andando a Scotland Yard per denunciare la tua scomparsa, quando in corridoio una cameriera in escandescenze mi ha urlato in un orecchio di aver visto Efestione addormentato sul terrazzo.”

Mio fratello sogghigna divertito, mentre si mette a sedere, stiracchiandosi. “Ah, sì?”

“Sì. Che cazzo ci fai qui? Sonnambulismo? Hai camminato sul cornicione?”

Sbadiglia di gusto: “No. Insonnia.”

“Ancora? Ti devi far curare, fratellino… oppure, se vuoi scordare qualcunA… ti devi dare pesantemente all’alcool, come faccio io…”. Liberamente tratto dal libro ‘Ricette di Shannon per dimenticare una donna tanto amata e persa’, capitolo uno (e unico).

“No, grazie. Preferisco l’insonnia ad un fegato spappolato…”.

Mentre cerco una risposta, Jared si alza stiracchiandosi di nuovo e una cosa gli cade di dosso. Mi ci avvento subito e la raccolgo, perplesso: “Una salvietta di carta? Che hai fatto, stanotte? Un picnic?”

Jared me la toglie di mano e la spiega, perchè ha capito subito che è piegata a mo’ di biglietto.

E scritta.

Si mette a leggere e poi si avvia verso la porta del terrazzo, ridendo a crepapelle, mentre me la porge.

Leggo con curiosità: “Hai perso la scommessa e il tuo pegno é: devi farti la mohawk fucsia e gialla! :-P”

Mi batto una mano sulla fronte, affranto: oh no!

Morirò presto se devo assistere ad un nuovo taglio di capelli di Jared!

“JARED, NON OSAREEEEEEEE!! QUESTA NON TE LA PERDONO, JARRRREEEEEEDDDD!!!!”

Ma lui è già sparito.

 

 

 

FINE









   
 
Leggi le 12 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 30 Seconds to Mars / Vai alla pagina dell'autore: shanna_b