INSOMNIA
La seta di questo completo camicia da
notte e vestaglia è
di una morbidezza unica. L’ho percepita fin dal primo momento
in cui l’ho
comprata e ancora ne resto stupefatta. Il colore è un tenero
crema e i grandi fiori
bianchi e neri che la disegnano la rendono molto raffinata, come pure
il
contorno nero di seta.
Dopo la lunga doccia tiepida, infilo
la camicia da notte lasciandomela
scivolare addosso, con un sospiro di soddisfazione.
Ed è l’ennesimo
di quella lunga giornata, iniziata
stamattina alle cinque con un aereo e terminata appena un’ora
fa in un
ristorante londinese di lusso, per festeggiare.
Sono le due di notte e dalla finestra
al dodicesimo piano
del mio albergo posso vedere il London eye splendere su tutto.
E’ fermo ora, ma
davvero sembra che vegli sugli inglesi, con il suo occhio gigantesco,
luminoso
e spalancato. Sorrido, mentre mi pettino i capelli umidi: domani ci
voglio
salire assolutamente, ho l’aereo per tornare a casa soltanto
verso sera, per
cui ce la faccio tranquillamente.
Sbadiglio e mi stiracchio ma, anche
se sono oltre venti
ore che sono in piedi, in realtà non ho per nulla sonno.
Sicuramente è
l’adrenalina che mi circola per le vene, ne ho tanta che
potrei imbottigliarla,
ma d’altra parte questo nuovo lavoro che ho trovato e che mi
porterà verso una
nuova vita, mi eccita moltissimo: sono anni che lo rincorro e
finalmente il mio
sogno si realizza in pieno e...
Non ho sonno.
Assolutamente
no.
Comincio a camminare scalza sulla
moquette chiara,
silenziosamente, come a misurare la mia stanza: non faccio uso di sonniferi, sono del tutto
astemia, ho l’ipod
scarico (che comunque contiene quasi tutta musica classica), nessuna
connessione ad internet disponibile in camera, non guardo mai la TV, di
tutti i
libri che ho portato non mi va di leggerne nemmeno uno.
Male, molto male.
Malissimo, oserei dire.
Mi passo una mano sulla fronte, ho
capito che sta
succedendo: decreto ufficialmente che ho un attacco di insonnia.
E per fortuna che è
dimagrito. Per fortuna che mio fratello
non pesa più quasi cento chili come l’anno scorso,
altrimenti davvero non
riuscirei a sostenerlo mentre lo sorreggo, ubriaco sfatto, e lo porto
verso la
sua camera d’albergo.
Povero il mio piccolo Shannon, come mi
fa pena: così stanco
di questa lunga tournee mondiale e così sensibile per fare
questo lavoro, non
ce la fa più. E quando è all’estremo
lui beve.
Come una spugna e qualsiasi cosa.
Ho perso il conto di quanti bicchieri
si è scolato questa
sera al pub ‘The Lamb and Flag’, qui a Londra, ma
sono tanti se ora, dopo
averlo sdraiato sul suo letto e privato delle scarpe e del suo fedele
berretto
rosso, sta già sonoramente russando.
Non lo spoglio, mi limito a coprirlo
con il copriletto ed
esco dalla sua camera sorridendo, al pensiero di cosa direbbero le sue
numerose
shangirls a vederlo in questo stato pietoso, mentre russa come il loro
vecchio
nonno.
Guadagno la mia camera velocemente.
E stanotte, accidenti se non sono di
buon umore: la nostra
performance di ‘Bad Romance’ al BBC Radio 1 Live
Lounge è stata una cosa
formidabile, da brividi, ci è riuscita benissimo, come non
avrei mai detto… e
qualche ora dopo averla registrata era già su youtube e le
echelon su twitter
ne facevano un forsennato RT. Molto meglio dell’originale,
anche perché ne ho
cambiato il testo, l’ho reso molto più esplicito e
sexy. Sono una volpe, lo so!
Mi spoglio velocemente e mi infilo
sotto la doccia fredda.
Cristo, che sollievo!
Che beatitudine immensa le gocce che mi
scivolano addosso… e
quasi quasi non mi asciugo del tutto, lascio che evaporino lentamente e
mi
regalino tutto il loro benessere.
Mentre mi asciugo i capelli con una
salvietta, mi metto alla
finestra a godermi il panorama. Eccolo lì, il London eye!
Che spettacolo. Uno
spettacolo di cui non mi stanco mai, visto che lo fotografo ogni volta
che
vengo a Londra… e ogni volta mi viene diverso. E’
come se si mettesse in posa
per me.
Sogghigno: che cazzata sto dicendo?
Mi gratto la testa ritraendomi dalla
finestra e mi accorgo
che non ho per nulla sonno. Mi metto a guardarmi attorno, perplesso,
mentre mi
infilo i pantaloni del mio pigiama di seta nera e prendo il blackberry
in mano.
Accidenti, su twitter ho già twittato il twittabile, non ho
nessuna foto da
pubblicare su tweetphoto, FB non lo so usare e non ho voglia di
imparare, libri
da leggere non ne ho, telefonate da fare nemmeno, sono astemio, la TV
non la
guardo, musica ora non mi va, non prendo sonniferi e non ho nemmeno
fame.
Sbuffo infastidito.
Ecco, ora so cosa sta succedendo: caro
Jared, ti presento la
tua amica insonnia.
Giro.
Mi rigiro.
Mi giro nuovamente.
Ho già girato su me stessa
cinque milioni di volte ma su
questo letto proprio non riesco a stare, se non per sembrare una mummia
egizia
avvolta nel lenzuolo bianco.
Con una specie di grugnito, butto via
tutto e mi alzo di
scatto, nervosissima, accendendo la luce dell’abat-jour.
Sbuffo seccata: certo
che sono una cretina con i fiocchi a farmi venire un attacco di
insonnia
proprio a Londra e proprio la notte successiva al giorno più
bello della mia
vita. Mi guardo allo specchio della camera: sono spettinata come non
mai,
pallida come un cencio e domani che devo andare a firmare il contratto
sembrerò
un panda, dalle occhiaie che già vedo spuntare.
Mi massaggio la fronte, tento una
specie di massaggio
sulle tempie: che diavolo devo fare?
Mi porto alla finestra nuovamente: la
notte è buia come la
pece e non si vede una stella che sia una. In lontananza, il Tamigi
sembra
inchiostro di china e tutto il mondo oltre la finestra sembra
addormentato.
Tutto dorme.
Tranne la sottoscritta.
Mi sposto nuovamente verso il letto e
solo allora mi
accorgo di quanto piccola sia questa stanza d’albergo, prima
non ci avevo fatto
caso. E’ anche vero che a questo piano ci sono le suite e nel
ritaglio di
spazio ci hanno cacciato questa piccola camera ma… ora mi
sembra una cella di
prigione.
Sembra quasi che mi manchi il fiato,
devo dire.
No, non posso stare qui.
Devo uscire.
Almeno un attimo, ma devo uscire.
Mi infilo le ciabatte e la vestaglia
e, quasi senza
pensare, prendo le chiavi ed esco dalla stanza, nel corridoio semi buio.
Ma… dove sto andando?
Faccio qualche passo e poi mi blocco
vicino all’ascensore,
notando che appeso al muro in fondo al corridoio
c’è un cartello che con una
freccia dice “Alle terrazze”.
Sì.
E’ lì che
andrò.
Se avessi la bici andrei a farmi un
giro per Londra, ma
dubito che qui all’hotel riescano a trovarmi una
‘due ruote-come-la-voglio-io’
alle due di notte.
Sì, è vero che
sono un iperattivo e la sindrome ADHD la
dovrebbero diagnosticare a me e non ai ragazzini, ma… ho
sempre un sacco di
cose da fare che davvero non mi posso fermare e devo farle io e nessun
altro.
Però di notte, per non
diventare ancora più magro di quel
che sono, magari dovrei dormire, no? Non dico dodici ore, ma almeno
cinque o
sei, no?
E invece perché stanotte
sono così sveglio, visto che nemmeno
bevo caffè e le tazze di Starbucks sono
esclusività di mio fratello?
Seduto sul bordo del letto, mi passo le
mani tra i capelli e
socchiudo gli occhi per un attimo: e se andassi a vedere come sta
Shannon, a proposito?
Tanto le sue chiavi le ho portate via io, come faccio sempre. Ma
sì,
un’occhiata per sincerarmi delle sue condizioni non mi
può fare male e magari
questi pochi passi che separano le nostre stanze mi rilassano e poi mi
addormento.
Esco silenziosamente nella penombra del
corridoio e mi
avvicino alla porta della camera di Shannon. Un pesante russare che
sento fino
a fuori mi conferma che mio fratello è perfettamente
abbracciato a Morfeo, al
sicuro tra le sue braccia, nel mondo dei suoi sogni batteristici e non
è il
caso di disturbarlo.
Faccio per tornare in camera mia ma ad
un tratto vicino
all’ascensore, in fondo al corridoio, intravedo
un’ombra.
Aguzzo la vista: sembra una ragazza,
che si ferma un secondo
e poi si avvia, in vestaglia a fiori bianchi e neri, verso le terrazze.
Il mio secondo nome non è
Joseph come molti credono, ma
‘Curiosità’: in un momento decido che la
seguo.
Una decina di gradini e poi una porta
di ferro.
Qualche passo e poi finalmente sono
fuori, oltre quella
porta. Il buio è completo e sono costretta a procedere
lentamente, al riverbero
delle luci di Londra, di qualche lampada al neon del terrazzo e con un
leggero
vento primaverile che soffia, leggero e birichino.
Mi guardo attorno e realizzo che la
terrazza probabilmente
viene usata anche per le colazioni del mattino, quando è
estate e fa bel tempo,
vista la fila di tavolini e sedie che la percorrono.
Vasi con rampicanti ancora spogli
fanno da contorno al
tutto e producono una specie di pergola sopra i tavolini, davanti ad
una porta
a vetri che dà su un piccolo bar.
Mi siedo lì? No, troppo
scomodi, le sedie sono di metallo
e mi ammaccherei il deretano in due secondi, senza cuscino.
Vado ancora avanti e noto che al di
là di tutti i
tavolini, alla fine del terrazzo, c’è una specie
di belvedere: una ringhiera
che fa angolo dà sul paesaggio londinese e un dondolo
piuttosto grande, di tek
e con cuscini e copertura bianca, occupa quasi tutto lo spiazzo e
sembra quasi
prendere il volo al vento della notte.
Oh, sì.
Bello, mi piace assai.
Posto ideale! Sedersi lì,
lasciarsi dondolare
languidamente, godere dell’aria fresca e del landscape di
Londra…
Bello…
Due passi e sono davanti al dondolo,
ma prima di sedermi,
mi affaccio alla ringhiera a guardare giù, appoggiandomi su
di essa. Non soffro
di vertigini, per fortuna, e mi metto ad ammirare il panorama con
curiosità: da
qui si vede anche il Big Ben, ora.
Mi sporgo ulteriormente: nessun
passante per la via
sottostante. Sospiro. Alla fine, nonostante il mio lavoro, credo che la
solitudine mi si addica meglio di ogni altra cosa.
Sono scalzo e i miei passi sono
ovattati come quelli dei
gatti. Lentamente salgo le scale, apro la porta con cautela e mi
affaccio sul
terrazzo.
Cerco subito con gli occhi colei che ho
visto oltrepassare
la porta di ferro in un turbinio di vestaglia di seta e che sono
curioso di
sapere chi è e perché se ne va in giro a
quest’ora di notte, prerogativa che
credevo di avere solo e soltanto io in tutta Londra, stanotte.
La vedo che attraversa la grande
terrazza dandomi le spalle,
passando leggera come un fantasma tra i tavolini di ferro bianchi, alla
luce
fioca delle lampade al neon, mentre io mi nascondo vicino ad un
rampicante, ad
osservarla dall’ombra.
Capelli lunghi fino a metà
schiena e biondi, leggermente
ondulati e decisamente spettinati.
Una corporatura atletica e magra.
Due gambe perfette che escono dalla
vestaglia corta sopra il
ginocchio.
Improvvisamente la ragazza si gira a
guardarsi intorno e il
mio cuore dà un balzo.
Lineamenti non del tutto regolari,
occhi azzurri e labbra
turgide.
Cameron?
La paranoia mi colpisce in pieno: la
vedo avvicinarsi prima
e affacciarsi poi alla ringhiera e un moto di paura mi prende.
Si vuole buttare giù,
sicuramente!
E’ una suicida!
Velocemente mi avvicino, correndo tra i
tavolini, rischiando
di inciampare: “No, Cameron, nooo!”, urlo.
Lei non fa in tempo a girarsi che
l’ho già afferrata per la
vita, quasi alzata di peso e buttata sul dondolo.
“ARRRRGGHHHH!!!”
Lancio un urlo spaventato!
Un maniaco! Noooooo!
Un uomo mi ha preso per la vita e
buttata sul dondolo, e
ora, con un ginocchio tra le mie gambe, mi tiene giù sui
cuscini premendomi per
le spalle.
Comincio a divincolarmi e ad urlare,
ma lui mi mette una
mano sulla bocca. “Zitta, zitta!”
Cristo Santo e come faccio a non
urlare? E’ anche mezzo
nudo, ha la barba sfatta, i capelli spettinati, gli occhi spalancati,
l’aria
decisa! Lezione di autodifesa numero uno: alzo un ginocchio e lo
colpisco in
mezzo alle gambe.
L’uomo con un lamento mi
molla e si accascia per terra.
Ne approfitto per alzarmi, recuperare
le ciabatte e
cominciare a correre verso la porta.
“No, aspetta,
aspetta… non voglio farti nulla… non volevo
spaventarti, aspetta…”, e la sua voce arrocchita
dal dolore ha un che di
sincero, non so cosa. Mi blocco nei pressi della porta e mi giro con
circospezione.
Ritorno lentamente verso il dondolo,
guardandolo con
curiosità: l’uomo ora si è seduto sopra
e si tiene il davanti dei pantaloni del
pigiama scuri, è senza fiato e non sembra affatto il
violentatore delle
terrazze.
Non appena sono a qualche passo da
lui, mi guarda con i
suoi occhi chiari e mi dice, con convinzione: “Ti…
ti volevi suicidare, vero?”
Quasi mi metterei a ridere, se non
vedessi che sembra
veramente preoccupato per la mia salute mentale:
“Ma… no, no. St-stavo
guardando di sotto… i passanti… il
paesaggio…”
Lui alza una mano e se
l’appoggia sul petto nudo, ben
disegnato e moderatamente muscoloso, come a voler fermare il cuore:
“Cazzo… che
spavento che ho preso!”
Beh, pure io ho i battiti accelerati.
“Sì, anch’io…”
L’uomo scuote la testa,
spostandosi dalla fronte i capelli
umidi, assurdamente tagliati alla mohicana: “Scusami, non
volevo farti paura… è
che… io credevo che…”
Sembra quasi imbarazzato.
Probabilmente mi deve aver
scambiata per qualcuno a cui tiene particolarmente, altrimenti non mi
si
sarebbe avventato addosso a quel modo: “No-no…
sì-sì… ho capito, non fa
niente…”. Mi sistemo la vestaglia mezza sfilata e
poi mi metto a sedere sul
dondolo vicino a lui, visto che adesso mi accorgo di avere pure le
gambe che mi
tremano. Mi passo una mano sui capelli, mentre guardo il paesaggio
davanti a
me: “Io… non riuscivo a dormire e…
beh… sono salita qui sopra per vedere se mi
veniva sonno…”
L’uomo sorride e, quando mi
giro a guardarlo, quel
sorriso, quella fila di perfetti denti bianchissimi, per un momento mi
ricorda
qualcuno: “Insonnia anche per te?”
Sbuffo: “Eh,
già. Troppa adrenalina che corre per le vene,
credo… non trovo pace da nessuna parte. Anche tu?”
“Sì, temo di
sì.” Poi allunga una mano. “Jared. E tu
sei…”
“Rita.”
“Piacere.”
Rita.
Grazie a Dio.
E non Cameron.
Anzi, con Cameron non ha niente a che
fare, né con il nome,
né con il resto. Sì, forse può
ricordarla per qualche cosa, quelle cose che mi
hanno fatto sobbalzare prima, uno scherzo delle luci del terrazzo, ma
poi, no…
niente a che vedere, completamente diversa.
Ossatura sottile e portamento altero,
molta grazia nei
movimenti, occhi azzurri enormi, ciglia e sopracciglia scure, sorriso
sincero.
Meno male.
“La tua adrenalina
è dovuta a…?”, le chiedo, visto che
ormai
è notte fonda, non ho niente da fare e siamo entrambi
insonni, tanto vale far
conversazione.
“Un nuovo lavoro qui a
Londra.”
“Che lavoro?”
“Una cosa sognata fin da
bambina: prima ballerina alla Opera
House. Sono… una ballerina classica.”
Beh, in effetti ora capisco la sua
magrezza e il suo
portamento: “Accidenti! Congratulazioni! E’ una
cosa eccezionale.”
“Grazie, sì.
E… la tua, di adrenalina?”
“Una cover cantata dal vivo
riuscita particolarmente bene.
Sono… un cantante.”
La ragazza mi guarda ad occhi
spalancati, come se mi avesse
già visto da qualche parte. “Ehm…
cantante?” E’ dubbiosa, non capisco
perché:
“Sei sicuro? Cioè, certo… se lo dici tu
ci credo, ma… mi par di averti visto da
qualche altra parte, ma non ricordo dove…”
Ecco, ci risiamo.
Adesso mi dirà anche questa
che sono Efestione. Far quella
parte ha segnato la mia carriera e la mia vita per sempre. Per certe
persone
sarò sempre e solo Efestione, accidenti. Non che non ne sia
orgoglioso… è che…
beh è come aver lavorato alla CIA, ‘una volta dei
nostri, per sempre dei
nostri’! Svio il discorso: “Non segui la musica
moderna tu?”
“Poco, a dire il
vero.”
“30
Seconds to Mars?”
“Uhm…
no, mai sentiti.”
“The
Kill? From
Yesterday? Kings And Queens? Closer
to the
edge?”
Rita scuote ancora la testa, i capelli
che le danzano
attorno al viso, gli occhi quasi addolorati: “No, mi
dispiace. Non ho mai
sentito queste canzoni. Scusa…”
Sì, il mio ego potrebbe
anche rimanerne offeso e mettere il
muso, a dire il vero, ma faccio il superiore: “Dai, non fa
nulla…”
Ma lei si mette a guardarmi, con occhio
indagatore, le
sopracciglia piegate, come se dentro la sua testa stesse sfogliando un
archivio:
“Uhmmm… Però tu…”
Niente, non si arrende. Ok. Mi arrendo
io, ogni tanto
capita: “Faccio anche l’attore.”, concedo.
Gli occhi le si illuminano:
“Ah, ecco!”
Ma certo! Ora ricordo tutto! Sparo il
titolo, puntandogli
il dito addosso: “Sì, sì!
‘Sunset Strip’, sicuramente!”
Jared spalanca gli occhi e si mette a
ridere di gusto: “Ma
come? Di tutti i miei film ti ricordi solo uno dei meno
famosi?” La sua risata
è bellissima e gli occhi gli si illuminano mentre mi dice:
“Beh… in effetti i
pantaloni attillati di serpente non passavano
indifferenti…”
Serpente? Ma che schifo! Trattengo un
borbottio di
ribrezzo: “Ehm… l’ho guardato solo
perché c’è Simon Baker,
veramente… io… beh…
adoro quell’uomo…”, concludo
velocemente, per non dire che ne sono cotta come
una pera da tempo immemore, visto che adoro gli uomini biondi con gli
occhi
azzurri.
Jared allora si piega quasi su se
stesso dal ridere: “Ne
ho fatti anche altri, di film, eh…”
Ah sì? Davvero? Da non
credere… “Non sono proprio una
cinefila, a dire il vero… Passo la vita alla
sbarra… Sono
anni che non vado al cinema…”
“Tranquilla, nemmeno io
credo di aver mai visto il ‘Lago
dei Cigni’… e passo la vita sul set o nello studio
di registrazione.”
Mi metto a ridere: “Bene,
ora che nessuno di noi sa nulla
del lavoro dell’altro, di che parliamo?”
Jared mi lancia una strana occhiata,
mentre si stiracchia
come un gatto e mi concede la vista del suo corpo: senza volerlo i miei
occhi
scivolano lungo il suo petto glabro, sui muscoli della muscolatura del
ventre,
giù, verso il bordo dei pantaloni, sul rigonfiamento nella
patta, giù, lungo le
sue gambe, fino ai piedi ben disegnati che spuntano dalla seta
nera…
Beh, io sono abituata a uomini
muscolosi in calzamaglia e
con il pacco in vista che mi sgambettano attorno,
però… accidenti… da dove è
saltato fuori uno così?
Con quel viso così dolce e
intenso, quegli occhi così
maliziosi e limpidi nello stesso tempo.
E io non sono una suora, mai stata.
Meglio se sto attenta. Deglutisco
quasi imbarazzata e gli
tolgo gli occhi di dosso, mentre tiro su le gambe e le avvolgo nella
mia
vestaglia, appoggiandomi meglio ai cuscini, come se volessi
mimetizzarmi.
E allora Jared pianta un piede per
terra e comincia a far
muovere il dondolo, lentamente. “Ti
canto una ninna-nanna?”, chiede, mentre si sdraia anche lui
di più tra i
cuscini. Ma improvvisamente la sua espressione è cambiata e
anche il tono della
sua voce.
“No. Ti ballo qualche cosa
sulle punte?”, lo sfido.
Lui scuote la testa:
“No.”
Scappo, è meglio.
“Bene. Buonanotte.” Mi alzo per
andarmene ma lui si mette a sedere di scatto e mi tira la cintura della
vestaglia.
“No…
dai… stai qui…”
Mi giro e lo fisso, con un mezzo
sorriso: “Hai l’occhio
troppo da furbetto, tu… e io non voglio complicazioni, non
ora per lo meno…”
Il suo sogghigno è tutto
un programma: “Senti… e se
stanotte… beh… facessimo qualcosa di
insolito?”
L’immagine di noi che
facciamo sesso sul dondolo mi appare
all’improvviso in testa: “D-del tipo?”
Jared si sdraia di nuovo e mette le
braccia dietro la
testa, dichiarando: “Niente sesso, per esempio. Tu quando
l’hai fatto l’ultima
volta?”
Sono una santa, io.
“Uhm… Oggi pomeriggio.” Jared si mette
a ridere. “Beh… ho rivisto un mio ex qui a Londra
e… vabbé… non si andava
d’accordo su nulla ma sul sesso sì, per
cui… E tu?”
“Oggi pomeriggio, nel
camerino della BBC, con… uhm… non
importa con chi…” E’ un santo anche lui,
a quanto pare.
Mi risiedo sul dondolo,
più tranquilla. “Ok. Niente sesso.
E allora, che si fa?”
“Parliamo.”
“Di cosa?”
“Perché non
dormi?”
Spalanco gli occhi, stupefatta.
Grazie della domanda, Jared.
Davvero.
“Troppa adrenalina, te
l’ho detto.”, mi risponde Rita, ma
troppo velocemente perché non sia una bugia colossale, di
quelle impossibili da
non scoprire.
Scuoto la testa. Non me la dai a bere.
“No, non è vero.”
“E allora cosa ho, secondo
te?”
“Qualcosa ti rode…
E non fai che pensarci e non trovi una
soluzione e quindi non dormi…”
La ragazza sospira e si guarda le mani,
abbassando
leggermente il capo. “Sì, è
vero.”
Ho capito tutto. Perché, in
fondo, io so tutto. “Chi era,
lui?”
Rita si appoggia sullo schienale e
sospira nuovamente,
appoggia la testa sui cuscini e guarda il cielo nero, lo spicchio di
luna in
quella notte di primavera inoltrata. Poi, sottovoce, inizia a parlare:
“Lui era
Fabio. Fabio.” E detto da lei sembra il
nome più bello del mondo. “Ma il suo
unico amore era l’acceleratore di
particelle del CERN, non ero io. La Fisica era la sua religione, Enrico
Fermi
era il suo idolo, il bosone di Higgs era il suo ideale di ricerca e io
non ero
niente. Non esistevo. Non mi vedeva nemmeno. E io non sono mai stata in
grado
di dirgli cosa provavo per lui, neanche quella volta che siamo stati
chiusi in
biblioteca da soli un pomeriggio intero.” Rita si morde un
attimo il labbro
inferiore. “Però lui è stato il mio
unico amore. Come mi batteva il cuore
quando lo vedevo, con nessuno mai. Come sentivo in petto un amore caldo
e sconfinato
per lui, una tenerezza infinita, mai più. Come lo
desideravo, non mi è più
successo con nessun uomo.” Poi si gira a guardarmi, per un
attimo, abbassando
gli occhi. “Scusa. Sono una stupida romantica.”
Le appoggio una mano sulla spalla,
colpito: “No, no… per gli
uomini non è poi diverso… magari loro…
noi… la mettiamo più sul possesso che
non sul sentimento ma… è lo stesso. Quello che
proviamo è lo stesso.”
Rita annuisce, poi si gira verso di me,
gli occhi spenti:
“Non riesco a pensare che non possa essere nella mia vita. Ci
sto ancora male.
Da oltre dieci anni. E non mi do pace. Non ci riesco. E vorrei andare
da lui,
ma ho paura che mi rifiuti e poi… non voglio mendicare il
suo amore. Non è
giusto… Non si può…”
Dopo un attimo, inaspettatamente, si
avvicina, si appoggia
contro di me e io le passo un braccio attorno alle spalle, stringendo.
Non avrei mai e poi mai pensato di
trovarmi in una
situazione del genere, stanotte, ma si sa, niente nella vita avviene
per caso,
sicuramente nemmeno questo incontro.
Dopo un po’ e qualche altro
sospiro, mi dice: “E lei? Chi
era, lei?”
E’ difficile ed è
tanto che non ne parlo, ma ora devo.
Questa notte devo farlo.
DEVO.
Prendo fiato. “Lei era
Cameron. Un’attrice. Siamo stati
insieme quattro anni. E più volte, fin dal primo momento che
l’ho vista, ho
pensato che lei fosse il mio destino. Era simpatica, intelligente, di
carattere. Io la adoravo. Ma… un giorno le cose sono
cambiate. NOI siamo
cambiati, senza quasi rendercene conto. Lei era troppo impegnata con il
cinema e
io con la musica, con il mio gruppo. Avevamo ottenuto il contratto per
il
nostro primo CD e io passavo le giornate in sala di registrazione con
mio
fratello.” Ricordo ancora con piacere quel periodo, il nostro
progetto
inseguito da una vita che si concretizzava, la felicità e la
volontà di fare
del nostro meglio. Riprendo a parlare, lentamente: “Non avevo
smesso di volerle
bene, ma il tempo è quel che è, non si dilata.
Eravamo sempre riusciti a
conciliare i nostri impegni ma in quel periodo no, non ci riuscivamo. O
forse,
inconsciamente, non volevamo. Lei passava le giornate sul set e non ci
vedevamo
mai. E quando succedeva, io dicevo sempre qualcosa di sbagliato, lei
faceva il
processo alle mie intenzioni, io mi arrabbiavo, lei pure, alla fine
litigavamo e
io andavo a dormire da mio fratello. Ad un certo punto non abbiamo
potuto più
stare insieme e ci siamo lasciati. Abbiamo lasciato andare il nostro
amore. E
poi… beh… non ho nessuna scusa, nessun alibi.
Avrei dovuto far di tutto per non
lasciarla andare via, no? E non l’ho fatto. Non
l’ho fatto, capito? E noi,
tutto quello che eravamo, siamo svaniti… alla
velocità della luce… svaniti…
come se non ci fossimo mai stati…” Mi fermo e
sospiro, non avevo mai parlato
così tanto di Cameron, con nessuno. E allora tanto vale
finire. Svuotare il
sacco, come ha fatto Rita, stringerla forte a me e finire, sicuro che
lei mi
capisca: “Ma… io un’altra come Cameron
non l’ho più trovata: il suo sorriso e
la luce nei suoi occhi non li ho più visti in nessuna donna.
E l’ho amata così
tanto che penso di aver esaurito il mio amore in quel momento e non
potrò più
amare nessuna donna.”
Non so più che dire.
Ma è questo che mi rode e
che mi impedisce di dormire.
Da anni.
Da quel giorno in cui lei se
n’è andata, senza dire nulla, senza
darmi spiegazioni, per poi evitarmi ogni volta che tentavo di
incontrarla.
Lasciandomi dentro un vuoto immenso, un buco nero nel cuore, come non
avrei mai
creduto, come tento di esorcizzare scrivendo le parole delle mie
canzoni.
Rita sospira, mentre mi accorgo che mi
ha preso la mano del
braccio che le tengo sulla spalla e la stringe: “Tu... tu ci
credi alla storia
della mezza mela? Nelle due creature fatte per stare insieme per
sempre?”
Non ci ho mai pensato a dire il vero.
“Potrei dire sì o
anche no. Per cui
dico ‘non so’…”
“E se fosse vero? Che di
amore ce n’è uno e tutti gli altri
sono ripieghi? E per tutta la vita non ne troverai un altro, una volta
perso…”
E’ un bel dilemma:
“E se invece ci fossero altri amori?”
No, non può essere.
“No. Le mezze mele sono due. Puoi
tentare di incollarti ad una mezza patata, ma non è lo
stesso. Non viene fuori
una mela, ma una specie di Frankestein…”
Non so come mi sia venuta, ma Jared
si mette a ridere di
gusto. E la tensione derivata dai nostri racconti si stempera. Mi metto
a
sedere ridendo pure io, staccandomi da lui e lasciandogli la mano.
Nessuno sa
com’è, in realtà, se le mezze mele sono
più di due (alla faccia della
matematica) o se la combinazione mezza mela+mezza patata
può, in certi casi,
funzionare ugualmente e durare tutta la vita. “Lascia
perdere, sono le
sciocchezze che mi escono dovute
all’insonnia…”, affermo convinta,
girandomi a
guardarlo.
Ma, improvvisamente, Jared si gira,
si allunga sul dondolo
e appoggia il capo sul mio grembo. Resto un attimo stupefatta: questa
cosa è
strana, ma non mi dispiace…
Lascio fare e inizio io a dondolare
l’altalena.
E lui mi guarda fisso, con quei suoi
occhi che ora mi
appaiono perfettamente rotondi, e lo guardo in viso pure io, sorridendo.
Povero Jared.
Povero.
Così attraente e
così solo.
Con la coda di donne alla porta e in
preda all’insonnia
per un amore sparito dalla sua vita.
Così preso ancora dalla
sua Cameron, da avermi scambiata
per lei, visti i miei capelli biondi, i miei lineamenti e il mio fisico.
Poi, senza pensarci, in automatico,
gli sposto i capelli
dalla fronte e gli accarezzo il viso, senza dire nulla, incantata da
quei
lineamenti perfetti e da quello sguardo, da quelle labbra sottili e
socchiuse,
dalla linea senza difetti delle sopracciglia.
E lui sospira e chiude gli occhi, un
leggero sorriso.
Ma dopo un momento, quando non me la
aspetto, Jared mi
attira giù e mi bacia.
E lascio fare anche quello.
Lascio che il calore della sua bocca
passi sulla mia,
chiudo gli occhi, mi lascio andare, assaggio il suo sapore, la sua
barba sfatta
che mi solletica il viso.
E in quel bacio non
c’è sesso e non c’è amore e
io sono
perplessa: “Perché? Perché, questo
bacio?”, chiedo, quando ci stacchiamo.
Lui sorride, con un sorriso
così dolce che potrei
sciogliermi: “E’… è un bacio
portafortuna. Tra due esseri umani, sfortunati in
amore…”
“Tu lo
troverai.”, dico ad un tratto, senza pensarci. “Il
tuo amore, lo troverai. Quella della mezza mela è una
cazzata. Tu… hai smesso
di cercarlo, convinto che non ci sia. E lo stesso vale per me. Siamo
ossessionati da una cosa passata ma…
c’è, Jared. C’é. Sono
convinta.”
“Sicura?”
Non so perché, ma so che
è così, improvvisamente ho avuto
un’illuminazione: “Sì… io lo
troverò tra chi mi manda le rose dopo i balletti e
tu… tu tra le tue fans, magari. Ne hai?”
Jared si mette a ridere:
“Sì, qualcuna…”
“Le incontri
spesso?”
Lui annuisce, convinto:
“Sì, sempre… e mi fanno regali di
tutti i tipi. Una ragazza una volta mi ha portato anche una torta
gigantesca.
Buonissima.”
“Al cioccolato?”
“Sì.”
“E’
quella.”
“Dici?”
“Sì,
è lei.”
Lui sorride: “La prossima
volta la fermo.”
Gli accarezzo la fronte per
l’ennesima volta: “Sì, sì,
prova… fermala. E amala.”
“Giuro, lo
faccio…”
Poi Jared sbadiglia, ormai totalmente
rilassato, e
ricambiando una carezza su una guancia e rialzandosi, mi dice:
“Allungati,
sdraiati, dai…”
Ci sdraiamo abbracciati
sull’altalena, il lieve rumore
delle foglie che si muovono al vento e il dondolio che ci coccolano. Ad
un
tratto sento che Jared rabbrividisce e si stringe di più, il
suo profumo tanto
forte, allora apro la vestaglia e copro il suo petto nudo.
E lui mi bacia sulla fronte:
“Grazie, Rita. E… l’ultimo
che domani si sveglia, paga pegno. OK?”
Mi metto a ridere: “Che
genere di pegno?”
“Ce lo scriviamo su un
foglietto e chi se ne va lo lascia
all’altro, va bene?”
Mi stringo di più a lui e
mentre sento che gli occhi mi si
chiudono, sussurro: “Sì…
Jared…”
“JAREEEEEDDD?”
Glielo grido in un orecchio scuotendolo forte perché mio fratello non dorme quasi mai, ma quando lo fa, praticamente va in coma!
Si sveglia di soprassalto, mentre troneggio su di lui, già vestito di tutto punto e completo con i miei immancabili occhiali da sole, nonostante il sole a Londra sia pallido e velato, quel mattino.
Si guarda un attimo intorno e solo allora probabilmente realizza che é sdraiato sul dondolo del terrazzo dell’albergo, che é ancora in pigiama e che ha dormito lì.
Probabilmente anche benissimo.
Filippico immediatamente: “Stavo andando a Scotland Yard per denunciare la tua scomparsa, quando in corridoio una cameriera in escandescenze mi ha urlato in un orecchio di aver visto Efestione addormentato sul terrazzo.”
Mio fratello sogghigna divertito, mentre si mette a sedere, stiracchiandosi. “Ah, sì?”
“Sì. Che cazzo ci fai qui? Sonnambulismo? Hai camminato sul cornicione?”
Sbadiglia di gusto: “No. Insonnia.”
“Ancora? Ti devi far curare, fratellino… oppure, se vuoi scordare qualcunA… ti devi dare pesantemente all’alcool, come faccio io…”. Liberamente tratto dal libro ‘Ricette di Shannon per dimenticare una donna tanto amata e persa’, capitolo uno (e unico).
“No, grazie. Preferisco l’insonnia ad un fegato spappolato…”.
Mentre cerco una risposta, Jared si alza stiracchiandosi di nuovo e una cosa gli cade di dosso. Mi ci avvento subito e la raccolgo, perplesso: “Una salvietta di carta? Che hai fatto, stanotte? Un picnic?”
Jared me la toglie di mano e la spiega, perchè ha capito subito che è piegata a mo’ di biglietto.
E scritta.
Si mette a leggere e poi si avvia verso la porta del terrazzo, ridendo a crepapelle, mentre me la porge.
Leggo con curiosità: “Hai perso la scommessa e il tuo pegno é: devi farti la mohawk fucsia e gialla! :-P”
Mi batto una mano sulla fronte, affranto: oh no!
Morirò presto se devo assistere ad un nuovo taglio di capelli di Jared!
“JARED, NON OSAREEEEEEEE!! QUESTA NON TE LA PERDONO, JARRRREEEEEEDDDD!!!!”
Ma lui è già sparito.
FINE