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Autore: samy88    10/09/2010    63 recensioni
[SEMI-RACCOLTA COLLEGATA ALLA STORIA "AAA CERCASI FIDANZATO MOMENTANEO"]
MISSING MOMENTS RACCONTATI DA EDWARD. 
 
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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E1
SEMI-RACCOLTA COLLEGATA A “AAA CERCASI FIDANZATO MOMENTANEO
 
HOLA!!!
SI’, SONO SEMPRE IO.
SONO TORNATAAAAAA!!!!
QUESTA E’ UNA SEMI-RACCOLTA NELLA QUALE VI SARANNO I CAPITOLI CON “POV EDWARD”.
QUINDI… NON E’ UNA NUOVA STORIA; potrebbe essere letta anche come tale ma i capitoli riprendono solo alcune parti importanti che riguarderanno specialmente il passato (come si sono conosciuti, dove e cosa è successo tra loro).
 
Non mi resta che augurarvi buona lettura.
Grazie, grazie e grazie. Per tutto.
Vs Sam
 
 




1.  TEORIE E NUOVE CONOSCENZE







AGOSTO 2008
 
EDWARD

 
Il termine teoria indica un insieme di ipotesi volte a spiegare un determinato fenomeno o, nella più semplice delle definizioni, un determinato modo di pensare.
Il cervello umano è un sorta di macchina che formula costantemente pensieri e, di conseguenza, altrettante teorie.
Anch’io, Edward Cullen, ne ho qualcuna.
 
Credo che l’assioma della vita sia l’imprevedibilità.
Infatti, sono sempre stato fermamente convinto che è incredibilmente sciocco programmare qualcosa. I piani, per la stragrande maggioranza delle volte - perfino quelli ben congeniati –  a causa di ostacoli, imprevisti e problemi dai generi più svariati, hanno sempre dei risultati piuttosto distorti dall’idea originaria: vanno letteralmente  in fumo o, se la fortuna gira nel verso giusto, non vanno esattamente come previsto. Anzi, alle volte accade proprio il contrario. Ma è ancora più sciocco programmarli e sperare in quello. Perché, anche in tal caso esso sarebbe un piano, il programma di un programma dalla dubbia riuscita.
È strano notare quante concezioni umane ci siano riguardo agli eventi: alcune persone sostengono che centri il fato, altre il caso, altre ancora il destino.
Tutti termini maschili che, a mio modestissimo parere, dovrebbero quantomeno, velatamente, presagire l’ovvio:  se c’è una femmina di mezzo le cose cambiano.
In meglio? In peggio?
Forse a seconda della giornata.
 
§
 
Non ero mai stato fondamentalmente pessimista. Oh, ma nemmeno così ottimista da credere che la vita fosse tutta rose e fiori.
Perché, ahimè, in quel caso, avrei davvero dovuto compatire quelle povere persone affette di allergia ai pollini. E da medico sapevo a cosa sarebbero dovute andare incontro: ininterrotte riniti, congiuntiviti e chi ne ha più ne metta. Altro che bella vita, una vera schifezza.
Quindi, la mia visione della vita non era né totalmente bianca o nera né così ricca di colori: aveva delle semplici sfumature. Ma, come ogni essere umano, avevo dei normalissimi preconcetti. Come ad esempio, quello sullo sviluppo di un’intera giornata.   
Avevo sempre pensato che l’inizio e la fine della giornata stessa fossero tra loro antitetici. L’uno positivo, l’altro negativo. E viceversa. Perlomeno se iniziava male si poteva ben sperare nel finale.
Quella giornata, infatti, non era iniziata proprio nel migliore dei modi.
La mia sveglia stranamente non aveva suonato. Ero arrivato in ritardo a lavoro mancando la prima e indispensabile dose quotidiana di caffeina. Avevo ripreso conoscenza e concentrazione solo dopo tre caffè amari al distributore dell’ospedale, una sostanza liquida e scura dallo strano sapore. Nulla a che vedere con l’espresso della mia moka. Il caffè mi piaceva all’italiana: stretto e denso. In quello ero particolarmente bravo.
In mattinata poi, Marcus Volturi, il direttore dell’ospedale, aveva annullato e rimandato due mie operazioni per l’inagibilità di tre sale operatorie a causa di un malfunzionamento dei condotti di areazione. Fortunatamente non erano operazioni urgenti ma l’amarezza non era comunque mancata. Un chirurgo, dopo il suo consueto giro di visite e controlli, se non opera chirurgicamente, a mio parere, è praticamente inutile.
Ma la mia giornata lavorativa al Providence Hospital non era ancora conclusa: la torta reclamava di diritto la sua ciliegina. Aspettavo alcuni referti medici da una dottoressa di neonatologia quando una signora sulla sessantina era entrata improvvisamente nel mio studio sbottonandosi in un solo colpo la camicetta – bottoni a clip! – mettendo in mostra il proprio seno nudo e supplicandomi, senza neanche darmi il tempo di intendere, di tonificarglielo come quello di una ventenne. Mi avevo scambiato per un chirurgo plastico (o per uno psicologo, a seconda dei punti di vista). Mi ero alzato, avevo cercato in qualche modo di farle riabbottonare la camicetta e di farle capire che, sì, ero un chirurgo ma lungi da quello di cui lei aveva bisogno. Proprio in quell’istante, con me di fronte alla signora dal seno al vento, era entrata la dottoressa Weber senza bussare – come io le avevo detto di fare - con i raggi tra le mani.
Una vera e propria situazione spinosa peggio di tremila aghi conficcati nei glutei. La dottoressa aveva naturalmente frainteso. Come me ne ero reso conto? Semplice: aveva sbarrato gli occhi, si era coperta la bocca spalancata con una mano, aveva lasciato i referti sul pavimento ed era scappata a gambe levate senza neppure darmi il tempo di spiegare. Non avuto né modo né tempo per chiarirmi perché i nostri turni erano terminati e, sinceramente, non vedevo l’ora di tornare a casa.
Tuttavia, una volta uscito dall’ospedale, la mia amatissima Mercedes aveva deciso che dovevo perdere altro tempo giusto per diletto, inzuppandomi di pioggia dalle spalle alle caviglie con la testa conficcata nel cofano. Si era ingolfata e il motore aveva ripreso vita solo dopo venti minuti e una manciata di tentativi di accensione.
Oltretutto, nel tragitto verso casa, avevo ricevuto la telefonata di mia sorella Alice, la quale mi aveva gentilmente pregato, come una suocera inviperita, di recarmi in profumeria – nonostante questa distasse poco metri da casa nostra - per ritirarle la soluzione post-ceretta per pelli delicate fortunatamente già prenotata (solo una volta mi aveva chiesto di sceglierle il prodotto: al mio ritorno mi ero dovuto sorbire ben tre ore di predica e inutili chiarimenti in merito, come se me ne importasse qualcosa). Quando poi al telefono aveva pronunciato la parola ‘assorbenti’ avevo direttamente chiuso la comunicazione. Ovviamente la pessima figura non era mancata all’appello: la commessa mi aveva consegnato la soluzione e mi aveva mostrato in seguito vari tipi di assorbenti da scegliere, dato che mia sorella non le aveva specificato quali desiderava acquistare. Quelli, purtroppo, erano eventi piuttosto ricorrenti.
A compere concluse, col numero di telefono della commessa da lei personalmente scritto frettolosamente dietro lo scontrino (non l’avrei comunque chiamata, l’esperienza faceva da monito in quei casi) potevo finalmente tornare a casa e porre fine a quegli strani eventi ma, dulcis in fundo, nel parcheggiare la macchina due isolati lontano dal mio portone, una golf vecchia quanto le fognature di Seattle, mi aveva leggermente tamponato al paraurti, fortunatamente nulla di dannoso alla mia auto.
In sostanza, ognuno poteva andare per la sua strada. Ma la proprietaria del catorcio a quattro ruote, un’anziana signora dalla crocchia bianca e il viso cosparso di rughe, non era del mio stesso avviso:  mi aveva letteralmente sradicato dal sedile e mi aveva poi accarezzato, strapazzato e tastato il viso per un tempo lunghissimo, solo ed esclusivamente per accertasi della mia solute. Da precisare che, quella donna, non l’avevo mai vista prima di allora. Mi aveva lasciato solo dopo che le avevo detto di essere un medico e che, pertanto, sapevo per certo che il tamponamento non mi aveva causato alcun danno fisico.
Quindi, quella giornata piuttosto movimenta era quasi giunta al termine e stando alle mie teorie avrei dovuto concludere la serata nel migliore dei modi (magari con Angelina Jolie vogliosa e trepidante nel mio letto, preferendo me a quel pompato e finto belloccio di Pitt).
Ebbene, qualcosa mi fece ben sperare che le teorie non fossero del tutto infondate quando, una volta entrato nel portone del mio palazzo, notai una figura femminile dal fisico sinuoso e slanciato che mi dava le spalle.
Emmett, un mio carissimo amico d’infanzia dalle innumerevoli teorie solo ed esclusivamente sulle donne, aveva sempre sostenuto che il fondoschiena di una donna la diceva più lunga di un albero genealogico e una cartella clinica insieme.
Il culo è lo specchio dell’anima, caro Edward, recitava con tono solenne ogni qualvolta notava una bella femmina. Aveva, a modo suo ovviamente, rimpiazzato gli occhi.
Quel fondoschiena, sfacciatamente posto davanti ai miei occhi, sfiorato da lunghi capelli castani e fasciato da dei semplicissimi pantaloni ginnici (un cliché di sensualità) che aderivano perfettamente a quelle dolci e morbidi curve, appariva molto più che eloquente. La misteriosa ragazza in questione traballava da un lato all’altro sorreggendo alcuni scatoloni che le oltrepassavano addirittura la testa.
Come diamine faceva a vedere oltre? Non rischiava di cadere in quel modo?
Presto, detto! Posizionò malamente un piede e si sbilanciò all’indietro. Riuscii ad avvicinarmi ed afferrarla prima che potesse finire sul pavimento, sorte che non potei evitare agli scatoloni che finirono sulla superficie lucida. Come saggiamente avrebbe detto Emmett, una vera botta di… fortuna (parola diversa, stesso significato). Avevo appena salvato una donzella in pericolo.
«Merda!»
Sorrisi. Una donzella dal linguaggio piuttosto colorito e forbito. Aveva gli occhi chiusi, serrati forse in attesa ancora dell’impatto col pavimento. Il viso era a forma di cuore, le guance leggermente colorite di rosa e due labbra soffici solo alla vista così come le sue curve premute sulle mie mani e sulle mie braccia.
Forse il destino in qualche modo centrava. Se non avessi avuto alcun imprevisto quasi certamente non mi sarei ritrovato quella ragazza tra le braccia che non accennava minimamente ad allontanarsi. Non che la cosa mi dispiacesse. Il profumo di fragola che i suoi capelli sprigionavano era buonissimo.
«Tutto bene?» Le domandai più per educazione che per altro.
Solo allora si accorse della mia presenza. Sbarrò gli occhi sfoggiando due iridi scure come il cioccolato fuso.
«Santo Cielo!» Sobbalzò spaventata e presto si allontanò portando entrambe le mani alla bocca. «Ti sono venuta addosso, vero? Scusami. Scusami davvero.  Non volevo.»
Le sorrisi. «Oh, ma non mi sei venuta addosso. Stavi cadendo e ti ho semplicemente presa al volo.»
Sì, Edward, metti in mostra il tuo lato cavalleresco nel caso in cui non l’avesse notato.  
Le sue guance si colorarono di un rosso acceso. Era bella, molto bella.
I miei occhi per un attimo caddero sulla sua pelle incredibilmente lattea sbucata da una maglietta arricciata e aggrovigliata sul davanti. Mio Dio, sembrava più candida e morbida di quella di un neonato. Era invitante. Non fui bravo a nascondere il mio sguardo perché lei se ne accorse e repentinamente tirò il bordo verso il basso coprendosi, anche se non di molto. «Allora… ehm.. grazie.» Si morse velocemente il labbro. «Tu abiti in questo palazzo?»
Assentii solo col capo intento ad osservarla mentre si portava alcune ciocche dietro l’orecchio. Tese una sua mano verso di me. «Io sono Bella, la nuova affittuaria degli Uley.»
La fortuna sembrava finalmente girare nel verso giusto.
Emily Uley, la dolce signora del terzo piano. Quell’appartamento era disabitato da almeno cinque mesi. L’ultima volta la signora Emily aveva bussato alla mia porta porgendomi muffin fumanti appena sfornati in segno di arrivederci. Si trasferiva in una casa di campagna assieme al marito Sam, un signore indiano dallo sguardo piuttosto pungente.
Quindi Bella era la nuova inquilina. Un ottimo scambio, considerai.
Le strinsi quelle piccole e sottili dita che si nascosero come per magia tra le mie. «Io sono Edward.»
«Edward.» Ripeté lei accentuando il sorriso. Il mio nome dalle sue labbra fu peggio di una doccia fredda e quasi mi sentii un perfetto idiota ad accendermi solo per quello. Iniziamo bene.
Indicai con una mano gli scatoloni. «Vuoi una mano?»
«Oh.» Con impaccio si piegò sulle ginocchia e iniziò a impilare i quattro scatoloni ponendone uno sull’altro. «No, ti ringrazio; posso farcela da sola.» Si rialzò con quella torre traballante tra le braccia. Dondolò ancora e si appoggiò stentatamente al muro.
«Sei sicura? Non riuscirai mai a portarli tutti da sola.»
«Sì… ci… riesco. Uso l’ascensore.» Soffiò ogni parola con sforzo.
Mi venne da ridere. Perché la maggior parte delle donne aveva l’attitudine a mostrarsi forti in presenza degli uomini? Indipendenza? Autostima?
Semplice, l’orgoglio è donna.
Sbuffò ancora, e non per noia. Avrebbe dovuto fare almeno due viaggi perché sull’ascensore era affisso un foglio con su scritto GUASTO. Era costretta ad utilizzare le scale.
Alle donne non bisogna mai chiedere: un insegnamento di mamma Esme.  
Mi avvicinai e mettendo le mani ai lati le sfilai tre scatoloni. «È guasto.» le feci notare. « Prometto che le mie intenzioni sono buone. E poi sono comunque di strada.»
Era vero solo in parte perché il mio appartamento era due piani sotto al suo.
Il viso le era diventato ancora più colorito per lo sforzo. Ci pensò su qualche secondo, poi con uno sbuffo accompagnato da un sorriso arrendevole annuì. «Nemmeno ci conosciamo e già ti sto sfruttando.»
 Puoi sfruttarmi in tutti i modi che vuoi. 
«Sai il mio nome… è già qualcosa.»
Avanzò verso le scale.  «Allora credo che dovrò proprio sdebitarmi con te.» mormorò, iniziando a salire i primi due gradini.
Un’idea già ce l’avevo. Una cena, un caffè, un gelato…
A dirla tutta, non avevo mai portate donne in casa mia. Un po’ per privacy per non essere ricercato in caso di un mio allontanamento, in sostanza ciò che accadeva nella maggior parte delle volte,  e un po’ per rispetto nei confronti di mia sorella.
Forse, ad essere sincero, più che di rispetto dovrei parlare di ricatto dichiarato dalla stessa Alice: se avessi portato donne nel nostro appartamento solo ed esclusivamente per uno scopo, a detta sua, di basso livello, lei si sarebbe sentita ovviamente in diritto di fare altrettanto.
No, decisamente non ero pronto a sentire i mugolii di mia sorella. La voglia di scardinare la porta della sua stanza e strappare le palle al malcapitato in sua compagnia, mi allettava più del dovuto. In effetti, ero geloso, giusto un po’.
Tuttavia, in quelle pochissime volte che avevo portato delle donne a casa avevo utilizzato la fantomatica scusa che fosse quella giusta. La piccola peste aveva imparato a quadrare la situazione già da subito, proprio nel momento in cui varcavo la soglia di casa in dolce compagnia, ed era sempre stata capace di farle scappare a gambe levate dopo un arco di tempo che si riduceva di volta in volta (avevamo raggiunto il record di cinque minuti, due adoperati per un schiaffo sulla mia guancia destra).
Alice adottava così tante scuse che, alla fine, ci avevo quasi preso gusto: si fingeva fidanzata (munita di bicchiere colmo d’aranciata da lanciare addosso non solo al sottoscritto), moglie ingravidata e sorella psicopatica o influenzata. Lo schiaffo lo avevo ricevuto con la moglie ingravidata; inconsapevolmente ero uscito con una presidentessa di un gruppo per madri single.
Alice ne sapeva una più del diavolo ma in fondo lo meritavo perché non mi attenevo del tutto ai patti.  
Adesso la situazione però era un po’ diversa. Bella sapeva perfettamente dove abitavo e avrebbe in seguito di sicuro conosciuto mia sorella. Ero un po’ limitato ma almeno la ricompensa, che saliva e incespicava quasi in ogni gradino, sembrava piuttosto gratificante. 
Bella improvvisamente si fermò e mi squadrò con un sopracciglio alzato. «Non posso portare solo uno scatolone.»
Iniziai a salire anch’io sorreggendone tre. «Ce la faccio.» 
In effetti, non erano proprio dei pesi piuma. Sembrava che fossero stati riempiti da mattoni ma non avrei mostrato alcun segno di affaticamento, nemmeno se il suo appartamento fosse stato al decimo piano.
Bella riprese a camminare borbottando qualcosa: afferrai solo ‘uomini’ e ‘orgoglio’.
Ma, poco dopo, un sorriso fiorì su quelle sue labbra piene. Il mio gesto non le era stato indifferente.
Si fermò inaspettatamente al primo piano davanti alla mia porta e lanciò uno sguardo alla targhetta sulla quale Alice aveva fatto incidere accanto al mio cognome una denominazione: Dott. Cullen E.
Fece una smorfia piuttosto buffa: arricciò il naso e storse la bocca. «C’è un dottore nel palazzo?»
«Un neurochirurgo» precisai con una punta orgoglio.
Ripresi a salire lanciando un’ultima occhiata ostinata alla mia porta. «Io odio i dottori.»
Cazzo. Un punto in meno per me.
«Potresti ricrederti.»
«Ne dubito.» puntualizzò muovendo il capo da un lato all’altro facendo così ondeggiare la sua chioma scura.
«Potrei essere l’eccezione che conferma la regola.»
Parlare con lei sembrava naturale, quasi come se ci conoscessi già da tempo. Forse perché appariva spigliata e aperta, non ritrosa e schiva come alcune donne con cui ero uscito.
«Non… » Bella si fermò improvvisamente, rigida come un pezzo di legno. «Merda!» Di nuovo.
Si girò lentamente e mostrò un sorriso colpevole. Anche quel suo tipo di sorriso era bello. «Dottor Cullen E. La E sta per Edward, vero?»
Sghignazzai e confermai. «Dottor Edward Cullen in persona.»
Si morse il labbro. Era in imbarazzo e tremendamente bella. «Scusami, non lo sapevo… io…»
«Non fa niente. Capita.» Mi strinsi nelle spalle per quanto potessi con gli scatoloni in braccio. «Io ad esempio non sopporto le commesse.» Soprattutto quelle delle profumerie quando mi mostrano i vari tipi di assorbenti da scegliere, avrei dovuto specificare.
Tuttavia, forse per lei avrei fatto un’eccezione. Sembrava in un qualche modo diversa.
Bella fece una faccia stranamente offesa. Corrucciò le sopracciglia e imbronciò le labbra.
Oh… oh…
«Cazzo!» Era una commessa! Sentivo il disperato bisogno di mordermi la lingua. «Scus…»
Inaspettatamente scoppiò a ridere, confondendomi ulteriormente. «Non sono una commessa.» Fece un sorriso quasi malizioso. «Volevo solo vedere la tua faccia.»
Pessima figura. Doppia.
Quindi non era timida, o almeno, non del tutto; probabilmente sensuale e estroversa all’occorrenza.
La parola occorrenza stranamente mi faceva un certo effetto tipico del genere maschile.
Ripresi a salire le scale. Secondo piano. Questa volta il sorriso malizioso comparve sul mio viso. «Per pareggiare i conti, io chi dovrei odiare?»
Giungemmo al terzo piano.
Poggiò gli scatoloni sul pianerottolo con uno sospiro.
«Una neogiornalista.» rispose trafelata e sorridente. «Mi sono laureata a giugno.»
Bella, laureata, apparentemente simpatica e indipendente. Qualcosa non quadrava.
Nei miei primi ventisette anni di vita, quelli da pannolino compresi, avevo imparato che le donne belle e affascinanti potevano essere semplicemente targate come stronze,  sfrontate (e per adesso non sembrava questo il caso) o, peggio ancora, fidanzate.
Forse potevo escludere anche l’ultima ipotesi. Quale idiota lasciava la propria ragazza sola?
Udimmo una porta chiudersi con un pensate tonfo e la voce squillante della cui proprietaria sbucava sempre nei momenti meno opportuni.
«Edward?»
Alice.
Che sia chiaro: l’amore per mia sorella era incondizionato, ricco di sostentamento reciproco, e avrei ammazzo a mani nude chiunque avesse solo pensato di farle del male ma… alle volte ero io stesso a volerla strangolare.
Terminato il liceo, Alice, si era iscritta all’università di Seattle presentandosi alla porta di casa mia – con la bellezza di venti valigie - adducendo la semplice scusa di sentire la mancanza del suo fratello preferito, nonché l’unico e solo. In parte, era vero. Il mio trasferimento aveva comportato la sopportazione di una distanza eccessiva e dolorosa per entrambi. Eravamo poco più di due adolescenti, e nonostante i vari litigi, molto legati l’uno all’altro.
Con finta ritrosia avevo accettato quella convivenza anche con la speranza di aver acquisito un aiuto in casa. La cucina non era il mio forte. Purtroppo Alice non possedeva delle vere e proprie doti culinarie: sapeva aprire il tonno in scatola, condire l’insalata e riscaldare nel microonde pasti già pronti. Cose che di mio, purtroppo, già facevo. Le uniche doti di Alice, se così potevano essere definite, erano le sue manie compulsive sull’ordine , sulla pulizia e, ahimè, sullo shopping. Girava per casa sempre con uno spolverino in mano e avevo i cassetti ordinati come mai in vita mia: per tipo, colore, occasione e stagione. Era ossessionata.
«Edward sei tu?»
In pochissimo tempo Alice ci raggiunse e non appena vide Bella le corse incontro stritolandola in un abbraccio caloroso e lasciando me basito. Si conoscevano. Le domande che frullavano nella mia testa erano le solite dove, quando, come e perché. Poche, ma dirette. Purtroppo non avevo un bisturi a portata di mano per cavarmele via e la saliva nella gola sembrava aver dato forfait.
«Finalmente sei arrivata.» sussurrò mia sorella allontanandosi di poco dall’abbraccio. «Perché non mi hai telefonata? Ti avrei aiutata col trasloco.»
Bella arrossì ed io mi deliziai. «Non volevo disturbarti.»
Alice s’imbronciò e storse il naso. «Non mi avresti mai disturbata, te l’avevo già detto, no?» Detto ciò si accorse finalmente della mia presenza e con fare circospetto mi osservò e abbozzò un sorriso. Poco promettente. «Vedo che comunque hai trovato qualcuno che ti ha dato una mano. Non devo fare le presentazioni, vero?»
Bella divenne paonazza. Mi lanciò uno sguardo. «No, ci siamo già presentati.»
Non capiva forse quale legame potesse esserci tra me e quel folletto dai capelli corvini.
«Alice è mia sorella.» spiegai sorridendo alla mia consanguinea.
Bella sbarrò gli occhi dalla sorpresa e un sorriso le spuntò osservando prima me e poi Alice.
«Edward, ti avevo già parlato di Bella, ricordi?»
Questo era un dei tanti problemi. Mia sorella era piuttosto logorroica e quando iniziava un discorso, per me e tutto il genere maschile poco interessante, spesso e volentieri mi estraniavo e annuivo meccanicamente di tanto in tanto o, nei peggiori dei casi, mi addormentavo. Quindi, era più che normale che non ricordassi questo aneddoto. Peccato.
Fui salvato dall’ira di Alice da una bassa melodia su piano che si propagò nel pianerottolo. Bella inizialmente sobbalzò poi aprì velocemente un lato di uno scatolone e tirò fuori un telefonino rosso. Guardò il display e sbuffò. «Scusatemi», sussurrò prima di rispondere.
«Pronto?»
Si passò velocemente una mano tra i capelli. «Si, sono arrivata.»
Mi lanciò uno sguardo. Non ad Alice, a me.
«Posso richiamarti dopo? Devo ancora portare gli scatoloni con i libri in casa.»
Ecco cosa contenevano quegli scatoloni. Ed io che avevo considerato i mattoni.
Bella sbuffò ancora e alzò gli occhi al cielo. Poi riprese a parlare. «D’accordo Mike, ci sentiamo dopo.» Chiuse velocemente la comunicazione.
«Fratello apprensivo?» le domandai notando la smorfia che aveva rivolto al display.
«No,» sospirò. «Fidanzato apprensivo, il che è peggio con tutti questi chilometri che ci dividono.»
Mike.  Il fidanzato. L’idiota che lasciava la propria ragazza, da sola dal momento che lei aveva precisato che erano separati da chilometri di distanza.
L’unica mia stupida teoria che speravo fosse sbagliata era esatta. Era fidanzata. Non che la cosa mi avesse bloccato in passato dal corteggiare una ragazza, specie al college, ma Bella non sembrava all’apparenza quel tipo di donna.
Meno vedi una donna e prima la dimentichi; un’altra teoria concepita e approvata da Emmett. Era esattamente ciò che aveva fatto lui nelle due settimane in seguito ai due picche di Rosalie,  la commessa di una famosa profumeria in centro. Dopo ben sette rifiuti, uno per giorno per una settimana intera, ci avevo rinunciato. Peccato che poi lei avesse iniziato a frequentare la palestra di Emmett. La teoria non era più fattibile.
Rosalie era, sì, bella ma schiva e acida come uno jogurt scaduto nella maggior parte delle volte che Emmett le si avvicinava (spiegasi la mia principale controversia per le commesse). E così il mio caro amico si era ritrovato una gatta da pelare, dagli artigli affilati. Anche se, in effetti, lui non era il perfetto gentiluomo della situazione. Aveva il tatto e la gentilezza di un orso.  
Comunque, alla fine, ne era uscito vittorioso. Dopo graffi e manrovesci della commessa bionda e moine e lusinghe dell’orso, l’uno si era innamorato dell’altro. Un touché.
Quindi la soluzione era semplice: meno vedevo Bella, e meglio era. Okay, era bella, mi faceva pure un certo effetto (e a chi non l’avrebbe fatto?!) ma non era detto che dovessi per forza infatuarmene, no?
Discorsi prematuri, Edward, discorsi prematuri.
Certo, da ora in poi avremmo dovuto convivere nello stesso palazzo ma ciò non doveva per forza comportare una convivenza, dalla presenza costante dell’uno e dell’altro; magari solo qualche incontro sporadico. Facile, no?
Avevo la strana sensazione di essere già quasi fottuto.
«Ho ragione, vero Edward?»
«Mmh?»
Guardai mia sorella un po’ disorientato. Non avevo prestato alcuna attenzione a cosa aveva detto, ma dallo sguardo dolce e implorante e dal capo lievemente piegato verso una Bella un po’ imbarazzata compresi che non c’erano sotterfugi nella sua domanda, solo gentilezza.
Mi grattai la nuca. «Certo.» risposi, e pregai vivamente di non aver accettato nulla di compromettente.
Mia sorella saltellò sul posto e afferrò le mani di Bella. «Visto? Vedrai Bella, qui ti troverai bene. Per me sarà come avere una coinquilina, o una sorella. Non ti lascerò mai un attimo sola. Starai sempre a casa nostra.»
Fottuto. Ero fottuto.
La zappa decisamente non bastava. Mi ero lanciato un incudine dalle dimensioni stratosferiche sui piedi condito deliziosamente con un calcio dritto nelle palle.
Avevo sempre pensato che l’inizio e la fine della giornata stessa fossero tra loro antitetici. L’uno positivo, l’altro negativo. E viceversa. Perlomeno se iniziava male si poteva ben sperare nel finale.
In conclusione, quella giornata era finita proprio come era iniziata.
E le mie teorie?
Tutte grandi e grossissime cazzate!
 
 




PER IL RAPPORTO TRA ALICE E EDWARD DEVO RINGRAZIARE MIO FRATELLO. LUI E' UNA DELLE MIE PIù IMPORTANTI FONTI DI ISPIRAZIONE.
PER IL TITOLO RINGRAZIO IMMENSAMENTE FALLSOFARC... senza di te, non so cosa farei.
E RINGRAZIO CHI HA PAZIENTEMENTE LETTO L'ANTEPRIMA: CONGY e la mia piccola stronza  manager.
RINGRAZIO INOLTRE CHI LEGGERA', E CHI LASCERA' PERFINO UN COMMENTO.
GRAZIE A TUTTI.

 
 

 
   
 
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