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Autore: ballerinaclassica    17/09/2010    8 recensioni
Arthur risaliva il fiume col suo bastone da passeggio e una borsa di pelle nera e lisa, andava a sedersi sui gradini mangiati dai tarli della vecchia casa di legno, li sentiva scricchiolare e parlargli, e lì scriveva i suoi racconti.
Erano storie di principi, di maghi e streghe malvagie, storie che non avevano mai un fine, perché inevitabilmente il giorno della partenza arrivava e Arthur si ritrovava costretto a chiudere i suoi quaderni e a lasciarsi alle spalle quel posto segreto.
[ USUK ]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Quando Arthur Kirkland aveva visto per l'ultima volta l'America, da una di quelle barche enormi che solcavano l'Atlantico, poi l'aveva ricordata verde, sovrastata da un cielo limpido, qualche nuvola sparsa e anche piuttosto sporadica e i gabbiani. Era tornato in Inghilterra nel 1923 aveva continuato con i suoi studi, piacevolmente sorpreso che, nonostante avesse passato una decina di anni in un altro continente, tutto fosse ancora al proprio posto – beh, a parte suo fratello Peter che si era praticamente impossessato della sua camera da letto, quella più grande.
E alla fine tutto era andato come doveva andare. La laurea, la famiglia... E si era perfino innamorato di una canzone uscita nel '18 e chiamata “Over There”. Proprio perché la sua vita sembrava perfetta si era spinto di nuovo così lontano, fino a sfidare di nuovo il mare e a tornare nel nuovo continente, convinto che i suoi sacrifici sarebbero stati premiati, in barba a chi non aveva mai creduto il lui!
Eppure l'America non era affatto come lui la ricordava. E al posto degli alberi, ad una distanza di appena cinque anni, erano apparse le prime ciminiere, al posto dei gabbiani c'erano aloni di fumo grigiastro e il mare sulle coste non era più abbastanza limpido da distinguere con chiarezza ogni singolo sassolino – oppure era la sua vista che stava peggiorando, alle soglie dei trent'anni.
Nonostante ciò, Arthur Kirkland restava convinto che ci fosse un angolo di America (il suo angolo di America) che non era cambiato di una virgola. Era riuscito a sentirlo a pelle, quando aveva poggiato la testa sul finestrino del suo vagone di seconda classe e aveva chiuso gli occhi, fingendo che stesse attraversando per l'ennesima volta la sua bella Cornovaglia.
E in effetti quando aveva varcato la porta di legno della locanda si era reso conto che almeno lì nulla era cambiato. Che il bancone era ancora scheggiato sulla sinistra, vicino al muro, che i tavoli di legno puzzavano un po' di muffa, il pavimento era scuro e qualche asse scricchiolava e il proprietario non era cambiato di una virgola, se si ignoravano i primi capelli bianchi.
Era nel cuore dell'Iowa che Arthur aveva trovato la sua seconda casa, alla quale lentamente si era affezionato e della quale inevitabilmente sentiva la mancanza ogni qual volta tornava a Londra. Nel cuore dell'Iowa aveva trovato i primi amici, erano nati i primi legati e era rimasto un pezzo della sua vita. Tra i fiumi e i boschi che li costeggiavano, sulla riva del lago e nella casetta di legno abbandonata, su quella barchetta malmessa che usava per andare a pesca, per le strade, tra i muri.
Poggiò la valigia su una delle panche che stavano addossate al muro e si sedette lì accanto, inspirando a fondo un odore familiare e chiudendo gli occhi. Tra qualche minuto avrebbe assolutamente dovuto trovare un telefono pubblico – e quindi elemosinare qualche monetina da uno sconosciuto – pur di parlare con sua madre, così ansiosa e con quel terrore che suo figlio finisse sul fondo dell'oceano durante uno dei suoi viaggi. E adesso che ci pensava sarebbe stato un bene anche parlare con Peter e chiedergli con esattezza quale stupido giocattolo americano voleva che gli portasse, dato che l'ultima volta che era tornato a casa con un regalo per suo fratello era stato ricoperto dagli insulti, perché i soldatini poteva benissimo comprarseli in Inghilterra.
Ah, e ovviamente aveva bisogno di un posto in cui restare, e non era troppo sicuro che la locanda, ormai, rispettasse almeno la metà delle norme igieniche. Con un po' di fortuna si sarebbe preso soltanto le piattole. Visto lo strato di polvere che c'era su quel tavolo e la sporcizia del pavimento, non osava immaginare in quali disumane condizioni giacesse abbandonato il bagno. Non aveva nemmeno intenzione di scoprirlo ora, quindi accavallò le gambe e cercò di imporre un minimo di autocontrollo perfino alla sua vescica.
Nonostante ciò era veramente felice di trovarsi lì, nel posto in cui aveva scelto di continuare a vivere. Lui amava l'Inghilterra, eppure c'era una parte del suo cuore che, quando tornava sulla sua isola e riabbracciava i suoi cari, restava oltreoceano, nel paesino più sperduto della contea più sperduta dell'Iowa. Insomma, uno di quei posti dove il numero di capi di bestiame supera di almeno sei volte quello della popolazione, dove un vero uomo indossa un capello da cowboy dall'età di cinque anni – se hai fortuna tua zia te ne regala uno addirittura quando ne hai quattro - e dove tutti conoscono tutti e con ogni probabilità mezzo paese sapeva già che il ragazzo di Londra era tornato.
Magari qualcuno era appena uscito con la sua vecchia e rumorosa automobile. Lo aveva detto al ragazzo dei giornali, che lo aveva detto alla signora all'angolo della strada, che lo aveva detto alla vicina. E così, di casa in casa, la notizia si era sparsa come succedeva a tutte quante le altre.
Il nome di Arthur Kirkland era volato sulla bocca di una dozzina di persone, magari qualcuno lo aveva storpiato, qualcuno addirittura dimenticato. Ma in un modo o nell'altro, nel giro di un paio d'ore tutti avrebbero saputo che lui era tornato in America e che stava per ordinare una birra alla vecchia locanda che c'era vicino la stazione.
«Ehi amico, hai intenzione di rimanere lì impalato ancora a lungo?»
Arthur aprì un solo occhio e rivolse uno sguardo al suo interlocutore. Davanti a lui c'era un ragazzo che arrivava a malapena ai vent'anni, capelli biondi come il grano agitato dal vento e occhi azzurri come l'oceano, un grembiule nero e un po' sgualcito e una maglietta vagamente scolorita che portava il nome di qualche squadra di baseball. Era alto almeno quindici centimetri più di lui e largo almeno il doppio, portava gli occhiali da vista e Arthur si accorse che lo adesso però lo stava fissando.
«Non ero impalato, amico, stavo aspettando un cameriere», gli rispose, cercando di riunire in un'unica frase tutta l'acidità di cui fosse capace.
L'ultima volta che era stato lì il cameriere era un uomo sulla sessantina, che oltretutto aveva problemi di udito e questo ti costringeva a ripetere il tuo ordine per almeno tre volte, se ti andava bene. E ogni volta dovevi usare un tono di voce più alto e più acuto della volta precedente. Arthur non ricordava affatto quel ragazzone, invece. Molto probabilmente il cameriere che gli stava davanti ora all'epoca era uno di quei ragazzi che giocavano ad inseguirsi dietro la locanda, e che ogni tanto potevi vedere correre oltre il vetro opaco della finestra.
«Sta di fatto che ne stavi lì immobile... Che ne so, magari già te lo sei scordato. Com'è che si chiama? Ah, giusto, demenza senile.»
I muscoli della sua fronte si corrugarono quasi involontariamente, Arthur non riuscì a spiegarsi per quale assurdo motivo un totale sconosciuto gli stesse dando del vecchio – tra l'altro senza avere un motivo preciso. Non sembrava abitudine di quel ragazzo chiedersi se un uomo appena arrivato con una valigia pressapoco enorme fosse stanco, probabilmente non aveva perso nemmeno tempo a far caso a quei piccoli particolari.
Arthur lo squadrò di nuovo, sul suo petto c'era appiccicato un pezzo di carta stropicciato e ingiallito e sopra c'era scarabocchiato un “Alfred”, in cui la “L” era veramente troppo grande e in cui la “D” era stata storpiata perché evidentemente quel foglio minuscolo non era abbastanza grande nemmeno per un nome così breve.
«Senti... Alfred, non so che problemi tu abbia, ma mi piacerebbe ordinare e andarmene. Quindi spicciati e fa' il tuo lavoro. E magari evita di aprire bocca se non per darle aria.»
L'espressione di Alfred oscillava tra il confuso e lo scioccato. Abbassò il mento, si guardò il petto e poi la sua attenzione tornò a concentrarsi su Arthur.
«Ehi inglesino, come fai a sapere il mio nome? Sei un agente segreto o cosa?»
Più il tempo passava, più si rendeva conto di quanto la popolazione americana fosse tendenzialmente stupida. Per quanto amasse la loro terra, Arthur non impazziva particolarmente per chi la popolava, anzi. Preferiva le sue passeggiate solitarie o le conversazioni che non si spingevano oltre il “ciao”.
«È scritto lì. Che c'è, non sai leggere?»
Alfred analizzò per un attimo la targhetta che aveva sul petto, dopo di che scoppiò in una risata forse un po' troppo acuta e forse un po' troppo rumorosa per i suoi gusti.
«Ahahahah, giusto, me ne ero completamente dimenticato. Alfred F. Jones!», disse, e mentre leggeva sottolineava con il dito ogni lettera del suo nome.
«Veramente io leggo solo Alfred.»
Il cameriere sembrò rimanere spiazzato, ed effettivamente la sua posizione non era migliorata, ma peggiorata, se possibile. Era palese che Alfred non sapesse leggere, e per quanto Arthur volesse provare a farglielo pesare, sapeva esattamente che in quella zona dell'America e in particolare in quella contea non poteva pretendere di poter parlare con qualche intellettuale che coltivava granturco nel part time.
Il ragazzo aveva poggiato i suoi occhiali da vista sul tavolo, le lenti erano un po' appannate e la montatura non era perfettamente dritta, e staccò il pezzo di carta dal petto. Molto probabilmente adesso avrebbe cercato di far credere ad Arthur che lui sapeva leggere alla perfezione e che quella gaffe era stata dovuta solo e soltanto ad un paio di vecchi occhiali mezzi rotti.
«Senti, Alfred, non preoccuparti e portami una birra», lo liquidò, prima che lui potesse ribattere qualcosa.

Perfino il mulino che c'era sulla sponda est del fiume non era cambiato, forse le pale erano un po' consumate dal tempo e forse le ragnatele erano aumentate. Però la struttura era ancora quella, con il suo tetto cigolante e le travi spezzate, i nidi degli uccelli nascosti in ogni punto disponibile e le oche che poltrivano sulla riva. Era un quadro pressoché magico e Arthur lo aveva sempre adorato quando, qualche anno prima, risaliva il fiume fino ad arrivare a quel lago che ghiacciava d'inverno e che rimpiccioliva durante l'estate. Lì c'era una vecchia casa di legno abbandonata, di quelle che sembravano abitate dal fantasma del lago o da qualche poltergeist, un vecchio villino affiancato ad una stalla mezza diroccata.
La casa sul lago era il posto che Arthur amava di più dopo il mulino e la locanda, era il posto in cui si rifugiava dal mondo esterno e dimenticava perfino l'Inghilterra. Arthur risaliva il fiume col suo bastone da passeggio e una borsa di pelle nera e lisa, andava a sedersi sui gradini mangiati dai tarli della vecchia casa di legno, li sentiva scricchiolare e parlargli, e lì scriveva i suoi racconti.
Erano storie di principi, di maghi e streghe malvagie, storie che non avevano mai un fine, perché inevitabilmente il giorno della partenza arrivava e Arthur si ritrovava costretto a chiudere i suoi quaderni e a lasciarsi alle spalle quel posto segreto.
Quel giorno ricordò di aver portato un sacco di quaderni, tonnellate di inchiostro accuratamente sistemato in valigia e dentro sé l'intenzione di trovare qualcosa che lo costringesse a restare, perché per quanto l'Inghilterra potesse mancargli, Arthur era sicuro che in realtà il suo posto era lì. Magari avrebbe trovato un sentiero comodo per collegare la vecchia casa al mulino, magari sarebbe riuscito a farla ristrutturare, avrebbe avuto un giardino e la stalla sarebbe stata riparata, per vivere sulla sponda del lago che ghiacciava d'inverno.
E probabilmente prima di fare programmi per l'avvenire, Arthur avrebbe dovuto passare a dove pernottare – perché non voleva prendersi le piattole alla locanda, ma non voleva nemmeno trascorrere la notte all'agghiaccio e rischiare di non arrivare vivo alla mattina successiva.
Chiese informazioni ad un paio di persone, di cui un uomo che non sembrò nemmeno capire la sua domanda e lo accusò di avere un accento inglese troppo forte. Gli bastò un'ora per trovare una specie di albergo dall'aria un po' vissuta, in cui scoprì presto che la proprietaria, la cameriera, la donna delle pulizie e la portinaia fossero la stessa persona, una donna sulla sessantina con i capelli che sfumavano dal bianco ad un rossiccio chiaro, la circonferenza abbastanza estesa ed un sorriso cordiale, oltre ad una stretta di mano che gli aveva quasi spezzato le ossa.
La sua stanza affacciava sulla strada principale, proprio come a Londra, ma il profondo abisso che c'era tra l'Iowa e la sua città natale lo fece sorridere. A Londra le auto erano arrivate già da qualche anno, i più ricchi della città ne avevano addirittura due, suo padre ad esempio aveva una Rolls Royce verde bottiglia, che usava per andare ai suoi incontri di lavoro o per portarli al mare qualche fine settimana. Sua madre adorava quell'auto, restare con il finestrino aperto e respirare l'aria pura che c'era fuori città. Suo fratello invece la odiava, dato che non poteva muoversi liberamente o alzarsi come poteva fare in treno. Nemmeno a lui quell'automobile piaceva granché, aveva sempre preferito stare all'aria aperta, come quando andava a far visita a suo nonno e camminava in sua compagnia per ore ed ore, ascoltando decine di storie sui corsari della regina Elisabetta, le avventure di Francis Drake e della sua ciurma, oppure, di sera, storie che parlavano di uova di drago, di terre incantate e di antichi sortilegi.
Lì nell'Iowa le automobili non erano così tante. Per l'esattezza, da quando era arrivato, ne aveva vista soltanto una, parcheggiata (o forse abbandonata) fuori dalla locanda. Una Bour Davis del 1921 che doveva aver avuto la sua storia e che ora era ridotta ad un ammasso di rottami che avrebbe funzionato a malapena.
Appena un'ora dopo qualcuno bussò alla sua porta. Arthur salutò la padrona dell'albergo che reggeva tra le mani un vassoio di legno con il quale portava una tazzina traballante e scheggiata sul manico. Ah, il suo accento inglese qualche volta aveva un vantaggio, la donna doveva aver capito immediatamente da dove provenisse e si era premurata di procurargli del tè. Non gli servì altro, la donna gli disse di lasciare la tazza sul comodino, ci avrebbe pensato lei poi a prenderla e a lavarla e Arthur ne approfittò per farsi una doccia e sistemare la sua roba. Era arrivato più o meno poco dopo l'ora di pranzo, se aveva fortuna e se si dava una mossa forse sarebbero riuscito ad arrivare alla vecchia casa di legno prima che facesse buio. Aveva voglia di salutare di nuovo quei luoghi e vedere se fossero cambiati o meno, se la stalla fosse già crollata o se fosse riuscita a superare con discreto successo tutti quegli inverni, se il lago, ora che la primavera cominciava a farsi strada, fosse ancora mezzo gelato oppure no.
L'acqua della doccia era talmente fredda da costringerlo a saltare in continuazione e ad uscire con una velocità fulminea per avvolgersi nell'asciugamano bianco che stava poggiato su uno sgabello, anche mentre lavava via la schiuma da barba dal viso rischiò di congelarsi le mani e di restare con le dita rigide e serrate attorno alla manopola del lavandino.
Indossò un maglione spesso e un paio di pantaloni scuri, prese la giacca ed il cappello e scese velocemente le scale. Era impaziente di rivedere la vecchia casa.
La strada era quasi deserta, fatta eccezione per un gruppo di ragazzini che inseguivano un pallone rattoppato, riempiendo la via di urla concitate e di risate allegre. Erano circa le cinque del pomeriggio, e la donna dell'albergo gli aveva raccomandato di ritornare entro un paio d'ore al massimo, se non voleva che la sua cena si freddasse. Arthur non aveva fretta, in fin dei conti avrebbe potuto mangiare fuori almeno per quella sera – aveva abbastanza soldi con sé, la maggior parte dei quali erano stati un regalo di uno zio scozzese, ed era comunque certo che mangiare in qualche ristorante della zona (sempre se ce n'erano) non sarebbe stato un problema.
Stava percorrendo la stessa strada di prima, ma ora che la sua valigia era chiusa nella stanza, poteva concentrare la sua attenzione sul paesaggio, sul sentiero che mano a mano che si allontanava dal centro del paese diventava più stretto e più tortuoso, su come le salite fossero metro dopo metro leggermente più ripide, su come i raggi inclinati del sole colpissero in pieno la vegetazione che c'era lì vicino, rendendola di una tinta giallo ambra.
Le pale del mulino erano immobili, soltanto qualche ramo oscillava con il vento. Arthur ascoltava il rumore dell'acqua che scorreva lentamente, le anatre che starnazzavano sopra la sua testa e nel fiume.
Continuò a camminare per una buona mezz'ora, mentre i piedi cominciavano a far male perché i suoi mocassini nuovi di zecca erano veramente inadatti a quel genere di passeggiate. Arthur ignorò completamente i lamenti dei suoi piedi che lo supplicavano di fermarsi sotto la quercia, e sedersi sulle radici che sporgevano dal terreno creando disegni fatti di nodi di legno, o su quel sasso ricoperto in buona parte dal muschio umidiccio, altrimenti andava bene anche il praticello verde, l'importante era riposarsi.
Ma se non voleva tornare con la notte e rischiare di spezzarsi l'osso del collo mentre percorreva nella direzione opposta quel sentiero ripido, doveva darsi una mossa e sopportare. Arthur tirò il cappello sulla testa, cercando di coprirsi le orecchie, fortunatamente c'era ancora abbastanza luce, e il sole emanava ancora abbastanza raggi da concedergli almeno un po' del suo calore quando non si trovava all'ombra di qualche albero.
Quando si rese conto che il paese era ormai lontano, e che era passata circa un'ora da quando aveva intravisto per l'ultima volta il mulino che spariva tra le fronde, Arthur sorrise e pensò tra sé e sé che c'era quasi, magari tra trecento metri l'avrebbe vista, la vecchia casa di legno che era stata costruita vicino al lago, che molto probabilmente era ancora piena di rampicanti. Forse qualche muro aveva ceduto, oppure si erano frantumati i vetri di un altro paio di finestre.
Mentre era a Londra aveva pensato spesso su cosa potesse essere accaduto a quella casa. Dal giorno in cui aveva sentito suo padre parlare della seconda rivoluzione industriale, che Arthur non aveva vissuto di persona, aveva cominciato a temere il peggio. Nel cuore delle città inglesi un paradiso simile a quello sarebbe stato presto trasformato in un grande magazzino, nella migliore delle ipotesi sarebbe diventato la pista di atterraggio per i voli mattutini della RAF. La stessa così si sarebbe verificata nel New England, ma magari l'Iowa era ancora al sicuro – sempre che a quegli americani megalomani non fosse saltata in testa l'idea di costruire una specie di centrale segreta nell'unico posto che valeva la pena vedere – e comunque Arthur non era mai stato fortunato, quindi temeva anche l'opzione che un meteorite fosse caduto dritto sulla vecchia casa di legno, lasciando illeso tutto il resto.
Arthur sollevò il mento, adesso poteva guardare l'inizio della radura che costeggiava il lago. Accelerò il passo, rischiando di inciampare in qualche arbusto, tanta era la voglia di trovarsi ancora al centro di quel luogo. Saltò un sasso, scavalcò un cespuglio verde, e poi lo vide.







Una nuova long-fic, che posto mentre completo gli aggiornamenti delle altre due.
Spero vi piaccia, perché ho avuto miliardi di dubbi mentre la scrivevo. ;___;”
Vorrei dedicarlo a Vasino, dato che mi sono resa conto di non averle mai dedicato nulla. ;_; E quindi questa FanFiction è per lei, che è sempre troppo gentile con me, vagamente stronza, ma quella è un'altra storia.
Ti voglio bene, caccapupù<3
Al prossimo aggiornamento<3

   
 
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