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Autore: Angeline Farewell    17/09/2010    4 recensioni
[...]Il bus era troppo lento, ci stava mettendo una vita per arrivare a destinazione e lui aveva fretta. Seduto – stipato - su uno scomodissimo sedile di plastica era riuscito a riempire pagine e pagine d’agenda di pensieri sconnessi, con qualche schizzo sparso rubato ai sobborghi deprimenti della provincia del nord-ovest. Fuori dalle città il verde era talmente intenso da sembrare irreale, quasi sinistro, ma le prime case riuscivano ad ingoiarlo nel loro grigio con una voracità a tratti inquietante, stendendo su tutto un velo opaco come di malinconia e rassegnazione.
Non era abituato a quel verde, lui. A San Diego non ce n’era tanto, e quello del mare era dolce, mitigato dalle mille sfumature del cielo e delle nuvole e dei fondali, illuminato da un sole che allo zenith era quasi bianco. A San Diego aveva sempre fatto troppo caldo perché le piante potessero davvero reclamare i pochi stralci di terra rimasti vuoti.[...]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Once Upon a Time

Quel giorno pioveva.

Non che fosse una novità, Seattle non era soprannominata Rain City per nulla.

Perché pioveva, sempre.

Poco importava non fossero acquazzoni, ma blande pioggerelline insistenti: il fastidio risultava anche maggiore.

E se non pioveva era comunque nuvolo: a Seattle il sole era raro come l’ottimismo degli adolescenti.

Non è un caso se proprio dai suoi sobborghi – quella Aberdeen che sarebbe poi diventata meta di pellegrinaggio da lì a pochi anni per infelici motivi – qualcuno aveva alzato la testa e si era messo ad urlare con quanto fiato aveva in gola fino a diventare rauco e trasformare nel frattempo la musica stessa come l’avevano fino ad allora conosciuta tutti.

E dunque quel giorno la stessa pioggerellina, leggera e molesta, bagnava i lunghi capelli di un ragazzo abituato al più ad essere spruzzato dai flutti dell’oceano, perché a San Diego, i duecentotrenta giorni nuvolosi di Seattle, erano piuttosto luminose giornate da trascorrere scivolando sulle onde schiumose del Pacifico.

Ma quel giorno pioveva. Piano, con discrezione, ma indubbiamente non incoraggiava l’indugiare in pensieri felici.

Nemmeno lui era granché eccitato. A dispetto di tutto.

Nervoso?  Nemmeno. Tutto quello che lui voleva era andare in studio e cantare: aveva solo quello in mente, da un mese abbondante.

Have I got a little story for you…

Lui aveva un sacco di storie da raccontare, se le sentiva tutte premere in testa e nello stomaco, dovevano uscire e quella sembrava l’occasione giusta, quei tre ragazzi del nord-west sembravano avere quel che gli serviva per limare il grumo di pensieri emozioni parole che gli si erano fermate all’altezza del plesso, come non gli era mai riuscito con gli altri, laggiù nel sole della California.

Dovevano uscire, non voleva emulare Ridgway, lui. Nonostante l’Avvocato, nonostante sua madre, nonostante tutto.

E dunque si tolse gli inutili occhiali da sole mentre attraversava il parcheggio del Sea-Tac, dov’era appena atterrato. Tanto pioveva.

Controllò quanto aveva in tasca, non molto, e decise che un taxi non poteva permetterselo. Borsone in spalla verso lo stazionamento allora, perché di soldi probabilmente non ne avrebbe visti per un po’, ma non aveva importanza.

Non voleva perdere tempo, non c’era tempo da perdere.

Beth era rimasta nel casotto sulla spiaggia a godersi le brezze del primo autunno californiano ed un po’ si era pentito di non averle chiesto di accompagnarlo, ma non poteva far lasciare il lavoro anche a lei, sarebbe stata una follia: se tutto fosse andato in porto si sarebbero riuniti e la loro vita sarebbe tornata come prima, così come da quasi dieci anni a quella parte.

Beth, Beth, Beth…

Non era lei la donna di cui cantava a volte né mai lo sarebbe stata, perché Beth era sua. Non come Karen che aveva preferito assediarlo con fratelli fratellastri estranei ostili che lo guardavano come un intruso pur di compiacere l’Avvocato, che l’istinto paterno sembrava averlo dato in subaffitto, ma non per questo recedeva da un ruolo che probabilmente serviva solo a dargli una parvenza di rispettabilità nel mondo.

Stronzo.

Ma Beth non si arrabbiava se picchiava troppo sulla batteria mentre batteva il ritmo per il suo gruppo, piuttosto gli apriva una birra ghiacciata. E rideva. Rideva sempre Beth.

E nelle risse picchiava quasi più di lui, poi però - durante le lunghe notti in cui girava male e i cattivi pensieri non lasciavano che chiudesse gli occhi nemmeno per pochi minuti - sapeva tenerlo stretto come non avrebbe mai più permesso alla madre da cui era scappato.

Il bus era troppo lento, ci stava mettendo una vita per arrivare a destinazione e lui aveva fretta. Seduto – stipato - su uno scomodissimo sedile di plastica era riuscito a riempire pagine e pagine d’agenda di pensieri sconnessi, con qualche schizzo sparso rubato ai sobborghi deprimenti della provincia del nord-ovest. Fuori dalle città il verde era talmente intenso da sembrare irreale, quasi sinistro, ma le prime case riuscivano ad ingoiarlo nel loro grigio con una voracità a tratti inquietante, stendendo su tutto un velo opaco come di malinconia e rassegnazione.

Non era abituato a quel verde, lui. A San Diego non ce n’era tanto, e quello del mare era dolce, mitigato dalle mille sfumature del cielo e delle nuvole e dei fondali, illuminato da un sole che allo zenith era quasi bianco. A San Diego aveva sempre fatto troppo caldo perché le piante potessero davvero reclamare i pochi stralci di terra rimasti vuoti.

E a Chicago… beh, da Chicago era scappato prima di beccarsi l’inverno più freddo della storia dell’Illinois, ma a quella città sarebbe sempre stato grato per avergli regalato i due grandi amori della sua vita – a parte la musica: Beth e i Chicago Cubs, ovviamente.

Ma a Chicago non c’era l’oceano ed i Grandi Laghi non erano un’alternativa allettante.

A Beth non sarebbe dispiaciuto restare, lì aveva cominciato a suonare e, piccola e giovane com’era, s’era anche fatta un discreto nome come bassista di richiamo.

Ma Beth era un’altra randagia come lui, non aveva avuto paura di seguire la scia della sua vecchia tavola da surf.

Così avevano iniziato a scivolare insieme sulle onde del Pacifico.

 

La monotonia di quel viaggio lo stava sfiancando ben più delle quasi tre ore d’aereo che lo avevano portato a Seattle ed ancora non riusciva a vedere il capolinea del suo viaggio.

Cominciava a sentire la tensione e quando era teso la sua mente vagava sempre troppo e male e non aveva nemmeno una bottiglia di birra a portata di mano.

E cosa non avrebbe dato per una canna rollata come si deve.

Ricontrollò per l’ennesima volta l’indirizzo che aveva appuntato sull’agenda: no, non mancava poi tanto. Si risistemò il bagaglio sulle spalle e si preparò ad un incontro che in ogni caso gli avrebbe cambiato la vita, pretendeva gli cambiasse la vita, perché non amava perdere tempo, lui. Non gli piaceva nemmeno affrettare le cose, ma la musica per lui era come la sua donna, un’amante cui Beth aveva dovuto – anche voluto: erano complici in quel crimine - piegarsi: e le sue donne erano sempre state il centro del suo mondo.

Anche – soprattutto - quelle che non lo avrebbero meritato.

Capolinea. Fine del viaggio.

Cazzo meno male almeno aveva smesso di piovere.

Il 194 lo aveva accompagnato in una zona residenziale ed anonima, di quelle che si possono trovare in qualsiasi città industriale d’America, uno scorcio usato ed abusato in qualunque film e telefilm.

Si era calcato meglio il berretto da baseball sulla testa prima di accendersi – ironia della sorte - un’American Spirits e dirigersi verso quella che sembrava un’arteria principale: da lì sarebbe stato semplice orientarsi, stando alle istruzioni ricevute al telefono dal bassista del suo nuovo gruppo.

Quanto avevano parlato al telefono, due settimane prima? Di sicuro troppo, per due sconosciuti, ma il feeling che aveva sentito era stato immediato: Jeff gli andava a genio e a Jeff piacevano le sue canzoni.

Non gli aveva rivelato la storia dietro quei testi – erano la sua storia, la sua vita -, ma sapeva che il bassista qualcosa doveva aver intuito.

Stoney probabilmente l’aveva fatto.

Stoney… Quando al bassista era scappato quel diminutivo aveva avuto quasi voglia di ridergli in faccia, ma Jeff si era corretto subito e quel cognome – Gossard - gli aveva pure rivelato come Stoney, o meglio Stone, fosse anche il vero autore delle melodie che si era trovato a fischiettare persino sulla tavola da surf rischiando di cascare a più riprese.

In realtà era davvero cascato in malo modo rischiando l’osso del collo e Beth si era incazzata sul serio quando l’aveva visto tornare a casa con la schiena dolorante.  

Ma, Dio, non vedeva l’ora di avere un microfono davanti e poter registrare il contenuto del vecchio quaderno che si portava sempre dietro come un amuleto: i suoi pensieri sconnessi e cattivi avevano preso forma accompagnati dal riff di quelle chitarre, erano stati guidati da quei sapienti tocchi di basso.

E la solitudine di quelle lunghe ore d’aereo aveva riempito un’altra pagina, perché portare al limite le proprie paure, viverle sulla carta, per lui voleva dire anche esorcizzarle.

 

Lo studio di registrazione non era granché, ma era accettabile. Dave era appena stato ingaggiato come batterista ed il cantante stava per arrivare: tutto perfetto.

Jeff si sentiva abbastanza tranquillo per la scelta fatta, sia Stone che Mike erano stati entusiasti quanto lui nel sentire il nastro arrivato da San Diego: Cristo, quel ragazzo ci sapeva fare sul serio, Jack non aveva esagerato nel tesserne le lodi. Stone era il più eccitato di tutti ed a ragione, perché dopo tutto quelle melodie le aveva firmate lui, ci aveva speso su tempo e fatica. Vederle, o meglio sentirle, accompagnate da quelle parole, da quella voce, beh… ti faceva venir voglia di riempire altri fogli di note e scale.

Si sforzò di non pensare a qualche verso che gli aveva suscitato ben più di una perplessità, soprattutto cercò di non pensare ad Andy, perché la morte del precedente cantante era ancora troppo recente per non essere anche un doloroso monito.

E se…

No, il surfer di San Diego era un salutista, pure convinto vegetariano. Beveva e rollava come un po’ tutti dai quattordici anni in su sulle spiagge californiane –ma anche altrove -, ma stava lontano dall’ero, lui, così aveva detto.

Oddio, non dovevano essere fatti suoi quelli, ma vederne morire un altro sarebbe stata la sua fine. In un modo o nell’altro, sul ragazzo californiano stava giocando la sua ultima scommessa con la musica, perderla avrebbe implicato l’appendere il basso al chiodo per concentrarsi esclusivamente sulle sue illustrazioni e i suoi dipinti e i suoi skateboards.

In realtà la morte di Andy gli aveva fatto passare persino la voglia di disegnare, dal giorno del funerale di quel biondo idiota ambiguo non aveva praticamente più toccato matita o pennello. E, se non fosse stato per Stone prima, e per Chris poi, probabilmente avrebbe continuato a sfinirsi sul suo skateboard ancora a lungo senza pensare più né a colori né a scale di note.

Un assolo di Mike l’aveva bruscamente riportato alla realtà e si ritrovò a guardare l’orologio: ormai l’aereo da San Diego doveva essere atterrato già da un paio d’ore, si chiese come mai il nuovo cantante non fosse già arrivato in studio.

Decise di tenersi impegnato sulle note di Dollar Short, ma non riuscì nemmeno ad arrivare al refrain che qualcuno bussò alla porta.

Finalmente.

Poggiò il basso contro lo sgabello e si diresse verso la porta sotto lo sguardo attento di Mike e Stone che fingevano di suonare. Dave era chiuso all’interno della camera insonorizzata, quindi picchiava per davvero sui piatti.

“Ehi, ciao! Tu devi essere Eddie, io sono Jeff Ament, il bassista. Com’è andato il viaggio?”

“…Tutto bene, grazie…”

“Eh?”

Stone e Mike avevano smesso di fingere di suonare. McCready aveva lanciato un’occhiata perplessa al suo collega chiedendogli tacitamente delucidazioni che non avrebbe mai potuto ottenere:  perché nessuno aveva sentito quel che il nuovo venuto aveva detto.

Il loro presunto nuovo cantante era un ragazzo un po’ piccolino, con lunghi capelli chiari e ondulati, la pelle tesa e dorata dal sole californiano: l’esatto opposto di Andrew, insomma, che era alto, sottile e pallido come una bambola di porcellana, cui somigliava talmente tanto da essere continuamente vittima di abbordaggi di uomini non sempre abbastanza sbronzi da poter essere per questo giustificati.

Ma non era esattamente quello il problema che Jeff aveva subito registrato nel conoscere finalmente di persona quel Vedder che li aveva tanto impressionati su un nastro registrato, no. L’aspetto era l’ultima delle sue preoccupazioni.

“Dio questo qui nemmeno mi guarda in faccia mentre parla e si fissa le scarpe non riesco quasi a sentirlo!”

Come diavolo avrebbero fatto a metterlo su un palco a cantare? Era un disastro, un totale disastro: e avrebbe riso dell’assurdità di quella situazione se non avesse avuto l’impressione di vedere tutto il lavoro di quei mesi sbriciolarsi ai piedi di quel ragazzetto dagli occhi grigi.

Che razza di situazione.

“Beh… Ecco, loro sono Mike e Stone, ti ho parlato di loro al telefono.”

Cazzo non limitarti ad annuire, tira fuori la voce…

“Lì dietro ai vetri c’è Dave, Dave Krusen, il nostro nuovo batterista. Si è unito a noi da poco, ma forse ti avevo parlato anche di lui, non ricordo…”

E parla cazzo, smettila di annuire e mugugnare!

“…”

“…”

“Bene, allora…”

“…Possiamo cominciare a provare?”

Buon Dio, aveva parlato e persino alzato un po’ il volume, almeno era riuscito ad intuire quel che voleva.

Che avrebbe dovuto fare a quel punto? Non riusciva nemmeno a pensare in modo coerente, non riusciva a credere a quel che stava capitando, non riusciva a credere quello fosse lo stesso ragazzo con cui aveva parlato al telefono nelle due settimane precedenti, lo stesso ragazzo che aveva trasformato la loro Dollar Short in un pezzo meraviglioso. Lo stesso ragazzo dalla voce profonda e potente che ringhiava e piangeva da quel nastro registrato.

Eddie non aveva accennato ad alzare gli occhi dalle sue Dr. Martens, ma si era diretto piuttosto titubante verso il microfono. Stone e Mike avevano tirato un grosso sospiro accennandogli un sorriso di benvenuto – e conforto: pareva averne bisogno - prima di fare un cenno a Dave – che aveva assistito alla scena piuttosto perplesso - per far in modo desse il tempo. Jeff non era riuscito a non pensare di nuovo a quanto quella situazione fosse semplicemente assurda.

Jeff, sempre così tranquillo e pacato, non aveva potuto far altro che provare un guizzo di odio purissimo per quel bastardo di Irons che non solo non aveva accettato di suonare con lui, Mike e Stone, no: aveva anche avuto la faccia tosta di assicurare che li avrebbe aiutati comunque, che aveva tra le mani quel che avrebbe salvato loro il gruppo ed il sistema nervoso.

“È il cantante ideale per il vostro gruppo, vedrai che mi ringrazierete.” aveva detto strizzandogli le spalle con quelle sue dannate enormi mani da batterista.

In quel momento avrebbe voluto strizzargli le palle, altro che ringraziarlo.

Aveva ripreso a suonare stancamente il basso senza speranze residue quando le casse avevano cominciato a rimandargli lo stesso straziante colloquio che avevano ascoltato giorni e giorni prima sulla cassetta dei demo.

Ho una piccola storia da raccontarti…

Probabilmente era vero: dovevano solo continuare a tesserne la melodia, così che potesse arrampicarcisi senza cadere.

 End.

   
 
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