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Autore: baka_the_genius_mind    21/09/2010    9 recensioni
Stavo giusto cercando di capire cosa diavolo avesse di così stratosferico da attrarre gli sguardi da triglia di tutte le donne sposate o meno della “Tentazione” quando, alzando lo sguardo, incontrai un paio di occhi castano chiaro che mi fissavano, col rimasuglio di un sorriso sulle labbra.
Touchè, Riot. Fregata.
Otanjobi Omedeto, Riot.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Uruha
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dedicata a Riot Star.

Dedicata a lei perchè è un'autrice straordinaria, con un senso dell'umorismo massacrante e un talento invidiabile.

Dedicata a lei perchè me ne sono praticamente innamorata quando, al tempo di Miseinen ancora,

mi ha mandato una mail che ancora oggi vado a rileggere quando ho bisogno di conforto (te la ricordi?).

Dedicata a lei perchè è stata la prima scrittrice che io abbia messo fra le preferite e

perchè ancora oggi quando rileggo la sua “Distorted Daytime” mi sembra la prima volta.

Dedicata a lei perchè mi ha fatto conoscere una canzone strepitosa,

perchè mi ha contagiato con il suo amore per l'aeronautica

e perchè è la prima persona che incontro che conosca il videogioco delle pizze.


Dedicata a lei perchè sappia che,

anche se non glielo dimostro spesso,

la stalkero in ogni suo progetto,

sono una sua grandissima fan

e le voglio un mondo di bene.





Otanjobi omedeto Riot.









All you need is a RIOT




«No, Spike. Finisco alle quattro sta notte, devi portare tu la bambina.»


Mi blaterò nell'orecchio come una fastidiosa macchinetta senza pulsante di spegnimento.


Spike non era quel che propriamente si definiva un “padre modello”, anzi.


Era scostante, assente e assolutamente non sapeva trattare coi bambini. Un padre che aveva comprato alla figlia un cellulare per il suo terzo compleanno, per intenderci. Mi ero pure dovuta mettere a spiegargli come mai un telefonino non andasse bene per un bambina che a malapena sapeva articolare una frase di senso compiuto.


«Rika, non capisci. Elaine sta-»


«Non me ne frega nulla di cosa Elaine stia o non stia facendo»


Non era mai stato bravo con Emi, ma da quando Eliane era rimasta incinta, aveva smesso di darle anche quelle poche e discontinue attenzioni e quel poco, goffo affetto paterno che cercava di donarle.


Ed Emi non se lo meritava.


«Anche lei è tua figlia. Perchè devi trascurarla per un bambino che non è ancora nato?»


Silenzio.


Spike sospirò nella cornetta. «Non ho tempo Rika, pensaci tu.»


E mi riattaccò in faccia.


Pensaci tu.


Ci avevo sempre pensato io.


Anche quando, completamente al verde, mi ero ritrovata a far carico a costosissime spese mediche per non perdere quel piccolo miracolo che ancora non era venuto alla luce. Anche quando i medici le avevano scoperto una gravissima dislessia, ci avevo pensato io. O quando era tornata a casa in lacrime perchè delle compagne si scuola l'avevano presa in giro, oppure quando la maestra mi aveva convocato per riferirmi che la mia bambina era svogliata e non seguiva le lezioni. La mia bambina, che confondeva le lettere le una fra le altre come fossero state granelli di sabbia uguali fra loro, era stata definita una fannullona.


Lui non c'era, altrimenti forse avrebbe potuto impedirmi di prendere quella donna per il colletta della sua costosissima e firmata camicetta e sputarle in faccia una serie di improperi tali che il preside era intervenuto consigliandomi caldamente di rivolgersi ad un altro istituto.


«Riot, tavolo sette.»


Kuzotare, mondo. Continua pure a divertirti alle mie spalle, stronzo.


«Non mi chiamo Riot.» dichiarai lapidaria, afferrando il blocchetto e infilandolo frettolosamente nella tasca del piccolo grembiulino nero che portavo sopra la gonna. Sistemai frettolosamente la camicetta bianca, mi stampai in faccia un sorriso che doveva assomigliare più ad una colica acuta che ad una dimostrazione di affabilità e mi diressi verso il tavolo sette.


Il sette.


Il fiore dall'occhiello della “Tentazione”.


Un posto riparato dietro graziosi paraventi in carta di riso color pastello, circondato da sensuali vasi di rose rosso sangue e bianco neve, belle ed intoccabili, nascoste dietro spesse coltri di steli spinosi. Al centro del tavolo, un candelabro arzigogolato che ospitava cinque candele; i camerieri della Tentazione si assicuravano costantemente che rimanessero accese per tutta la durata della serata e, all'occorrenza, le cambiavano veloci come ombre, scusandosi per il disturbo e versando agli ospiti dell'altro vino.


Se fosse stato desiderio degli occupanti del sette, durante le stagioni calde i paraventi potevano essere aperti in modo da dare al tavolo una visuale aperta sul canale, illuminato con piccoli lampioncini simili ad abat-joure da esterno e ricoperto di ninfe e piante acquatiche d'ogni genere.


Chi sedeva al sette era sacro per la Tentazione, così importante che non era raro che, nelle serate in cui era prenotato, si preferisse togliere qualche tavolo e rinunciare così ad altri facoltosi clienti, per avere più camerieri ed offrire così il migliore fra i servigi al sette.


«Riot!»


«Ti ho già chiesto di non chiamarmi Riot, Chomei!»


Lui sorrise.


Era così abituato ormai, ai miei sbalzi d'umore, che quasi non ci faceva più caso. Mi dispiaceva che subisse i miei travasi di bile, lui che era sempre così buono e comprensivo, ma sembrava avere l'abilità particolare di riuscire a dire la cosa sbagliata nel momento meno opportuno.


E, quella sera, l'unica cosa che volevo era la riesumazione di quel soprannome che ormai solo pochissime e fidate persone usavano.


«Tavolo sette?»


Annuii, cercando di dribblarlo.


Era dovere di ogni singolo dipendente della Tentazione evitare ogni più piccolo disagio agli occupanti del sette. Bisognava, perciò, trovare il momento giusto per andare a raccogliere gli ordini. Nè subito, in modo da non far sentire l'ospite braccato come una volpe nella stagione di caccia, nè troppo tardi, per non fargli pensare di non essere al centro esatto dei nostri pensieri lavorativi.


I clienti del sette andavano viziati come principessine.


«Janine sta cercando l'assegnato al sette da almeno venti minuti.» sussurrò ridacchiando quello spostato di capo cameriere, per poi richiamare con un gesto una graziosa ragazza dai capelli color cioccolato che si guardava nervosamente attorno e che, disgraziatamente, sembrava uscita da una rivista di moda anche con la divisa, i capelli legati e l'aria di un festoso cagnolino da compagnia.


Dopo aver controllato che nessuno avesse bisogno di lei -come un buon cameriere sempre deve fare- si precipitò a spron battuto verso di noi, sorridendo esageratamente e quasi travolgendomi.


«Tavolo sette?!»


Sorrisi. «Scommetto che ci sono i tuoi principi azzurri.»


Annuì con foga.


«Te lo cedo volentieri.»


Dribblai poco cortesemente il suo abbraccio entusiasta e, mormorandole un muoviti! affrettato all'orecchio sinistro, mi teletrasportai accanto all'anziano signore del tavolo nove che mi chiese un'altra bottiglia di vino. Mi inchinai con un sorriso, scusandomi per non averci pensato da sola, e mi apprestai ad ubbidire.


Nella mezzora successiva mi occupai dei miei clienti -tavolo cinque, sei e otto- sorridendo a destra e a manca, ringraziando umilmente coloro che mi lasciavano mance e accettando i complimenti per le pietanze, promettendo a tutti di riportare i complimenti allo chef.


Quando riuscii ad avere un attimo di respiro mi piazzai dietro il bancone del bar, accanto all'esercito di moke di cui il barman italiano si era circondato. Sospirai, cacciando fuori dalle tasche fino alla più piccola ed insignificante monetina che quei facoltosi uomini d'affari, accompagnati da moglie ingioiellate e piccoli bambolotti con gli occhi azzurri, mi avevano lasciato.


Non sarei neanche riuscita a pagarmi un paio di jeans al mercatino dell'usato.


Vecchi spilorci.


Ero completamente al verde.


Per essere una cameriera di uno dei ristoranti più lussuosi e costosi di tutta Tokyo, guadagnavo una miseria.


«Rika! Tavolo tre!»


«Te lo ricordi il mio nome, eh?»


Chomei rise, porgendomi il blocchetto che, come al solito, avevo dimenticato da qualche parte.


«Non credo che all'otto interessi il tuo blocco.»


«Simpatico. Davvero Cho, ti eleggo Uomo Simpatia del 2010.»


«Siamo acide questa sera? O dovrei dire questa mattina?»


Lanciai una distratta occhiata all'orologio appesa all'ingresso, un costoso marchingegno dalle lancette sottili e scintillanti e dai numeri laccati in oro. Pessimo gusto. Ma ai ricchi piacevano quelle chincaglierie.


Le tre e trenta.


Tempo mezz'ora e sarei potuta tornare a casa. Ci sarei arrivata circa alle cinque, dal momento che essa distava dalla “Tentazione” quaranta minuti e con quel catorcio di automobile -l'unico che potessi permettermi- cercavo di procedere il più adagio possibile.


Avrei trovato Hanae ad attendermi, quell'angelo di Hanae che si sarebbe svegliata più o meno mezzora dopo il mio arrivo, probabilmente trovandomi crollata sul divano, e sarebbe uscita per andare al lavoro, ricordandosi di piazzarmi una sveglia che, dopo neanche un'ora di sonno, mi avrebbe fatto saltare fin sul soffitto, appena in tempo per portare Emi a scuola.


E tutto questo perchè Eliane aveva la prima ecografia.


Spike non si era degnato di venire neanche quando avevo partorito quella creatura.


Chomei mi alzò il mento con due dita.


«Ehi, Rivolta! Tutto a posto?»


Neanche quando mio fratello era morto aveva smesso di chiamarmi Riot, nonostante più volte l'avessi quasi pregato di non ricordarmi quella perdita. Lui mi aveva ignorato esemplarmente, imitato alla stragrande dal mio principale e da Hanae. E spesso e volentieri anche da Janine.


Gli sorrisi. «Fammi andare a casa, Chomei, ti supplico.»


«Porta il sakè al tavolo sette e poi non voglio più vederti fino a sabato.»


Gli baciai una guancia, dirigendomi poi al sette con il vassoio d'argento.


Il sette era occupato da loro.


Probabilmente i clienti più importanti nella storia del locale, venivano viziati come sultani quando arrivavano. Per loro veniva riservato il sakè migliore e usate le tovaglie dalle sete più ricche che la “Tentazione” possedesse; quando loro ordinavano lo chef preparava ogni singola pietanza con la precisione di un monaco amanuense e i loro ordini avevano la precedenza su quelli di chiunque fosse arrivato prima, si trattasse anche dell'imperatore.


Trassi un gran sospiro, mi stampai in faccia un sorriso e varcai il paravento.


Effettivamente, visti tutti e cinque assieme, erano di grande impatto. Assortiti con una perfezione maniacale, sembravano la vetrina di una boutique di lusso o il fotogramma patinato di un film.


Inquadrai subito quello che Janine mi aveva spiegato -con gli occhi a forma di cuoricino- essere il cantante. Piccolino (anche se decisamente più alto di me), con un sorriso sprezzante e degli occhi dalla forte personalità. La sua statura superava di poco il metro e mezzo, ma era decisamente imponente. Cambiava pettinatura e tinta come si cambiano i calzini e io me lo ricordavo solo ed esclusivamente per le lenti a contatto praticamente bianche che usava e per quei tatuaggi sulla gola, simili a squarci realizzati da una fiera imbestialita.


Mi era rimasta molto impressa una sua foto in cui portava un acconciatura tutta basata su lunghi dread raccolti in una grossa coda, ma quella sera i suoi capelli gli cadevano poco al di sotto del mento, erano castano scuro e leggermente mossi. Ammisi che con un viso del genere poteva osare molte pettinature particolari che in testa a chiunque altro sarebbero risultate solo ridicole.


Il batterista (la mia amica mi aveva parlato di loro così tanto che bene o male era riuscita a crearmi dei deboli collegamenti mentali fra volto e strumento) era da mangiare. Avresti voluto stropicciargli le guance solo per assicurarti che fossero vere e il suo sorriso era così genuino, spontaneo e sincero da sembrare finto.


In mezzo a quattro uomini dalla bellezza prorompente e talvolta anche aggressiva, il suo punto di forza stava in un volto semplice ma strepitoso e, soprattutto, da quelle dannate fossette.


Janine si chiedeva spesso, intercalando tali domande ai fiumi in piena che mi travolgevano quando cominciava a parlare di loro, perchè il Leader (nome con cui il ragazzo era universalmente riconosciuto e che io tendevo a scordare, facendo seguire alle sue parole, di conseguenza, un Chi?? alquanto perplesso e acuto) avesse sempre, nei photoshoot, un'espressione così arcigna nonostante il sorriso fossettoso avrebbe fatto svenire donne di qualsiasi età; io mi limitavo a scrollare le spalle, borbottando un vago e veramente poco interessato mah, chissà! a cui lei rispondeva - chiudendo così un quadretto che si ripeteva uguale ogni volta - esponendo una delle sue granitiche e incrollabili convinzioni basate sul nulla più assoluto (mi faceva così ridere questo lato così Janine di lei, che le volevo un mondo di bene anche se mi stressava l'anima con quei cinque).


Ovvero che quel poveruomo nell'intimità, dietro sorrisoni, trucco leggero e fossette, fosse, sue testuali parole, un ninfomane pervertito e affamato di sesso.


Riconoscevo senza alcuna fatica uno dei due chitarristi perchè aveva un piercing nero al labbro, che non aveva altro scopo se non quello di completare diligentemente l'armonia già perfetta di quel viso; portava i lunghi e lisci capelli sciolti sulle spalle. Io, che in barba al fatto che il mio albero genealogico affondasse le sue radici in generazioni e generazioni di giapponesi purosangue, avevo ricevuto in eredità una chioma vagamente mossa e di un colore a metà fra il castano e il biondo, una sorta di beige scuro molto sbiadito, avrei dato una mano per quella cascata d'inchiostro.


Il bassista era il più riconoscibile; vuoi perchè aveva quella fascetta sul naso vuoi perchè quei capelli biondi sparati in mille direzioni si notavano. Quella sera il suo volto era scoperto e ammetto che mi faceva uno strano effetto, per quanto potesse farmi effetto il bassista di un gruppo del quale non conoscevo pressoché nulla.


Janine era innamorata persa di Reita.


Aveva perfino, alla veneranda età di quasi venticinque anni, un poster gigantesco che copriva gran parte della parete a sinistra della sua camera, raffigurante lui assieme al suo basso.


Personalmente lo ritenevo molto più che ben fatto, ma aveva qualcosa, in quello sguardo accentuato e carismatico, che mi dissuadeva dal dargli troppa attenzione. Solo dopo un bel po' di volte che la Tentazione aveva ospitato i Gazetto, che Janine aveva risposto agli sguardi di Reita con principi di svenimento e che il tavolo sette era stato imbandito come se si dovesse ospitare l'imperatore in persona, mi ero resa conto di cosa, in quegli occhi, mi mettesse a disagio.


Era lo stesso sguardo che aveva Spike la sera in cui era cambiata la mia vita, lo sguardo di un uomo bello e consapevole d'esserlo. Avevo perso troppo, lasciandomi abbindolare da uno sguardo simile, perchè fossi così sciocca da caderci una seconda volta.


In compenso, se Janine non perdeva una sola occasione per sospirare in direzione del bassista dei suoi sogni proibiti, era l'ultimo componente del gruppo ad aver attirato il mio interesse, per quanto la cosa mi infastidisse non poco.


Il chitarrista solista era alto, forse il più alto della band (il che significava che per me era una sottospecie di gigante, dal momento che avevo sommariamente calcolato che gli altri, tolto il cantante, avrebbero potuto comodamente appoggiarsi alla mia testa con un gomito), coi capelli color rame, tendente al rossiccio. Aveva due mani che avrebbero suscitato (e forse suscitavano veramente) le invidie di qualsiasi donna ci posasse sopra lo sguardo, comprese le mie. Era umiliante, per una ragazza, dover scendere a patti col fatto che un paio di mani del genere appartenessero ad un uomo.


Non avevo mai avuto direttamente a che fare con i Gazetto. Quando mangiavano alla Tentazione, Janine rispolverava un'agilità atletica sorprendente nel battere le altre cameriere e accaparrarsi il tavolo sette, anche grazie a sleali aiuta da parte mia e di Chomei.


Le poche volte che avevo visto quell'uomo staccato dal suo gruppo, mi ero stupita del fatto che attirasse tanti sguardi.


Alzai mentalmente le spalle, posando il vassoio coi bicchierini di sakè sul loro tavolo; i cinque mi ringraziarono e io mi profusi in un inchino degno della corte del re di Francia.


    Certo era uno dei musicisti più famosi del Sol Levante e aveva una bellezza al di sopra della media. Ma non bastava questo a renderlo così magnetico.

    Stavo giusto cercando di capire cosa diavolo avesse di così stratosferico da attrarre gli sguardi da triglia di tutte le donne sposate o meno della “Tentazione” quando, alzando lo sguardo, incontrai un paio di occhi castano chiaro che mi fissavano, col rimasuglio di un sorriso sulle labbra.

    Touchè, Riot. Fregata.

Avrei dovuto chinare capo e sguardo, allontanarmi dal tavolo; ma rimasi stupidamente incantata, quasi a bocca aperta.


Dei, quegli occhi!


«Sei nuova alla Tentazione?»


Mi sforzai di voltarmi verso la voce che mi aveva chiamato. Il bassista, Reita, mi guardava con uno strano sorriso sul volto. Con un brivido rividi in quegli occhi sottili, da cacciatore, una pericolosa scintilla che era stata la mia rovina e nello stesso tempo la mia salvezza, anni prima.


Mi sforzai di ricordare i pomeriggi (una quantità molteplice di pomeriggi) in cui Janine mi aveva riempito la testa di lodi riguardo quell'uomo e cercai di racimolare quanto più materiale fosse possibile per non fare una figura da chiodi. E devo dire che, a parte i vari Oh, Dei, ma guarda quanto è bello!, non riuscii a rievocare molto.


«No, Suzuki-sama. Lavoro qui da quasi sei anni.»


Ero anche riuscita ad azzeccare il cognome, non ci avrei mai scommesso.


Reita inclinò il volto, guardandomi con una strana luce negli occhi.


Indubbiamente era bello, tutti e cinque lo erano in modo diverso e spaventoso.


«Non ti avevo mai vista... Sei molto carina.»


Arrossii istantaneamente, sbattendo le ciglia come un cerbiatto intimidito.


Riot, tieni quegli occhi incollati al pavimento. E, per la pietà degli Dei onnipotenti, non farti mettere nel sacco da quello sguardo!


«Ryo...» mormorò qualcuno con un tono di vago rimprovero.


C'era qualcosa, in quella sottospecie di bambola dagli occhi portentosi, che stonasse, accidenti?


Aveva una voce dal timbro tipicamente maschile, ma, incredibile a dirsi, gli stava divinamente pure quella ed era così perfettamente in contrasto con la dolcezza dei lineamenti da suscitare in qualsiasi persona una curiosa attrazione.


«Ryo, sei ubriaco.» mormorò con indolenza il cantante, accendendosi una sigaretta. Ovviamente alla Tentazione era vietato fumare e altrettanto ovviamente il vocalist dei Gazetto avrebbe potuto dare fuoco alla tovaglia senza che nessuno si sarebbe azzardato a togliersi dal volto un'espressione devota e servizievole.


«Non è vero.»


Non sapevo cosa fare.


Da un lato mi era proibito categoricamente dare le spalle ad un ospite che mi stava rivolgendo la parola, a maggior ragione ad un cliente del tavolo sette, soprattutto se era il bassista dei GazettE. Dall'altra l'unica cosa che volevo fare era fuggire da quello sguardo invadente e tornarmene a casa.


C'era poi una parte di me, chissà quanto grande e quanto importante, che non riusciva a distogliere l'attenzione dal chitarrista, che peraltro mi stava ancora osservando come se fossi il nuovo arrivato ad una festa, un sorriso appena accennato su quelle labbra da mordere e una tranquilla curiosità nello sguardo.


C'era una cosa, fra le miriadi di notizie che mi aveva snocciolato Janine. che mi si era stampata in testa come un incisione a fuoco e che sembrava quasi pulsare quando mi ritrovavo a pensare a lui.


Si chiamava Kouyou, come mio fratello.


Decisi che la cosa più saggia da fare fosse allontanarmi il più velocemente da quel tavolo e farmi promettere da Chomei che non mi avrebbe mai più assegnato al sette. Avevo perso troppo, lasciandomi intrappolare da uno sguardo del genere e mi conoscevo a sufficienza per sapere che potevo ricascarci.


Mi inchinai brevemente, auto-congedandomi con un'abilità impressionante e feci un rapidissimo dietrofront.


Sarebbe stato decisamente troppo chiedere agli Dei di distrarre momentaneamente quegli occhi da cacciatore per permettere a me, piccolo coniglietto spaurito, di darmela a gambe. Decisamente troppo. E mia madre mi diceva sempre che non bisogna essere egoisti.


Sussultai come una frusta ancora prima di rendermi conto di cos'era successo e la mano affusolata di Reita era ancora sfacciatamente appoggiata sul mio sedere quando mi voltai. Il suo viso era un ghigno malizioso.


Solo quando vidi le mie dita stampate in rosso sulla sua guancia, mi resi conto di ciò che avevo fatto. Tutti e cinque mi stavano guardando come fossi un alieno, in particolar modo Reita a cui, se non fossi stata così sconvolta, avrei consigliato di chiudere la bocca onde evitare di fari strisciare la mascella sul pavimento.


Mi portai la mano incriminata dietro la schiena, come se potessi in qualche modo negare il delitto che avevo commesso. Solo poi mi resi conto che niente e nessuno avrebbe potuto salvarmi dalle conseguenze delle mie azioni.


Avevo schiaffeggiato il bassista dei Gazetto!


Cominciai a piangere, silenziosa ed immobile come una roccia, senza neanche rendermene conto.


Sembravamo nel bel mezzo di una agonistica partita a Le belle statuine tale l'immobilità che ci aveva preso. Poi il cantante – il cui nome mi sembrava avesse a che fare con un demone – si riscosse e riprese a fumare con indolenza. Le sue labbra si tesero in un pacato sogghigno, mentre soffiava il fumo dalle narici.


«Ben ti sta, tonno.»




~




«Moshi moshi?»


«Ha-hanae?»


Dall'altro capo del telefono ci fu un attimo di silenzio.


«Cos'ha fatto quello stronzo?» sibilò poi a voce bassa, improvvisamente molto più sveglia di come mi aveva risposto.


Rimasi così sbigottita che smisi all'istante di singhiozzare silenziosamente e scollegai momentaneamente il cervello.


«Come fai a saperlo?» mormorai incredula.


«Dei del cielo, vi prego, fermatemi prima che venga lì e faccia una strage!» esclamò lei, quasi gridando. Lanciò poi un'imprecazione così indecente che mi ritrovai a pregare che la mia Emi non fosse in ascolto.


«Hanae...»


«Non dirmelo, non dirmelo!» berciò lei, fuori controllo «Scommetto che quella si è rotta un'unghia e perciò lui non può portare Emi-chan a scuola!»


E mentre Hanae, mia coinquilina, nonché mia migliore amica e mia personale guardia del corpo, mormorava un tenerissimo no, piccina, non succede nulla, torna a fare la nanna, molto probabilmente riferito a mia figlia, mi resi conto che non stavamo decisamente parlando della stessa persona.


«Ma ce l'hai con Spike?»


«E con chi dovrei avercela?»


Forse con un coglione di bassista a caso che mi ha appena fatto perdere il posto?


Sospirai, mentre le lacrime minacciavano di rompere nuovamente gli argini.


«No, niente. Hanae, devi farmi un favore...»


«Non prima che tu mi abbia detto chi ti ha fatto piangere, dal momento che sembra io abbia insultato Spike per nulla.» fece una piccola pausa, ponderando su ciò che aveva appena detto; emise uno sbuffo e io fui certa che dall'altra parte della cornetta lei avesse agitato una mano in aria, rifiutandosi anche di prendere in considerazione l'idea che Spike non meritasse degli insulti a vuoto.


«C'è un problema al lavoro. Devi portare Emi a scuola. Anche prima dell'apertura, le bidelle mi conoscono e sanno che ho degli orari incasin-»


«Che genere di problema lavorativo può far piangere te


Chiusi gli occhi. Hanae aveva un intuito che mi risparmiava spesso e volentieri la fatica di aprire bocca e parlare.


«Un problema che rischia di farmi perdere il posto.» intravidi Chomei che mi faceva un inequivocabile cenno col mento «Devo scappare Hanae, ti racconto tutto questa sera.»


Vivevamo assieme, eppure potevamo vederci solamente un'ora alla sera e il venerdì. Aveva minacciato di dare le dimissioni alla casa editrice, se il direttore non le avesse concesso di avere il giorno libero assieme a me e quell'uomo era stato abbastanza sveglio da accontentarla al più presto.


Il venerdì era una festa per tutta la nostra ristretta famiglia di sole donne.


Portavamo assieme Emi a scuola e poi passavamo un'intera mattinata assieme, anche sedute sulla panchina del parco, con l'immancabile termos del caffè e la bocca piena di chiacchiere. Poi, all'una, passavamo a prendere la piccolina alle elementari e andavamo a pranzo fuori, poi al parco giochi, al cinema o allo zoo, o dovunque volesse lei. Era la principessa della giornata.


Non sapevo se il pensiero di poter avere una quantità enorme di giorni liberi da dedicare alla mia Emi mi desse più gioia o angoscia.


«Hana-chan, ti prego. La bambina.»


Capitolò con un sospiro, ma io non gli permisi di pronunciare alcunché; Chomei si stava avvicinando frettolosamente.


«Arigato, tesoro. Ti voglio bene.»


Interruppi la telefonata con un sospiro pesante.


«Rika...»


«Sì... Arrivo, sì.» mormorai infilando il cellulare nella borsa e seguendolo fino alla porta del capo. Mi diede un affettuoso colpetto al gomito col dorso della mano e gli risposi con un sorriso sincero.


Dovevo entrare nelle ordine d'idee che non mi sarei più alleata con quel ragazzo scarno e dinoccolato per far arrivare gli ordini del sette a Janine.


Alzai gli occhi al soffitto, mentre bussavo.


Janine mi avrebbe fatto a fette appena avesse scoperto che avevo schiaffeggiato l'amore della sua vita.


Sogghignai.


Salvo poi chiedermi con voce trepidante come fosse stato toccare il suo viso.


«Avanti!»


Junnosuke Fujishima mi rivolse un'occhiata severa.


Lavoravo alla Tentazione da ben prima di incontrare Spike e rimanere incinta. Junnosuke era stato un po' come un padre per me: mi aveva dato più di anno di ferie pagate quando avevo scoperto di aspettare Emi, quando qualsiasi altro proprietario mi avrebbe semplicemente licenziato appena il mio ventre avrebbe cominciato ad arrotondarsi. Mi aveva aiutato moltissimo, anche quando la difficile gravidanza aveva richiesto spese mediche molto al disopra del mio stipendio. Se guadagnavo così poco in quel periodo era perchè gli stavo ancora tornando quanto mi aveva generosamente prestato.


Scherzando, mi definiva la sua figlioccia.


Oltre alla pacata disperazione che provavo nel trovarmi improvvisamente senza lavoro, nel mio cuore c'era spazio anche per un profondo sconforto nato dalla delusione che vedevo nei suoi occhi.


«Riot, l'uomo cui hai appena rotto il setto nasale è Takashima-sama.»


Kouyou apparve quasi dal nulla con un sorriso sulle labbra e in quello mi accorsi di avergli praticamente sbattuto la porta sul naso quand'ero entrata.


Avvampai.


«Perdonatemi...» sussurrai con un filo di voce.


«Non fa nulla, non si preoccupi.»


Cadde un silenzio opprimente; dopo qualche istante di vuoto assordante capii che entrambi si aspettavano che dicessi qualcosa.


Mi inchinai a lui quanto più profondamente e sinceramente mi riuscii, la qual cosa mi permise di nascondere il volto in fiamme e gli occhi liquidi dietro i capelli.


«Sono... mortificata. La prego di portare le mie più sentite scuse a Suzuki-sama. Forse potrei venire a porgergliele io stessa alla casa discog-»


«Credo che dovrebbe avvenire il contrario.»


Alzai confusa gli occhi e mi ritrovai a fissare il suo sguardo limpido.


Riot, abbassa lo sguardo, ora.


«In mie modesta opinione, sarebbe Ryo a dover venire qui da lei. E soprattutto dovrebbero essere lui a farle le sue più sentite scuse per essere stato così maleducato.»


Stavo sognando o quell'uomo mi stava difendendo quando aveva malmenato ferocemente uno dei suoi migliori amici?


«Ero intenzionato a licenziarti, Riot.»


Mi voltai verso Junnosuke con gli occhi sbarrati, il cuore al galoppo.


«Conosco bene la storia che hai alle spalle.» arrossii e provai un moto di irritazione; non mi piaceva che la prova tangibile della mia stupidità ed ingenuità venisse sbandierata, soprattutto se c'erano di mezzo estranei «Tuttavia voglio sperare che sia stato un episodio isolato.»


Il mio inchino fu così profondo ed entusiasta che rischiai quasi di cascare ai suoi piedi; barcollai leggermente, mentre un involontario sorriso mi piegava le labbra.


«Assolutamente sì, Fujishima-sama. Sono desolat-»


«Non devi impressionare nessuno, Riot.» mi riprese bonariamente, e con la coda dell'occhio vidi Kouyou accennare un sorriso «Chiamami come fai di solito.»


Annuii, il capo ancora chino.


«Ti ringrazio infinitamente, Junno.»


«Non me, Riot. Ringrazia Takashima-sama se continuerai ad indossare quella divisa.»


Mi ricomposi in tempo per intercettare uno sguardo del chitarrista.


Quegli occhi.


«Ora, se volete scusarmi, vado a dire a Chomei di rifiutare anche un solo yen per la cena.»


...cena che io ovviamente dovrò rimborsare di tasca mia.


Quel sorriso composto si accentuò, quasi abbagliandomi.


«Mi perdoni Fujishima-sama, tempo di aver erroneamente allungato un assegno al vostro capo cameriere prima di raggiungervi.» mormorò con voce tranquilla.


Non erano in molte le persone che potevano vantare di aver preso in contropiede Junnosuke. Questi inarcò deciso un sopracciglio, ma lo lasciò ricadere morbidamente con un sorriso. Si inchinò senza pronunciare una parola e uscì dall'ufficio, chiudendosi la porta alle spalle e lasciandoci soli.


Tanto di cappello, biondino.


Era notte fonda e io ero chiusa dentro ad una stanza col chitarrista solista più famoso di tutto il Sol Levante. C'erano ragazze (e supponevo a buon ragione, anche ragazzi) che avrebbero venduto l'anima al miglior offerente dello Yomi per trovarsi al mio posto, e la sola cosa che riuscii a fare fu esalare un sospiro carico di sollievo e lasciarmi cadere sulla poltrona in pelle davanti alla scrivania.


«Posso darti del tu?»


Alzai lo sguardo sul suo viso con uno scatto. Ero così spossata dal nervosismo e dall'ansia che dimenticai perfino i convenevoli e mormorai un flebile .


«Posso farti una richiesta?»


Anche la Luna se me la chiedi con quel sorriso.


Annuii, incapace di proferire parola.


«Dammi del tu.»


Mi alzai lentamente e la severa educazione che mi era stata impartita mi piovve in testa come un secchio d'acqua: mi prodigai in un inchino da manuale, salvo poi rendermi conto di cosa effettivamente mi aveva chiesto.


«Del... tu.» ripetei, convinta di aver capito male.


Ma lui annuì, accecandomi con un ennesimo sospiro, poi fece un piccolo inchino.


«Molto piacere, Rika...» mormorò dando un'occhiata alla traghetta che portavo appuntata al seno e mi chiesi per quale astrusa ragione uno sguardo così innocente riuscisse ad imbarazzarmi «...mi chiamo Kouyou.»


Kouyou.


«Lo so...» ribattei stupidamente.


Inclinò lentamente il volto e i capelli gli scivolarono su una spalla. Un sorriso portentoso gli piegò le labbra.


«Sei una nostra fan?»


Scossi la testa.


«C'è una mia collega, Janine, che non fa altro che parlare di voi, così...»


«Ah, sì. Credo di aver capito chi è. Ryo ha fatto lo scemo anche con lei.»


Mi scappò un sorrisetto. Anche per una persona poco avvezza allo star system e al caleidoscopico mondo dei fan come me, era palese che una fangirl come Janine avrebbe dato anche un braccio per essere palpata dal bassista dei Gazetto.


Alzai lo sguardo sul suo viso e mi presi la libertà di studiarlo. Era semplicemente indecente che un uomo avesse della labbra così carnose e sensuali.


Mi riscossi appena in tempo per accorgermi del cenno che mi faceva: ubbidii e presi posto sul divanetto di pelle; lui si sedette accanto a me, appena oltre la linea invisibile che distingueva la spazio vitale di ogni persona e che, oltrepassata, avrebbe rivelato un'interesse o un'invadenza ai limite della maleducazione.


Il profumo forte ma piacevole della sua colonia mi avvolse la mente.


«Devi perdonare Ryo.»


Accavallò le gambe con un movimento che avevo visto così aggraziato solo da alcune avvenenti clienti della Tentazione. Rimasi quasi incantata dall'eleganza di quel semplice movimento e feci forza su di me per spostare lo sguardo al suo volto.


Come cadere dalla padella alla brace – Dieci mosse per infinocchiarsi da soli” di Rika Yamashita.


«Di solito non è così... così...» corrugò la fronte, in cerca di un aggettivo adeguato.


«Idiota?» suggerii io acidamente, prima di rendermi conto dell'ennesima gaffe. Sembrava che quell'uomo mi togliesse la capacità di ragionare lucidamente e lasciasse al suo posto un criceto obeso che non era in grado di far muovere la ruota neanche rotolandoci sopra.


Sghignazzò, portandosi una ciocca color miele dietro l'orecchio.


Tirai un mentale e profondo sospiro di sollievo. Finalmente. Erano almeno cinque minuti che resistevo stoicamente alla tentazione di sistemargliela io stessa.


«No, mi spiace, idiota lo è sempre. Volevo dire maleducato.»


Mi regalò all'improvviso un sorriso dolcissimo.


Terra chiama Riot!


«Perciò perdonalo, in condizioni normali sono certo che non l'avrebbe mai fatto. Era solo ubriaco.» aggiunse con un sorriso, a mo' di scusa.


Mi irrigidii, raggiungendo la solidità di una statua di marmo.


«Non avevo nessuna intenzione di metterti incinta, troia, ero ubriaco!»


Strinsi le dita fino a conficcarmi le unghie nella carne e a sbiancarmi le nocche.


«Ti devo ricordare per la milionesima volta che non volevo una figlia e che ero ubriaco?»


Sbuffai una risata amara come fiele.


«Ero ubriaco, Rika, ficcatelo in quella testa.»


«Certo.» mormorai amaramente, facendo un sorriso tirato. Mi lisciai la gonna sulle gambe con un movimento stizzito, prima di alzarmi.


Dovevo uscire da quella stanza prima di perdere il controllo o Junno non ci avrebbe pensato due volte prima di licenziarmi.


«Le auguro una buona serata, Takashima-sama.» sibilai acidamente e infilando la porta.


Sentii il rumore della pelle del divano che si piegava su se stessa, quando lui alzò rapidamente.


«Ho detto qualcosa di sbagliato?»


Riot...


«No, affatto!» mi voltai verso di lui, quasi strillando «Voi uomini tirate fuori la scusa dell'alcool ogni volta che non avete voglia di prendervi le vostre responsabilità.» feci una pausa, tirando il fiato, mentre lui sgranava gli occhi «Non volevo causare un incidente stradale, ero solo ubriaco!» la voce mi si spezzò in un singhiozzo e gli argini si ruppero definitivamente dopo sei anni «Non volevo stuprarla e metterla incinta, ero ubriaco!» soffiai senza fiato, le guance ardenti e gli occhi gonfi di lacrime.


«Rika...»


«Se non abitassimo in una società così schifosamente maschilista io avrei avuto tutto il diritto di schiaffeggiare quel maiale del suo amico fino a domani mattina, invece di umiliarmi a porgere le mie scuse.»


Junno si precipitò dentro la stanza, probabilmente attirato dal tono alto della mia voce.


«Che succede?» domandò truce a tutti e a nessuno. Lo conoscevo da molto tempo, ma non riuscii a capire se stesse fulminando me per star creando altri problemi o Kouyou per le lacrime che rigavano le guance della sua figlioccia. Era sempre stato estremamente rispettoso coi suoi clienti, ma era nello stesso tempo un uomo molto onesto che detestava le ingiustizie e le angherie.


A suo tempo avevo dovuto convincerlo a non andare di filato da Spike per riempirlo di botte. Cosa della quale a volte mi pentivo.


«Niente.» sibilai, cercando di recuperare anche solo un pelo di dignità «Io e Takashima-sama stavamo scambiandoci alcune opinioni.»


Feci un grosso respiro, inchinandomi scompostamente ad entrambi, prima di uscire dall'ufficio sbattendomi la porta alle spalle.




~




«Non capisco perchè ti mortifichi tanto!»


Trassi un gran sospiro, addentando un panino al prosciutto crudo; ce ne erano altri due nella mia borsa, avremmo dato il tempo ad Emi di mangiarli all'ombra di un albero e poi l'avremmo portata al luna park itinerante che si era stabilito nel parcheggio del Tokyo Dome. Speravo solo che la mia bimba fosse grande abbastanza da non pretendere la mia presenza sul Bruco Mela; sapevo per certo che non avrei resistito ad un altro viaggetto con le ginocchia in bocca.


«Hanae, non l'ha detto per ferirmi...»


«E vorrei ben vedere! Se l'avesse fatto ci sarebbe un bassista in meno al mondo!»


«È il chitarrista lui. Il bassista è quello che mi ha palpato.»


Liquidò la mia precisazione con un gesto della mano. Finì di inghiottire il boccone e poi riprese con la sua polemica contro il povero Kouyou.


Mi rendevo conto perfettamente che non meritava assolutamente il mio travaso di bile e che la sua unica colpa fosse stata trovarmisi davanti in quella serata di reazioni esagerate. Avrei voluto domandargli scusa per la mia maleducazione, ma avevo convenuto con Hanae che meno avrei visto quel gruppo in futuro, meglio avrei vissuto la mia vita. La sera prima avevo chiesto a Chomei di non assegnarmi più al sette, se i Gazetto lo avessero occupato, e lui era stato molto comprensivo.


Il suono della campanella della scuola interruppe il mio flusso di sensi di colpa e le parole di Hanae.


Mi alzai dalla panchina in tempo per vedere quella testolina di capelli ricci venirmi incontro correndo, la divisa sbottonata e uno sbaffo d'inchiostro sulla guancia.


Fin dalla prima volta che l'avevo presa in braccio mi ero perdutamente innamorata di lei e l'avrei amata anche se fosse stata un orco. Ma durante la sua crescita avevo tirato un sospiro di sollievo: Emi era identica a me e non somigliava a Spike neanche nella forma delle orecchie. Non avevo esultato per la piccola rivincita che avevo preso su di lui, ma perchè ogni volta che avrei posato lo sguardo su di lei, avrei visto mia figlia, e non l'errore che mi era costato l'università.


D'altra parte, quei capelli neri e ricci venivano fuori praticamente dal nulla, dal momento che sia io che Spike avevamo capelli mossi e castani.


«Mamma!»


Mi saltò in braccio con l'entusiasmo di un cucciolo e io la strinsi a me con tutte le forze.


«Anima mia, com'è andata a scuola?»


Emi richiese un abbraccio anche alla “zia Hana” e poi si voltò con un sorriso gigantesco in volto.


«Guarda!» strillò eccitata, togliendosi dalle spalle l'enorme zaino e frugandoci dentro; ne tirò fuori un spelacchiatissimo coniglietto di pezza che le avevo fatto io stessa, riportando alla memoria polverosi ricordi di lezioni di cucito. L'avevo imbottito con del cotone, ma le mie scarse doti di cucitrice avevano fatto sì che un'orecchia gli penzolasse sul bottone nero che gli fungeva da occhio sinistro, mentre l'altra stava dritta come un soldatino in aria. Recentemente poi, il simpatico codino gli si era proprio staccato, provocando pianti infiniti ed inconsolabili.


«La maestra Utaku ha aggiustato Mikki-chan!» esclamò Emi agitando Mikki-chan in aria con così tanta foga ed entusiasmo che sfuggì da quelle piccole manine e cadde a terra pochi metri più in là.


Lei trattenne il respiro, portandosi una manina alla bocca e precipitandosi in soccorso del suo coniglietto.


Ma Kouyou arrivò prima.


Sbucò praticamente dal nulla, raccolse il pupazzo fra le mani e lo spolverò delicatamente, con un sorriso intenerito in volto; Emi, che si era cristallizzata sul posto appena si era accorta della sua presenza, fece un rapidissimo dietrofront, nascondendosi dietro le mie gambe.


Gambe la cui padrona era rimasta stupidamente con l'ultimo boccone del panino a mezz'aria, il golf pieno di briciole e un'espressione da idiota in volto. Arrossii come un pomodoro maturo senza riuscire ad impedirmelo.


Dannazione. Alla luce del sole era ancora più affascinante.


«È tuo?» domandò con dolcezza ad Emi, la quale lo stava guardando come fosse un alieno verde fosforescente. Lei annuì timidamente, sempre continuando ad usarmi come scudo umano.


Kouyou si avvicinò lentamente, accovacciandosi accanto alle mie gambe e tendendo il pupazzo verso mia figlia, la quale esitò qualche istante prima di prenderlo e stringerselo al petto. Abbandonò il suo rifugio sicuro – sempre, però, tenendosi stretta con una manina ai miei jeans – per abbozzare un tenerissimo inchino di ringraziamento.


«È molto bello. Come si chiama?»


«Mikki. Ed è una femmina...» aggiunse un po' risentita.


«Oh, perdonami.»


Possibile che la sera prima fossi uscita di casa con delle fette di prosciutto sopra agli occhi? Porca miseria, mi ero resa conto fosse una creatura eccezionale, ma dovevo aver stupidamente rimosso il fatto che riuscisse a farmi avvampare solo arricciando il naso.


Arricciando il naso!


Mi voltai attonita verso Hanae che, sopracciglio inarcato nella sua più sprezzante espressione, fissava Kouyou con lo stesso sguardo di un bodyguard incerto fra la castrazione o la decapitazione del disgraziato avvicinatosi troppo al suo protetto.


La vidi rilassarsi improvvisamente, non appena Emi cominciò a raccontare a quel perfetto sconosciuto le intricate parentele di Mikiki-chan (parentele che mi vedevano nonna alla sola età di ventidue anni).


Incontrò il mio sguardo e mi fece un sorriso che mi disse milioni di cose in pochi istanti.


«Emi-chan? Vieni con zia Hanae a prendere un gelato?»


Feci una smorfia allucinata. Stava veramente tentando poco discretamente - con tanto di sorriso malizioso e strizzatina d'occhi - di lasciarci da soli?


Emi si voltò con uno scatto verso il camioncino rosa confetto attorniato da bambini che svettava nel piccolo parcheggio della scuola, poi guardò verso la mia amica, un'espressione seria sul volto paffuto «Solo se prendiamo un cono anche a Mikki.»


Hanae ridacchiò, prendendo per mano la piccola e allontanandosi insieme a lei.


Quando Kouyou si alzò – facendomi sentire ancora più nana di quel che ero – si spolverò i jeans in un gesto che fatto da chiunque sarebbe sembrato inopportuno e presuntuoso, ma che in lui assumeva un tocco di eleganza tutta sua.


«Ciao.»


Gli risposi con un piccolo movimento del capo, ancora totalmente attonita dalla sua apparizione.


Lui indico Hanae ed Emi con cenno del volto.


«Sono le tue sorelle?»


«La mia migliore amica e mia... figlia.» mormorai sulla difensiva, pronta a dovermela vedere con occhi sgranati e mascelle al pavimento. Con tutta la buona volontà di questo mondo, purtroppo sapevo che di non poter dimostrare più ventiquattro-venticinque anni; la matematica non era un'opinione e la gente tendeva a scandalizzarsi quando calcolava approssimativamente l'età in cui avevo dato alla luce quella creatura.


Ma lui fece l'ennesimo sorriso. «Ti somiglia moltissimo.»


Mi rilassai leggermente, abbandonando il cipiglio battagliero. «Grazie.»


Di nuovo quel pacato e cortese invito ad accomodarsi, che avrebbe completato il quadretto di una cena di gala e che suonava piacevolmente fuori luogo in un piccolo parcheggio. Presi posto sulla panchina e lui sedette accanto a me.


«Sono stato al ristorante, questa mattina...» cominciò con voce pacata, guardando davanti a sé «...ma tu non c'eri. Il capo cameriere mi ha dato qualche dritta per raggiungere questo posto.»


Lista delle cose da fare, primo punto: strozzare Chomei non appena il collo di quel disgraziato mi fosse casualmente pervenuto fra le mani.


«Volevo porgerti le mie scuse...»


«Non fa niente.» lo interruppi, rischiarandomi la voce «È stata colpa mia, ero nervosa.»


«Eri nervosa perchè ho detto qualcosa di estremamente inappropriato alla situazione.»


Gli lanciai un'occhiata interrogativa, cui lui rispose con un altro piccolo sorriso.


«Temo di aver intuito molto più di quanto tu vorresti venisse a galla del tuo passato, ma me ne sono reso conto troppo tardi e forse ho detto la cosa più irritante e fastidiosa potessi mai dirti.»


Non solo era bello come il Sole, fatto come una statua, non solo aveva un paio di occhi che sembravano due trappole d'ambra, non solo era affascinante, carismatico e probabilmente un chitarrista eccezionale, non solo queste sue caratteristiche sembravano moltiplicarsi come conigli nella stagione degli amori alla luce del giorno, era pure intelligente.


Abbassai lo sguardo sulle mie mani intrecciate.


«Non avrei comunque dovuto scattare così. Quello che mi è successo non è una giustificazione alla mia reazione.»


Calò un silenzio in qualche modo rassicurante.


«Perchè Fukishima-sama ti chiama Riot?» domandò poco dopo.


Sgranai gli occhi, sorpresa da quella domanda. Alzai per l'ennesima volta lo sguardo sul suo volto e ci lessi una sincera curiosità. Abbozzò un sorrisetto.


«Sono abituato al fatto che mi venga sempre detto di sì, ma tu puoi benissimo mandarmi a quel paese se sono indiscreto...»


«No, no, affatto...» lo rassicurai, scuotendo il capo. Trassi poi un gran sospiro.


«Mio fratello ha cominciato a chiamarmi Riot il giorno in cui abbiamo partecipato assieme ad un corteo di protesta.» abbozzai un sorriso, al ricordo di tanta, caotica confusione.


Quello che mi era subito piaciuto di quella serie di ribellioni era stata l'unione fra i partecipanti. Non conoscevo nessuno a parte mio fratello, ma quei perfetti sconosciuti mi avevano teso un sacco di mani per aiutarmi a salire sulla statua della stazione e un gruppo di spaventosi punk dai capelli colorati - dai quali, normalmente, sarei stata alla larga - aveva condiviso con me la sua scorta di birra, come fossi stata una di loro. Una donna che poi era sparita dalla mia vista mi aveva aiutato a rialzarmi quando ero caduta spintonata dalla folla e un ragazzo del quale non ricordavo il nome mi aveva preso sulle spalle per farmi guardare il corteo dall'alto.


Io e Kouyou ci eravamo persi di vista all'inizio della protesta, ma, quando la sera eravamo tornati a casa, gli avevo raccontato tutto con tanto entusiasmo che mi aveva affibbiato quel nomignolo.


«Lui è... mancato tre anni fa e adesso mi chiamano così poche persone.»


«Mi dispiace, non volevo far riaffiorare brutti ricordi...»


Gli rivolsi il sorriso più sincero che fossi in grado di fare.


«Non ti preoccupare, mi sono abituata a ripensare a lui con la gioia che mi ha dato quand'era in vita.»


Annuì, pensieroso. «Io ho due sorelle...» mormorò dopo un po' «...e credo impazzirei se perdessi una di loro.»


Abbassai nuovamente lo sguardo sulle mie ginocchia, stando in silenzio.


Perdere Kouyou era stato deleterio. In una famiglia bigotta come la mia, che non aveva speso una lacrima alla morte del ribelle figlio maggiore, l'alternativo, rockettaro e bisessuale Kouyou era stata la mia ancora di salvezza e mancata quella avevo rischiato di lasciarmi sopraffare dalle onde.


La benevolenza degli Dei volle che mi rendessi conto, una sera, di non avere il diritto di lasciarmi andare, non quando avevo una figlia piccola che mi considerava il punto fermo della sua vita.


Feci un piccolo sospiro, incavando il collo nelle spalle.


Si chiama Kouyou, fa il chitarrista e ha due sorelle. Non mi sembra abbastanza per cominciare ad innamorarsi di lui, ne, Riot?


Avvampai, imbarazzata dai miei stessi, irragionevoli pensieri.


Era bello. Mh, okay, okay, forse molto più che solamente bello. Aveva due occhi spettacolari che si illuminavano come lucine quando curiosava discretamente nella mia vita. Era pure gentile, cortese come un gentiluomo d'altri tempi, onesto e molto acuto.


Perchè mi faceva venire l'irrefrenabile voglia di infrangere la promessa di chiudere con gli uomini per dedicarmi solo alla mia bambina? Perchè – e soprattutto come? - riusciva a cancellare, con un sorriso, tutte le difficoltà e le ingiustizie che avevo subito innamorandomi di Spike?


«Quanti anni ha lei?»


Seguii lo sguardo e vidi Hanae che ripuliva le guance di Emi dal gelato; anche Mikki-chan, tenuto sotto al gomito della mia migliore amica, era tutto imbrattato di gelato rosa confetto.


«Cinque. Ne compie sei fra pochi mesi.»


Altro piacevole ed avvolgente silenzio.


Senza contare il fatto che in tutto avevo passato con lui un'oretta scarsa della mia vita. Decisamente troppo poco anche solo per cominciare a conoscere una persona.


«Rika?»


Mi voltai per concentrarmi sulla sua prossima domanda (magari togliendomi dalla testa quei deleteri pensieri), ma era decisamente troppo vicino; mi ritrovai improvvisamente a respirare affannosamente sulle sue labbra. Mi diede un piccolissimo bacio, così lieve e leggero che mi chiesi se me lo fossi solamente sognato.


Quando si allontanò dal mio volto sorrise.


«È tuo diritto, ora, prendermi a schiaffi fino a domani mattina.»


Mi portai una mano alle labbra, incredula e divisa fra un sorriso e uno sbuffo. Aveva lo stesso identico aspetto di una bambola di un metro e ottanta, ma al suo interno nascondeva un cervellino niente male che, al contrario del mio grasso cricetino, lavorava senza sosta nella costruzione di un carattere mansueto, ma decisamente troppo sveglio.


«Non ho intenzione di schiaffeggiarti.» lo rassicurai con un sorriso intimidito.


«Volevo solo dirti che non sono ubriaco, che mi prendo tutte le responsabilità del caso e che sono disposto a rischiare la decapitazione dandoti un altro bacio.»


Il criceto obeso riprese ad oziare pigramente nel mio cervello e non si degnò di mandare l'impulso per una qualsiasi reazione quando registrò il lento ma inesorabile avvicinamento del suo volto. Chiusi gli occhi, abbandonandomi a quelle labbra carnose; si mossero piano a contatto con le mie, chiudendosi con dolcezza sul mio labbro inferiore e lambendolo con estrema lentezza.


Provai l'irrefrenabile desiderio di affondare una mano nei suoi capelli e lui, con un tempismo che mi fece quasi credere che potesse leggermi nel pensiero, prese una mia mano e la porto alla sua nuca; mi cinse poi, con quello stesso braccio, la vita, attirandomi a lui.


Aderii al suo torace con un sospiro, socchiudendo le labbra.


In tutta la mia vita avevo avuto una sola relazione, se quella con Spike si possa chiamare così e lui di certo non mi aveva prestato tante attenzioni. Kouyou, invece, mi sfiorava come fossi stato un delicatissimo bicchiere di cristallo, con la stessa reverenziale devozione che io invidiavo a tutte le coppie degne di questo nome e che Gidayu, santo d'uomo che acconsentiva al volere della fidanzata di non lasciarmi sola nel mio appartamento, usava per abbracciare Hanae quando...


Porca troia.


Mi staccai poco cortesemente dal bacio, spintonando Kouyou per le spalle. Mi raggomitolai su me stessa, sul bordo della panchina, e respirai a fondo, tentando di recuperare un po' di fiato e pregando gli Dei che Hanae fosse distratta da altro.


Ma quando alzai lo sguardo sulla strada, la prima cosa che vidi fu il suo volto. Emi si stava dondolando sull'altalena e mi dava le spalle, ma mi detti della cretina per aver pensato, anche solo per un istante, che Hanae non mi avrebbe tenuta d'occhio, pronta a precipitarsi da noi a passo di carica e a prendere Kouyou a borsettate al primo passo falso.


Mi regalò un sorriso raggiante, così splendente che ne rimasi quasi accecata. Inarcai le sopracciglia, sgranando lentamente gli occhi, come per chiederle se si fosse resa conto di cosa aveva appena visto. Lei chiuse entrambe le mani a pugno, lasciando i pollici sollevati e associò questo gesto internazionale ad un'espressione così soddisfatta che mi venne quasi da ridere.


Mi piace” diceva quello sguardo e io le risposi con un sorriso.


«La tua amica approva?»


Avvampai come un semaforo, voltandomi verso di lui. La sua posizione era molto più rilassata di prima, il suo volto era luminoso e un suo braccio era appoggiato pigramente allo schienale della panchina, proprio dietro le mie spalle.


«Ehm, lei...»


«...è la tua guardiana.» completò per me con un sorrisetto divertito.


Annuii, sorridendo anch'io.


Avevo appena baciato un uomo di cui conoscevo solo il nome e la professione e l'avrei rifatto in quel preciso istante. Il consenso di Hanae era stato come un sigillo posto sull'affidabilità di quell'uomo.


«E credi che mi permetterà di invitarti fuori a cena questa sera?»


«Vieni con noi a vedere “Bambi”?!» strillò eccitata Emi ad un metro di distanza, facendoci sobbalzare come salmoni in un fiume. Quando accidenti si erano mosse quelle due?


Hanae si avvicinò lentamente, un cono mezzo sbocconcellato in una mano e Mikki-chan nell'altra.


«Mi spiace...» mormorai abbassando lo sguardo «...ma il venerdì lo dedico solo a loro due.»


Gli lanciai un'occhiata di soppiatto, aspettandomi di vedere confusione sul suo volto, che invece era una sottospecie di sorriso fattosi viso.


«Beh, potrei portare Emi-chan con me e Gidayu all'acquario...» buttò lì con noncuranza Hanae, ignorando poi con una maestria invidiabile il mio umiliante rossore «...che ne dici dolcezza?»


Emi, che si era illuminata come una lampadina alla parola “acquario” sembrò sgonfiarsi come un palloncino bucato.


«Ma io volevo stare con...» si interruppe, voltandosi poi severamente verso Kouyou.


«Non mi hai detto come ti chiami!» borbottò indignata, gonfiando le guance.


«Perdonami, principessa...» mormorò lui, toccandosi un inesistente cappello «...mi chiamo Kouyou.»


«Ah!» esclamò allora la piccina, avvicinandosi e posandogli le manine sulle ginocchia «Ti chiami come il mio zio!»


Mi irrigidii come un pezzo di ghiaccio.


«La mamma ha la foto di un signore che si chiama Kouyou nella sua camera e lui è mio zio.» proclamò fiera ed orgogliosa «Però adesso non c'è più...» aggiunse poi a voce bassa.


Sentii lo sguardo di Kouyou arroventarmi una guancia, già abbastanza ardente e rossa per conto suo, ma non riuscii a sostenere il suo sguardo.


«Allora vieni con noi a vedere Bambi


Conoscevo troppo bene Hanae, per non pensare che in quel preciso istante non stesse mentalmente sghignazzando soddisfatta e senza pietà alcuna.


«Solo se tua madre mi lascia...» rispose Kouyou, togliendo il braccio dallo schienale per piegarsi sulle ginocchia e guardare negli occhi mia figlia che, dimentica di tutta la timidezza di prima, gli afferrò una mano (le sue manine sparivano quasi in quelle di Kouyou) e si sporse verso di me con un'espressione implorante sul volto.


«Oh, tipregotipregotiprego


«Ma veramente...» provai a balbettare.


«Io non ho mai visto Bambi...» mormorò in quello Kouyou; le labbra (le stesse labbra che riuscivano a farmi venire una tachicardia acuta solo tendendosi in un innocentissimo sorriso) si incresparono in un broncio che mi sciolse le ginocchia.


Oh, bambolina, sai anche sbattere le ciglia come una gatta in calore? Non manca proprio nulla all'arsenale generosamente donatoti dagli Dei.


«Va bene...» mormorai allora, improvvisamente senza fiato di fronte ad un sorriso così... candido.


Hanae mi osservava compiaciuta. Quando io e Kouyou ci alzammo lei sorrise, inchinandosi a lui.


«Emi-chan mi perdonerà se vi do buca.» dichiarò soddisfatta guardandoci come se fossimo due sposini in viaggio di nozze e con quell'odioso sorriso che lasciava veramente poco all'immaginazione «Colgo l'occasione per vedere Gidayu, che mi avrà data per dispersa.»


In quello, Emi prese a trascinare Kouyou verso il parchetto giochi e rimbambendolo di chiacchiere. Lui ebbe appena il tempo di farmi l'occhiolino, regalandomi un ultimo sorriso, e accennare un saluto in direzione di Hanae prima di assecondare la mia piccola e aiutarla a salire sull'altalena.


Distolsi lo sguardo dai due, essenzialmente perchè la sola vista di un'ipotetica figura paterna accanto ad Emi mi aveva dato le lacrime agli occhi. Hanae mi si avvicinò, alzandomi il mento con due dita.


«Io non conosco quel tipo, non so se è uguale a Spike o se è un gentiluomo...» mi accarezzò una guancia, sorridendo «...so solo che sono anni che non vedo un sorriso del genere sul tuo volto e che se è una rockstar a forma di bambola che ti rende così felice, io ti ordino di non lasciarti scappare suddetta bambola, sono stata chiara?»


Annuii in silenzio, perchè sapevo che se solo avessi provato ad aprire bocca mi sarei messa a piangere come una bambina. Quando mi porse Mikki-chan, poi, sentii un groppo alla gola che mi impedì fisicamente di ringraziarla come si deve.


Quando Hanae si allontanò raggiunsi con lentezza lo scivolo sopra cui stava giocando Emi; la passione per le altalene si era spenta ben presto. Kouyou le tendeva una mano, preoccupandosi che non scivolasse dalle scalette. Si conoscevano da quanto, quei due? Dieci, venti minuti?


Sorrisi. Quando gli fui vicino, ed Emi si lanciò giù dallo scivolo con uno strilletto, Kouyou mi avvolse la vita con un braccio attirandomi a lui e posandomi un bacio leggerissimo sulle labbra.


Una mezz'oretta dopo ci stavamo allontanando dal parco, dopo aver raccatto vari componenti di vestiario che la mia bambina aveva disseminato in giro, feci scivolare timidamente una mano nella sua e mi resi conto, arrossendo quasi nel sentire l'intenso calore sprigionato dalla sua pelle, che le due dita lunghe ed snelle avvolgevano le mie come le braccia di un amante avrebbero avvolto il corpo della compagna.




«Con chi esci stasera?»

Kouyou sorride, passandosi una mano fra i capelli.

«Con la seconda ragazza più carina di tutta Tokyo.» fece una pausa, fissando la sua immagine riflessa allo specchio «E se te lo stessi chiedendo, la più bella sei tu.»

Sorrisi soddisfatta, pavoneggiandomi di quei complimenti sinceri.

«Mi chiedo solo perchè una forza della natura come te si sia andata ad infatuare di un idiota come Spike.»

Sbuffai.

Non era certo la prima volta che Kouyou esprimeva il suo disaccordo nei confronti dei miei sentimenti per Spike; la cosa mi irritava soprattutto perchè fin dalla nostra prima uscita lui si era comportato in maniera encomiabile.

«Non è un'infatuazione. Io lui lo amo.»

Kouyou mi guardò, un sorriso leggermente amaro sul volto.

«Cosa te lo dico a fare? Tanto l'attrazione in genere è cieca come una talpa. Ti renderai da sola conto dell'errore che stai facendo.»

Sospirò, soddisfatto della propria immagine.

«Dolcezza, vado, Romi-chan mi starà aspettando.»

Annuii, ancora pensierosa riguardo le sue parole.

Mi riscossi quando mi diede un buffetto sulla guancia.

«La ragazza più affascinante di tutta Tokyo mi permetterà di accompagnarla al cinema domani sera?»

Ridacchiai, deliziata. Kouyou mi trattava come una principessina nonostante avessi già quasi diciotto anni.

«Certo che sì.»

Mi baciò la fronte.

«Ripensa a quello che ti ho detto, nee-chan. Chiamala intuizione, ma so di per certo che Spike non è quello giusto per te.»

Inarcai un sopracciglio, accarezzandogli piano un braccio.

«E come deve essere quello giusto per me?»

Lui ci pensò su qualche istante, grattandosi il mento.

«Ecco...» rispose infine, regalandomi un ultimo sorriso e infilandosi la giacca «Dev'essere in tutto e per tutto uguale a me.»


















N/A:


Questa shot è stata scritta per Riot Star.

Dal momento che io stavo cercando un modo carino per imporle una yaoi, siamo finite a parlare su msn “E se Riot scrivesse una shonen... E se Mya scrivesse una etero...”. E visto che Riot la sua parte l'ha fatta già da mo, io mi trascino dietro a lei mogia mogia come un cane bastonato, auto-flagellandomi col gatto a nove code per il ritardo.


Per chi non lo sapesse riot in inglese significa rivolta, sommossa, insurrezione.

E io porterò per sempre nel cuore quella settimana di sciopero con tanto di occupazione nel mio piccolo liceo friulano.

Sembrava di stare ad una grandissima festa in famiglia.


Questa shot è quanto di più etero io sia riuscita a sfornare, si vede benissimo e non mi convince affatto (seghe mentali congenite, figlia mia, ordinaria amministrazione u.u), lei si merita molto di più di questa cosa che parla parla parla e non conclude una cippa lippa.

Mi schifo da sola per questa robaccia -.-”

Il solo motivo per cui la posto è perchè Riot l'aspetta da un sacco di mesi e perchè oggi è il suo compleanno :3


Sappi che mi rimarrà sempre nel cuore l'immensa soddisfazione di essere riuscita a farti scrivere una shonen-ai xD


Un bacione, dolcezza, ti voglio bene!

Mya

  
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