Carpe Diem
[Freddie
Mercury’s
Theory]
Non era troppo tardi, erano
solo le 9.30 di sera eppure avevo voglia di andare in un locale. Non per
sbronzarmi o altro, avevo solo voglia di… di cambiare aria, ecco tutto. Quella
sera non mi andava di rimanere in casa o di vedermi con gli amici.
Non so cosa mi fosse preso,
il punto è che girovagai per Londra. Quella sera una leggera nebbiolina
abbracciava la città.
Guidato dal mio istinto,
entrai in un locale a me sconosciuto. Era meglio così, non avevo voglia di intavolare
una discussione, né con amici, né con fan.
Sai che casino se si viene a
sapere che “Roger Taylor è qui!”.
Mi sedetti a un tavolino e
ordinai la prima cosa che mi venne in mente. Gin tonic o vodka non faceva
differenza.
Mi guardai in torno e solo
allora notai un piccolo palco in fondo alla stanza. Ero finito in uno di quei
bar dove c’era musica live, molto spesso di bassa lega o di generi a me non
affini.
La musica era molto cambiata
da quando noi Queen cavalcavamo la cresta dell’onda. Parole come “ritmo
minimale” non esistevano all’epoca.
In pochi anni era cambiato
tutto. La musica, i vestiti, le persone. Solo la nebbia di Londra rimaneva
immutata. Proprio come quella sera, era calata imperturbabile su noi cittadini
e, nonostante la tecnologia avanzata, non potevamo fare niente per
contrastarla. C’era vent’anni fa, c’era in quel momento. La cosa in un certo
senso mi rincuorava.
Ero perso nei miei pensieri
senza capo né coda, quando una voce mi fece sobbalzare, proveniva dal palco.
«Buona sera, siamo i King, un
gruppo rock formato da qualche anno. Non abbiamo un nostro personale
repertorio, ma suoniamo le canzoni degli immortali Queen.»
A sentire quelle parole,
quasi mi strozzai con il mio drink.
Un gruppo che suonava le
nostre canzoni? Cazzo no!
Non osavo alzare lo sguardo
sul palco. Già m’immaginavo il cantante provvisto di baffi finti, il
chitarrista con il parruccone, il bassista con un sorriso ebete stampato in
faccia e il batterista con i capelli ossigenati. I nostri sosia in breve.
Non avevo voglia di vedere
uno scempio del genere. Insomma, niente in contrario se suonavano le nostre
canzoni, anzi mi faceva piacere, ma mi avevano stufato tutti questi stereotipi
che ci avevano attaccato addosso.
Freddie non aveva sempre
portato i baffi, li avrà tenuti due-tre anni, Deaks non aveva una paralisi
facciale, Brian non aveva così tanti capelli e io non assomigliavo a lady
Oscar!
Perché cercavano di imitarci,
perché cercavano di fare rivivere le nostre immagini?
Sospirai e guardai fuori
dalla finestra. La mia città mi aveva tradito, lasciandosi sopraffare dalle
lusinghe della nebbia. Non si vedeva un palmo dal naso, non potevo uscire con
un tempo così.
Non ne avevo la minima
voglia, ma visto che ero rinchiuso lì dentro, alzai lo sguardo sul palco. Sopra
c’era un gruppo di quattro ragazzi, circa sui venticinque anni, che era salito
imbracciando microfono e strumenti. Rimasi veramente stupito.
Niente baffetti, niente
sorrisini, niente chiome fluenti. A dir la verità, in quell’occasione non c’era
nessun bisogno d’indossare una parrucca per imitare Brian, perché la ragazza
che era la chitarrista aveva già un bel da fare con i suoi di capelli.
Feci il primo sorriso della
serata, anche se involontario. Ero comunque un po’ scettico, ma poteva andare
peggio.
A guardarli meglio ci
assomigliavano più loro che tanti altri che avevo visto.
Erano giovani, scapestrati e
amici.
Quattro amici.
Come eravamo noi.
Quattro…
Accantonai subito il pensiero
che mi era balenato nella mente con un moto di stizza.
Non volevo pensare a niente,
ne avevo abbastanza dei problemi.
Per una volta volevo
semplicemente essere il tizio seduto al tavolino in fondo, non il batterista
dei Queen.
Avrei voluto dimenticare,
dimenticare tutti gli anni passati in giro per il mondo a suonare, dimenticare
gli altri, dimenticare tutte le litigate e tutte le risate.
Avrei voluto, ma solo l’idea
di farlo mi faceva rabbrividire.
Nuovamente il corso dei miei
pensieri fu interrotto, questa volta però da potenti colpi di batteria.
Secondo sorriso involontario
della serata.
We will rock you versione veloce. Una mossa azzardata per iniziare una serata in un
posto nuovo, ma a noi erano sempre piaciute le decisioni azzardate, soprattutto
a Freddie.
Il cantante se la cavava, ma
questa canzone era il meno. Avrebbe sudato di più su canzoni come Love of my
life o Somebody to love.
Nel complesso erano un gruppo
abbastanza affiatato e sapevano come muoversi. Avevano dovuto provare molto, ma
i risultati si vedevano.
Il batterista era
eccitatissimo, faceva quasi ridere. Sembrava il più giovane del gruppo, eppure
batteva sulla batteria come se non ci fosse gioia più grande nella vita. Ci
metteva tutto se stesso, suonava come se fosse stata l’ultima volta che poteva
farlo, come se sapesse che quello sarebbe stato il suo ultimo respiro.
Ovviamente anche gli altri erano molto meritevoli, ma io mi soffermavo di più
sul batterista essendo quello il mio territorio.
Mi sistemai meglio sulla
sedia e mi girai completamente verso il palco.
Li esaminai tutti, ma il mio
sguardo, come magnetizzato, finì sempre su quel ragazzetto. Si vedeva che aveva
ascoltato bene i nostri album e aveva imparato che inflessione davo al suono.
Di solito dopo un colpo ai piatti chiudevo subito, in modo da dare un’impronta
personale, in modo che la gente ascoltando avrebbe detto “Ehy, ma questi sono i
Queen!”.
Il ragazzo faceva questo, ma
allo stesso tempo tracciava una sua linea personale.
Non cercava solo di imitare,
ma dava una sua interpretazione.
Mi piaceva.
Terzo sorriso della serata e
questa volta non involontario.
L’esibizione proseguì così,
tra canzoni famose come Bohemien Rapsody -di cui fui notevolmente impressionato
per via dei riuscitissimi cori- e quelle meno come Scandal.
«Prima di fare una pausa, vorremmo chiedere se
nel pubblico c’è qualche richiesta.» domandò il cantante con un gran
sorriso.
Nessuno parlò e il silenzio
s’impossessò del locale.
«Nessuna proposta?» chiese
nuovamente.
Io ci pensai un attimo, feci
tutte le congetture possibili, pensai alle soluzioni più catastrofiche, poi
mandai tutto a quel paese e feci la mia mossa.
«I’m love with my car!» dissi, un po’
per metterli alla prova.
Tutti i membri del gruppo si
girarono verso di me, ma io ero in un punto abbastanza buio del locale. Se mi
avessero riconosciuto, sarebbe scattato il putiferio.
«Abbiamo un intenditore!» esclamò il
cantante per poi continuare. «In verità era in programma per dopo, ma faremo
un'eccezione.»
E così ascoltai anche quella
mia vecchissima canzone. Faceva un po’ effetto sentirla cantare da una voce
diversa dalla mia, ma fu una buona esibizione. Il bassista, che si era
impossessato del microfono, sfoderò una voce graffiante che si adattava di più
alla mia linea vocale.
Finita anche quella, scesero
dal palco per una pausa. Appoggiarono prima gli strumenti poi si diressero
dietro le quinte. Solo il batterista era saltato giù dal palco, diretto verso
il bancone. Voleva un bicchiere d’acqua, il bambino! Ci avevo visto bene, era
proprio giovane, così giovane che non poteva neanche permettersi di prendere un
mojito. Scossi la testa sbuffando divertito, ma smisi subito quando lo vidi
avvicinarsi al mio tavolo.
Oh no, no, no! Non poteva
scoprirmi, non ora che incominciavo a divertirmi. Mi arrotolai meglio la
sciarpa intorno al collo, a coprirmi un po’ la faccia.
«Signore, posso sedermi?» mi fece lui.
Io grugnii poco cortesemente,
ma lui si sedette senza fare una piega.
Si torturava le mani e non
riusciva a reprimere l’ampio sorriso che aveva in faccia.
Dopo aver preso un respiro
profondo, si allungò verso di me con fare circospetto.
«Stia tranquillo, non lo dirò a nessuno che lei
è qui, signor Taylor.»
Io mi portai una mano sulla
faccia per non vedere il suo sorriso allargarsi ancora.
«Mi hai scoperto.» dissi un po’
sconsolato.
«Non si preoccupi, manterrò
il segreto, anche se non ho resistito a venire qui da lei!»
A quelle parole, dette con
una sincerità disarmante e con tutta quell’emozione malcelata, non potei far
altro che togliermi la sciarpa e tendergli la mano.
Lui spalancò gli occhi e la
bocca, per poi guardarmi la mano.
«Guarda che non mordo.» lo canzonai
bonariamente.
Lui fece una breve risata e
poi mi strinse forte la mano.
«È che… è che… insomma lei non sa che emozione
provo a incontrarla ».
Unì le mani sul tavolo e si
umettò le labbra prima di continuare.
«Insomma, io ho preso in mano
le mie prime bacchette dopo aver sentito la sua esibizione live di Now I’m
here! Lei è una leggenda, un mito, e incontrarla per me significa realizzare un
sogno.»
Sarei un ipocrita se dicessi
che di fronte a quelle parole non sentii il mio ego gonfiarsi. Vedere gli occhi
di quel ragazzo brillare a causa mia mi aveva fatto respirare un’aria diversa.
Era da tanto che non sentivo quella sensazione febbricitante percorrermi la
spina dorsale.
«Il piacere è tutto mio,
sapere che ci siano giovani così talentuosi a cui piacciono i Queen è veramente
bellissimo. A proposito, tu sai il mio nome, ma io non il tuo.»
Lui si batté una mano sulla
fronte e scosse velocemente la testa.
«Che scemo che sono stato. Io mi chiamo Joey
Marciano, molto piacere. Sa, berrei volentieri qualcosa in sua compagnia, ma
purtroppo mi posso permettere solo questa.» disse facendo
oscillare il bicchiere d’acqua.
Io ridacchiai e gli tirai una
pacca sulla spalla.
«Ne avrai di tempo,
tranquillo. Però ti prego di smetterla di darmi del lei e di chiamarmi signore,
mi fai sentire vecchio.»
«Ma come vecchio? Lei e il
resto dei Queen sarete anche chiamati “vecchie signore”, ma siete immortali, lo
ha detto anche mio fratello all’inizio dello spettacolo.»
«Il cantante è tuo fratello?» chiesi più
per cambiare discorso che per curiosità.
«Sì signore, Jacob è mio fratello maggiore.»
Io sospirai fintamente
esasperato.
«Ti ho detto basta con questo “signore”.»
Joey tornò a sorridere e
schioccò le labbra.
«Se le fa piacere…»
« Mi fa piacere.» lo assicurai, anche se non ce n’era bisogno.
Lui ampliò il suo sorriso e
fece per dire qualcosa, ma una voce lo interruppe.
«Joey, smettila d’importunare i clienti e vieni
qui!»
Lui girò la testa e poi si
voltò verso di me.
«È venuto il momento di salutarci.» disse.
Lui fece per alzarsi dalla
sedia, ma si fermò subito esitante, movendo lo guardo da me al palco.
«Bhe, cosa ci fai ancora qui, vuoi farmi aspettare?
Vai a domare quella batteria!» gli
risposi scherzando.
Lui si alzò in piedi preso da
una nuova energia e, prima di correre via, mi saluto agitando la mano.
«Ciao, signor… volevo dire, ciao Roger!»
Un bambino, era solo un
bambino, eppure era riuscito a restituirmi la serenità che avevo perso tra la
nebbia di Londra. O forse era proprio la nebbia che mi aveva dato questa
possibilità?
Quando Joey arrivò sul palco,
la chitarrista gli indicò il mio tavolo e gli chiese qualcosa. Lui scollò
semplicemente le spalle e tornò al suo posto lanciandomi un'occhiata tra il
malizioso e il complice.
Allora sapeva veramente
mantenere i segreti il ragazzino.
Se era possibile, ricominciò
a suonare ancora più eccitato di prima. Non solo stava dando il massimo, ma
stava cercando di superare i suoi limiti.
La serata procedette ed io mi
divertii ascoltando le nostre vecchie canzoni cantate da una voce diversa e
molto più giovane di quella di Freddie.
La cosa che mi piaceva di più
era che non c’era arroganza, non c’era malinconia, non c’era aspettativa. C’era
solo amore, amore per la nostra musica. Ed io non volevo sentire altro per il
resto della vita.
Dopo mezzora e qualche bis,
le luci diventarono più soffuse e il cantante prese la parola.
«Grazie della magnifica serata, siete stati
stupendi. » fece una pausa per lasciare che gli
applausi si calmassero e poi riprese a parlare.
«Questa canzone, l’ultima
della serata, sarà cantata dal nostro batterista Joey, essendo la sua
preferita.»
Jacob, mi pare che si
chiamasse, si fece da parte e con un certo nervosismo si fece avanti il mio
giovane amico.
«Salve a tutti, prima di
iniziare vorrei invitare tutti a chiudere gli occhi e a lasciarsi trasportare
dalla musica, dai ricordi. Lanciate uno sguardo indietro, verso il vostro
passato, verso i vostri giorni felici, perché questa è These are the days of
our life.»
Quasi caddi dalla sedia.
Quella canzone, la mia
canzone?
Il respiro mi si spezzò più
volte mentre le prime dolci note invadevano la sala.
Mi guardai intorno. Sembrava
che avesse provocato a tutti lo stesso effetto. Tutti tornavano indietro, si
perdevano nei ricordi, si lasciavano trasportare. Lanciai un'occhiata a Joey e
vidi che aveva lo sguardo perso nel vuoto, come se neanche lui non avesse
potuto resistere alla canzone.
Che fare? Non volevo eppure…
eppure qualcosa mi chiamava, qualcosa mi diceva che era giusto.
Joey… perché hai scelto
proprio quella canzone?
Spostai gli occhi sulla
finestra e notai che Londra non offriva scappatoie.
E allora chiusi gli occhi, mi
arresi alla nebbia, mi arresi a quelle note.
Pian piano il palco
scompariva, la nebbia si diradava, lasciandomi davanti a un salotto a me molto
noto.
Ero sempre a Londra, ma nella
villa di Freddie.
Sembrava non esserci nessuno
quando sentii dei passi.
«Ti ho detto che non le voglio, Roger!»
Immaginate la mia sorpresa
quando mi ritrovai davanti Freddie e me stesso.
«Ti prego, non fare il bambino, almeno per
questa volta. Sai che ti fanno bene.»
Di cosa stavamo parlando? Non
mi ricordavo quella discussione. Mi guardai intorno, ma solo quando vidi delle
pillole nella mia mano, mi ricordai.
Eccola, quella lunga fitta
pungente.
Le pillole. Le pillole di
Freddie. Freddie era malato.
Eravamo nell’estate del 1991.
Sapevo che era estate, perché
Freddie riusciva ancora a camminare, mentre già da ottobre-novembre usava una
carrozzina.
Ero perso nei miei pensieri
quando i due mi sfrecciarono di fianco, diretti verso il giardino.
«Fermati, brutto coglione! Devi prendere queste
dannate medicine.» gridò il mio sosia mentre lo inseguiva.
Mi misi anch’io a correre
insieme con me stesso, ma del “brutto coglione” nemmeno la traccia.
Sospirando, il mio clone
passeggiava per il giardino completamente in fiore. C’erano miliardi di colori,
piante altissime di un verde smeraldo. Tutto merito di Jim il giardiniere.
«Meraviglioso, vero?»
Entrambi sobbalzammo per
quella voce improvvisa. Freddie era lì, proprio dietro di noi, con il naso
all’aria, mentre osservava assorto una pianta.
«Senti, Fred, so che non ti piace, ma fai uno
sforzo. Servono per aiutarti, per tenerti…» dissi stringendo la scatola
con disperazione, con le parole bloccate in gola.
«Servono per tenermi in vita, per tenermi in
vita.» disse per poi voltarsi verso di me, «Pensi che non lo
sappia?»
Non c’era rabbia, non c’era
risentimento nelle sue parole.
Solo quella maledetta
semplicità che metteva ovunque. Freddie era la semplicità fatta a persona, ma
al tempo stesso era come irraggiungibile. Nessuno si era mai veramente
avvicinato a Freddie, nessuno era mai riuscito a toccare il suo animo più di un
attimo. Eppure lui era espansivo, era sentimentale, romantico, simpatico, non potevi
non volergli bene. Ma sembrava che a lui non bastasse, sembrava sempre alla
ricerca di qualcosa di nuovo, d’irraggiungibile, proprio come lui.
«Sai come si chiama questa pianta, Roger?»
mi chiese sorridendo tranquillo.
Io lo affiancai sconsolato e
scossi la testa.
Sapevo che non c’era
nient’altro da fare che assecondarlo.
«Ibiscus, questo è il suo nome. È particolarmente
bello, non trovi?»
«Assolutamente.» risposi e lo pensavo
davvero.
La pianta non era
particolarmente grossa, ma era piena di fiori rosso sangue. Erano ovunque, un
po’ sfioriti, alcuni ancora nel bocciolo, ma t’incantavano alla prima occhiata.
Freddie si avvicinò e sfiorò
alcuni petali.
«Sono così semplici e delicati, eppure non puoi
fare a meno di elogiarne la bellezza.»
Avvicinò il naso e ne aspirò
il profumo, poi, come folgorato, alzò la testa e con il dito m’indicò un ramo
più in là.
«Guarda, Roger, guarda! Quell'Ibiscus è giallo
ed ha più arcate di petali, non ne avevo mai visto uno così.» disse
mentre si avvicinava lentamente.
Io lo osservavo, ma era come
se non ci fossi. Non mi ricordavo minimamente di quella discussione, di quella
fuga e di quella pianta.
Intanto Freddie aveva
allungato la mano verso il fiore, ma subito si era fermato e aveva ritratto le
dita.
«Eppure, nonostante la sua rarità, la sua
bellezza, è destinato a sfiorire come è successo agli altri.» constatò
con tono tranquillo, ma sembrava esserci qualcosa in più.
Io passai in rassegna tutti
quei bozzoli rinsecchiti che coprivano alcune parti della pianta.
«Tagliamolo, Roger.» se ne uscì
all’improvviso Freddie.
«Cosa?» dissi io.
Lui si avvicinò a me e
m’indicò la pianta.
«Li vedi? Li vedi tutti quei
fiori appassiti? Stanno lì a consumarsi pian pianino, finché non saranno così
marci da disintegrarsi.»
Ed io li guardavo, li
osservavo, ma ancora non capivo dove voleva arrivare.
«Ora guarda gli altri, quelli che si sono
appena aperti.» continuò facendo spostare il mio sguardo nella direzione
che voleva.
«Non dureranno che uno-due giorni, poi
subiranno l’inesorabile sorte dei loro compagni.» disse per poi
allontanarsi da me e dirigersi più vicino alla pianta, quasi volesse entrarci
dentro.
«Quel che è peggio è che quelli sfioriti,
mentre sono lì, sentono le forze che li abbandonano, la vita che sfuma
lasciando spazio al nulla.» parlava accarezzando leggermente quel fiore
ormai senza vita, lo osservava con uno sguardo che non riuscii a decifrare.
«Non hanno neppure il tempo
per guardarsi indietro. Non hanno neanche la forza per ripensare ai momenti
felici, a quando si alzavano verso il cielo, incantando i passanti con i loro
colori, con la loro bellezza. Niente di tutto questo, solo la consapevolezza
della loro sorte.»
Un brivido mi passò per tutto
il corpo e mi fece battere forte il cuore.
Non era possibile, non si
stava riferendo a quello… vero?
No, era uno scherzo. Era una
discussione come un'altra.
Non c’era nessun riferimento
implicito.
«Ma se tu li curi, resisteranno di più.»
dissi avvicinandomi a lui.
Ma quando si girò verso di
me, quando piantò i suoi occhi scuri nei miei, ebbi la conferma che avrei
preferito non avere mai.
«Certo, tu puoi continuare a
dargli concime, a tenere lontano gli insetti, potrai venire ogni giorno a
curarli, ma loro appassiranno, marciranno e poi scompariranno lentamente e
inesorabilmente. Nessuno si ricorderà di loro, le emozioni che avevano
provocato con i loro colori verranno dimenticate. Come se non fossero mai nati,
come se non fossero mai esistiti.»
Lo disse così, in una maniera
tranquilla, come se la cosa non lo toccasse per niente, e io…
«Non è vero, non è così, non—» balbettai
mentre il mio cuore minacciava di esplodermi nel petto.
Ma lui continuò ignorando me
e la mia voce, sicuro come non mai.
«Ma se lo recidi, se decidi di rinunciare a
tutte le cure, potrai salvarlo, potrai salvarlo dal dimenticare, gli darai
l’opportunità di guardare indietro, di riviere la sua vita per l’ultima volta.»
disse sorridendomi.
Mi guardava e cercava di
dirmi qualcosa, ma io non capivo, non volevo capire.
Veramente recidere era la
decisione giusta?
Lui si voltò verso il fiore e
lo sfiorò appena con il dito.
«Certo, appassirà un po’, anche più in fretta,
ma tu potrai metterlo tra due libri e farlo seccare. E quando sarà
completamente secco, quando avrà dato tutto se stesso, non marcirà mai più, non
scomparirà, ma durerà per sempre...» disse lasciando la frase sospesa
per aria.
Si girò lentamente verso di
me e tornò a trapassarmi con il suo sguardo, poi riprese.
«Diventerà immortale.»
«Freddie…» riuscii solo a dire.
«Taglialo, Roger.»
Io scossi la testa disperato e
incominciai a gesticolare nervoso.
«Io… io non posso. Tu… tu non capisci! Pensi
veramente che il gioco valga la candela?»
«Sì.»
«Nonostante questa sia la tua stessa vita?»
«Assolutamente.»
A quella risposta ebbi un
sussulto.
Lasciai cadere le braccia e smisi
di gesticolare.
«Sei… sei sicuro, è questo che vuoi?»
«Sì.»
Sospirai rassegnato e lo
guardai.
Era sereno, mi sorrideva
bonario, ma era dimagrito tantissimo e le occhiaie non lo abbandonavano mai. Strinsi
forte le mani, impotente davanti a quella visione. Non aveva niente a che
vedere con quel ragazzetto vispo che avevo conosciuto all’accademia d’arte
tanti anni prima.
Così, in memoria di quegli
anni, in memoria di quelle ore passate assieme, presi la mia decisione.
E lo tagliai.
Con un colpo netto, senza
tentennamenti, senza dolore.
Ora l’avevo in mano e lo
guardavo. Era ancora meraviglioso, ma sapevo che non sarebbe durato abbastanza,
non sarebbe mai durato abbastanza.
A testa bassa lo adagiai
delicatamente nelle mani di Freddie.
Le gambe mi tremavano e
volevo scappare.
Scappare lontano da quel
giardino, da quel fiore, da me stesso.
«Eccolo, ora però devo andare », dissi mentre gli davo le spalle, non volevo che mi
vedesse con gli occhi lucidi, «sono di fretta, mi aspettano e—»
«Roger?»
m’interruppe.
«Sì?» risposi
girandomi.
Avrebbe potuto chiedermi
un’intera piantagione di Ibiscus, avrebbe potuto chiedermi i migliori
spogliarellisti russi, avrebbe potuto chiedermi persino la luna ed io
gliel’avrei portata, ma Freddie sapeva sempre come stupirmi.
«Grazie…»
Disse solo una parola, solo
una dannatissima parola.
E io scoppiai a piangere,
piansi quelle lacrime che mi ero tenuto dentro per anni, perché dovevo essere
forte, per me, per Freddie, per i Queen.
Perché non potevamo perdere
tempo, perché nessuno aveva bisogno di lacrime, perché era inutile, perché non
sarebbe cambiato nulla.
Ma davanti a quella parola,
davanti a quell’uomo, non potevo farcela.
Lui mi abbracciò
immediatamente e io mi strinsi a lui senza dare segno di volere smettere di
piangere. Mi aggrappavo a lui come se fosse l’unica cosa al mondo, perché avevo
bisogno di lui. Tutti avevamo bisogno di Freddie. Non poteva andarsene, ma
sapevamo tutti che l’avrebbe fatto, con o senza il nostro permesso.
Aveva sempre vissuto come uno
spirito libero e così se ne sarebbe andato.
Senza rimpianti e con un
sorriso sul volto.
Non so ancora come, ma mi
calmai. Pian piano i singhiozzi diminuirono e il respiro tornò regolare, ma
ancora non volevo lasciarlo.
Volevo un attimo, un solo
attimo da poter imprimere nella mente, da non dimenticare mai. Volevo che se
trent’anni dopo mi fosse venuto un colpo di nostalgia, io avrei potuto
semplicemente chiudere gli occhi e sentirlo ancora lì, lì con me.
Quando mi sentii pronto, ci
separammo e ci salutammo senza neanche una parola.
E lo lasciai così, con un
sorriso sulle labbra e con il suo fiore in mano.
Quello era Freddie e quello
sarebbe sempre rimasto.
Immortale.
Il mattino dopo stavo
correndo come un pazzo per la villa e aprii di botto la porta del salone.
Erano già tutti arrivati e
stavano seduti sui divani a prendere il te.
«Roger, sei in ritardo, anche più di me!» disse Freddie fintamente sconcertato, facendo
scoppiare tutti a ridere.
Io piegato sulle ginocchia,
cercavo di riprendere fiato.
«Spero che tu abbia una buonissima scusa, perché se
no…»
Quella volta fui io a
interromperlo.
Infatti gli avevo messo sulle
ginocchia un meraviglioso mazzo di Ibiscus.
Lui alzò lo sguardo su di me
e mi sorrise.
Gli lessi negli occhi la
consapevolezza del significato del mio gesto, ma quel giorno avevo deciso di
stupirlo.
«Ma non è tutto!» esclamai.
Incominciai a scavare nella
mia tasca, finché non ne uscì un foglietto tutto spiegazzato.
«Questo è per te, ci ho messo tutta la notte per
scriverlo.» dissi porgendoglielo.
Lui lo prese in mano e
incominciò a leggere.
Vidi le sue sopracciglia
sobbalzare e i suoi occhi spalancarsi.
Era una canzone, quella canzone.
«These are the day of your life, l’ho chiamata.» affermai.
Gli altri curiosi si erano
riuniti dietro Freddie per leggere anche loro.
«È bellissima!»
disse Brian.
« Perfetta per chiudere il prossimo album.» seguì a ruota Deaks.
Freddie semplicemente mi
guardò, ma quando fece cenno di aprire la bocca, lo fermai.
«Non ti azzardare a dire quella parola, se no
finisce come ieri!»
Lui scoppiò a ridere, mentre
io lo osservavo sorridendo sghembo.
Gli altri ci guardavano persi
e curiosi, ma nessuno di noi due ci badava.
Ci lanciammo ancora
un’occhiata complice, poi Freddie invitò le nostre “chiappe flosce” ad andare
in sala registrazione per provare la nuova canzone.
Ancora una volta insieme.
Ancora una volta tornavamo a
creare, a inseguire l’immortalità, a stare semplicemente in compagnia, tra
amici.
Perché eravamo questo.
Quattro amici.
Quattro ragazzi scapestrati,
con sogni troppo grandi per i loro cassetti.
Se dovessi morire domani
non mi preoccuperei. Dalla vita ho avuto tutto. Rifarei tutto quello che ho
fatto? Certo, perché no? Magari un po’ diversamente! Io cerco solo di essere
genuino e sincero e spero che questo traspaia dalle mie canzoni. (Freddie
Mercury, 1886)
Non voglio cambiare il
mondo, lascio che le canzoni che scrivo esprimano le mie sensazioni e i miei
sentimenti. Per me, la felicità è la cosa più importante e se sono felice il
mio lavoro lo dimostra. Alla fine tutti gli errori e tutte le scuse sono da
imputare solo a me. Mi piace pensare di essere stato solo me stesso e ora
voglio soltanto avere la maggior quantità di gioia e serenità. Immagazzinare
quanta più vita riesco, per tutto il poco tempo che mi resta da vivere.
(L’ultima intervista di Freddie, 1991)
Alcuni mesi dopo Brian May
scrive ai membri del Fan Club:
Freddie ha combattuto
l’Aids per molti anni. L’arte e gli amici erano per lui la cosa più importante
e si è dedicato ad ambedue con estremo vigore. Non ha voluto che nulla
rovinasse la nostra musica e affrontando il dolore ha deciso di continuare fino
all’ultimo a lavorare ai nuovi dischi. Senza ascoltare le nostre preghiere e
cantando miracolosamente sempre più forte. Freddie non ha mai voluto simpatia,
ma solo ciò che i fans gli hanno sempre dato, fiducia, sostegno e compagnia,
lungo la difficile strada che noi, Queen, abbiamo cercato di percorrere. Voi
gli avete dato l’aiuto per essere lo straordinario spirito libero che è stato e
che è tuttora.
Freddie,
la sua musica, la sua brillante energia creativa, queste cose sono per sempre.
***Angolino della
squinternata***
Ecco, come al solito parto
per fare una cosa serena, tranquilla e invece finisco per combinare uno
scempio. Vi chiedo di perdonarmi.
Ok, adesso mi calmo e scrivo
delle note serie(?).
Ebbene sì, sono ancora qui.
Con un altro obbrobrio ad
infestare questo meraviglioso fandom.
Ma cosa posso farci? Mi
chiama, m’incanta e io non posso fare a meno di rispondere.
E poi se dovete dare la colpa
a qualcuno datela a SHUN DI ANDROMEDA che mi ha detto in una recensione di
continuare a scrivere, e io l’ho fatto.
Devo dire che l’idea mi si è
creata in testa in fasi scoordinate tra di loro, ma potrei dire che tutto
questo è nato quando mio padre è tornato a casa con un Ibiscus giallo un po’
secco. Era meraviglioso, non avevo mai visto fiore più bello. Nonostante avesse
quattro petali esterni secchi essi non avevano perso il loro fascino e le
insenature erano diventate di un meraviglioso arancione. Ho passato una serata
a osservarlo, ad accarezzarlo, gli ho fatto un servizio fotografico e poi,
giorno dopo giorno, ho assistito al suo declino. Appassiva sempre di più, solo
a toccarlo si sbriciolava un po’ eppure rimaneva bellissimo. Io purtroppo non
l’ho fatto seccare adeguatamente, come aveva suggerito Freddie, ma lo conservo
ancora e lo ammiro come all’inizio. Gli Ibiscus sono piante particolari. Nel
testo ho fatto spiegare a Freddie un po’ di loro qualità. Normalmente sono
rossi ed hanno solo un giro di petali, mentre quello che viene reciso è giallo
acceso ed ha più arcate. Una vera rarità, non ce ne sono molti così.
Ma non divaghiamo troppo,
visto che, come al solito, vi devo un sacco di spiegazioni.
Innanzi tutto vi chiedo scusa
per aver bistrattato così il povero Roger e Freddie. Sono personaggi difficili
da trattare e io mi sono impegnata al massimo per renderli al meglio. Per
esempio vedete che a volte Roger pensa/dice parolacce e se siete sconcertati vi
ricordo che loro erano tutto tranne che santi. Questo era solo un banalissimo
esempio, ma meglio procedere con ordine a spiegare tutto.
1) Il titolo non è stato scelto a caso, anche se sembra.
Tradotto diventa: Cogli l’attimo [La teoria di Freddie Mercury]. Carpe Diem è
nel senso sia letterale che nel senso “cogli il fiore”, “cogli l’opportunità”,
“cogli l’immortalità” ed è ovviamente rivolto a Roger. Mentre “La Teoria di
Freddie Mercury” è proprio quella che spiega a Roger usando la similitudine
dell’Ibiscus, la sua teoria sull’immortalità.
2) Non c’è una data specifica per questa ff, è
semplicemente sera, dopo cena e Roger decide di uscire a farsi un drink. Vi
sarà sembrato scettico, ma provate a immedesimarvi. Era un giorno no, aveva
bisogno di un po’ di solitudine, non aveva certo voglia di firmare migliaia di
autografi o intrattenersi con i fan, nonostante li ami molto. Non biasimatelo
quindi neanche per il suo essere stanco delle band fac-simil dei Queen. Aveva
bisogno di sfogarsi e l'ha fatto su quei ragazzi, ma solo perché erano a
portata di mano, non perché aveva qualcosa contro di loro.
3)
La nebbia. Ormai
la metto ovunque. Nella mia precedente storia, Thanks for the memories [Freddie
Mercury’s Eulogy], era il canale tra la realtà e il sogno, mentre qui è usata
come catena, come prigione. Roger non può scappare, non questa volta. Potremmo
simpaticamente ipotizzare che la stessa nebbia che opprime Roger è il ricordo
di Freddie che non vuole essere dimenticato.
4) Per quanto riguarda gli stereotipi dei Queen, io non
li sopporto. Capisco che siano un riferimento per molti, ma i Queen non sono
sempre stati così! Mi da fastidio quanto vedere un fan di Sherlock Holmes che
disegna il famoso detective con la pipa Calabash, che in verità non è mai stata
usata. Insomma, mi sembra ingiusto pallinare i Queen con degli stupidi
stereotipi. Con i “capelli alla Lady Oscar” ho gongolato un po’, si riferiscono
ai primi tempi in cui tutti e quattro avevano i capelli lunghi xD.
5) L’iniziare il
concerto con We will rock you versione veloce è una chicca! Perché è proprio
come avevano iniziato il concerto i Queen in quel lontano 81 a Montreal!
Considero quell’esibizione come una delle migliori della loro carriera e non ho
potuto non infilarci un piccolo riferimento ;). Mentre quando Roger parla di
canzoni più o meno famose, non intendevo dire “più o meno meritevoli” ma quelle
che hanno avuto più successo. La nominata e poco sconosciuta Scandal è
meravigliosa, io la adoro ma quasi nessuno se la ricorda =(
6) Quando Joey fa riferimento all’esibizione live di Now
I’m here io ho pensato a quella del famoso concerto at Wembley del 86, ma siete
liberi di collegarlo a quello che preferite. So benissimo che la canzone non
l’ha scritta Roger, ma quella è l’inferno e il paradiso di ogni batterista. Non
ci si ferma un attimo, la batteria ruggisce e devi andare a una velocità
spaventosa. Tutto questo però non vince la soddisfazione e la meravigliosa
performance. Lo stesso Roger ha ammesso che sudava un sacco a fare quella
canzone xD.
7) L’inflessione della batteria di cui parla Roger non me
la sono inventata. Nel dvd “Live at Wembley” Roger descrive proprio quella
tecnica, mentre Brian parla della sua Red Special. Nella storia l’ho spiegato
velocemente, ma c’è un procedimento tecnico abbastanza difficile sotto.
8) All’inizio, dopo che Roger si è lasciato riportare
indietro dalla canzone, vede se stesso e Freddie, ma dopo un po’ non parla più
come se fosse un'entità divisa, ma parla come se vivesse la cosa in prima
persona. Non è un errore, ma una mia scelta. Non so se avete presente, ma nei
sogni di solito succede così. Prima vedi le cose in terza persona, poi ti
mescoli ai personaggi e non sai più dove finisci tu e dove finisce il sogno. Ho
cercato di ricreare quest'atmosfera anche per rendere le cose più facili sia
sotto il punto narrativo che quello esplicativo.
9) Questo è un argomento un po’ spinoso. Le medicine di
Freddie. Tutti sapevano che non l’avrebbero salvato, ma lo aiutavano a
combattere la malattia, però a un certo punto Freddie ha deciso di smettere di
prenderle. Per lui erano inutili, sarebbe andata come doveva andare, lui era
stanco di essere schiavo di qualche sostanza chimica. Questo è uno dei tanti
motivi per cui lo ammiro. Non era solo coraggioso, non sapeva solo vivere, ma
sapeva anche morire. E penso che quasi nessuno avrebbe mai preso una decisione
simile. Nessuno avrebbe detto con un sorriso “Taglialo, Roger”.
10)Il discorso sull’irraggiungibilità di Freddie è una
cosa che mi ha sempre dato da pensare. Però io l’ho sempre visto così, qualcosa
di terribilmente vicino ma al tempo stesso di terribilmente lontano. È
difficile capire Freddie, la sua è una mente che si muove veloce, con schemi
chiari solo a lui. Sicuramente non sarete d’accordo con me, ma capisco il
perché, non mi sono espressa con chiarezza. Il fatto è la mia è una sensazione,
qualcosa che non si può spiegare a parole. Quando mi chiedono “perché ti
piacciono i Queen?” io non so mai come rispondere. Potrei parlare per ore di
loro, ma spiegare cosa fa scattare in me quell’impulso, quella cosa che mi fa
fermare tutto se sento una loro canzone, quella che mi manda le palpitazioni…
non riesco proprio. Io lo so e anche voi lo sapete cosa si prova, ma spiegarlo?
Come si fa a spiegare una cosa che va oltre i confini di comprensione umana?
11)Volevo chiarire quello che dice Freddie sul fiore.
Recidere non vuol dire “uccidere”, non vuol dire “suicidarsi”, significa
“cogliere l’attimo”. Prendere il fiore sul più bello, nell’alto della sua vita
e renderlo immortale. Non lasciare che si deteriori allungando il travaglio, ma
lasciandogli la possibilità di vivere al massimo, anche se per poco tempo.
Questo voleva Freddie, voleva darci un taglio con le medicine, con le false
speranze, non con la vita! Voleva essere semplicemente se stesso e se questo
comportava la sua malattia andava bene lo stesso. Spero che tutti abbiate
capito che qui il suicidio non centra un cappero! Qui si parla di vita,
d’immortalità e di quattro ragazzetti scapestrati.
12)Quando Deaks dice “perfetta per chiudere il nostro
prossimo album” si riferisce a Innuendo. E voi direte “ma è Show must go on
l’ultima” infatti è così, non me ne sono dimenticata, ma al tempo Brian non
l’aveva ancora scritta. Come tutti bene ricorderanno Freddie era riuscito anche
a fare il video della canzone mentre era già sulla sedia a rotelle quando l’ha incisa.
Senza Show must go on non trovate anche voi che These are the day of your life
fosse perfetta per chiudere il disco, per dare l’ultimo saluto ai fan? John
quindi non era impazzito, aveva semplicemente buon gusto xD.
13)Ultimo punto, spero. I pezzi che vedete alla fine
della storia sono degli stralci delle interviste di Freddie. Ho voluto
concludere così la ff perché quei piccoli pezzi dicevano di più di quanto io
avrei potuto racchiudere in 20 pagine. E allora mi sono affidata alle parole di
Freddie e a quelle di Brian. Quando li ho letti io, mi hanno strappato il
cuore, spero che abbiano fatto lo stesso effetto anche a voi.
Adesso,
dopo tutto questo popò di roba, rispondo alle meravigliose recensioni lasciate
alla mia precedente storia Thanks for the memories [Freddie Mercury’s Eulogy]:
cassiana:Non sei malata, sei (siamo)
semplicemente… innamorate, incantate, emozionate o qualsiasi altro aggettivo
che tu voglia. Il punto è che Freddie è Freddie, basta, nient’altro. Sono molto
contenta che tu l’abbia trovato IC, ci tenevo molto a questo. Hai ragione lui
era molto dolce e sensibile e quante volte l’ha dimostrato! John… lui, bhe, lui
si è un po’ chiuso a riccio, ha perso un pezzo di quel suo sorriso che amiamo
tanto. Io ti ringrazio veramente delle tue parole, mi hai fatto sorridere.
VANiTY: Davvero la consideri tanto originale?
Grazie, non pensavo davvero che avesse provocato questa impressione. Quella
frase, ossia “io non sono morto, vivo solo in un modo diverso”, ti piace tanto
perché è vera, perché è veramente così. Freddie non è morto e mai lo sarà.
Magari all’anagrafe c’è scritto così, ma l’anagrafe non possiede un cuore, non
possiede ricordi. Noi fan sì. Grazie ancora.
ArwenBlack: che piacere risentirti! Sono
contenta di aver rispecchiato la tua idea di John, anche perché avevo paura di
creare un mostro! Diciamo che non sono dei personaggi facili, con storie ed
emozioni non facili. Tutto quello che hai detto è vero. In un certo senso mi fa
male, ma anche bene. Io ti devo ringraziare infinitamente per avermi fatto
vedere quel documentario. È semplicemente… semplicemente verità nuda e cruda,
mi ha spaccato l’anima. Ho scritto che è morto a Montreux? *si auto tira uno
scappellotto* La mia scarsa intelligenza si fa sentire, ma ti ringrazio
tantissimo di avermelo fatto notare. Alla fine sono io che devo ringraziare te,
e anche tanto.
SHUN DI ANDROMEDA: Spero che anche questa ff ti
sia piaciuta. La nebbia di Londra… sai, ormai mi ci sono affezionata e te la
dedico tutta, tutta la nebbia di questa ff. Montreux mi fa sempre prendere un
tuffo al cuore. Vacci, anzi, andiamoci. Io l’ho sempre visto come un posto di
rifugio, di pace. Una specie di casa al mare per famiglie, nello specifico per
la famiglia Queen. Io non amo i Queen, io li respiro e li vivo. Sì, vivo anche
per Freddie e sono sicura che lui apprezza. Deaks reso in modo superbo? Oddio,
non potevi farmi complimento maggiore. Grazie, grazie, grazie.
Egle: tralasciando quanto io sia stupita che
tu, una delle mie autrici di Merlin preferite, recensisca la mia storia ti
ringrazio per i complimenti. Neanche io riuscirei mai a giudicarli sul un punto
di vista freddo e puramente distaccato. Ormai fanno parte di tutti noi. Se
Freddie fosse vissuto un po’ di più? Bhe se l’avesse potuto fare di una cosa
sono certa avrebbe continuato a vivere al massimo, cantando come non mai.
Grazie ancora.
Vi ringrazio infinitamente
per essere arrivati fin qui e per esservi subiti tutto questo.
Mi avete mostrato un
grandissimo affetto e io non posso fare a meno che sorridere ogni volta che
posto in questa sezione.
Perché si sente, si sente che
c’è amore nell’aria. Si sente che non si è estinto. Si sente che è vivo. Si
sente che amiamo ancora i Queen.
Non finirò mai di ringraziare
tutti voi di avermi offerto questa possibilità.