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Autore: BBV    23/09/2010    8 recensioni
A diciotto anni, la vita di Victoria Hamilton
è stata completamente stravolta da un brutto incidente,
che l'ha portata a trasformarsi in una teenager ribelle e sfacciata.
Sua madre decide di mandarla a vivere dal padre e dalla sua nuova famiglia: una moglie e due figlie.
Insieme a suo fratello Shane parte per Longwood, un piccolo paese sperduto del Wisconsin.
Per Victoria è l'inizio di un incubo, un incubo dove appare Nathan,
un ragazzo presuntuoso e irruente, il ragazzo della sua sorellastra.
Un ragazzo che con prepotenza, arroganza e gesti folli riesce a sconvolgerle la vita.
«Se non mi dici il tuo nome, io mi butto», strillò ancora, facendomi sobbalzare.
«Victoria», gridai con quanto fiato avevo in gola. «Il mio nome è Victoria».
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie ''The Rain Series''
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Capitolo 1
"La prigione"




Urlare è suggestivo. Quando senti che l’unica cosa che può farti sentire meglio è far cantare le corde vocali, ti rendi conto che urlare è stimolante. Il sogno di ognuno di noi. Per i bambini è normale, per gli adolescenti è uno sfogo, per gli adulti è una follia. Per me, era una normalità sfogarmi follemente.

«Tu non capisci!», sbraitai. «Stiamo parlando del regno dei morti. Un posto che non preferirei neanche alla prigione». Kate proprio non ne voleva sapere di darmi ragione.

«Smettila di essere così melodrammatica. Potresti divertirti lì», cercò di consolarmi con un sorriso, feci finta di rabbrividire e scherzosamente le tirai un pugno sulla spalla. Mia madre fece la sua teatrale entrata in camera con un grosso sorriso stampato in faccia e mi ricordò che era colpa sua tutta quella storia.

«Le valige?», mi domandò.

«Le valige per l’inferno?», dissi avvelenata.

«Tesoro, non credo che una piccola città del Wisconsin possa essere l’inferno», mi rispose a tono. Mia madre mi somigliava molto in fatto di acutezza. Le piaceva essere ironica e usare il sarcasmo. Cose che avevo ereditato direttamente da lei. Solo che io ero una diciottenne facilmente irritabile e lei una trentaseienne con due figli adolescenti.

«Mamma, un posto dimenticato dal mondo è un inferno». Sottolineai mentre mi alzavo dal letto per chiudere l’ultima valigia.

«Bé, almeno non sarai sola », mi consolò Kate. Io e il mio ventenne fratello maggiore ci stavamo trasferendo momentaneamente a Longwood un piccolo paesino del Wisconsin dove viveva mio padre e la sua nuova vita: una moglie e due figlie. Era stata una decisione “famiglia” ma, punto primo: io non ero stata presa neanche in considerazione. Punto secondo: quale famiglia? Conoscevo molto bene il motivo di quella partenza. Si chiamava Victoria Hamilton, o meglio, mi chiamavo Victoria Hamilton. Per mia madre avevo bisogno di cambiare aria, perché rimanendo a New York non facevo altro che prendere strade sbagliate, frequentare le persone sbagliate, dedicarmi alle cose sbagliate, e lì adesso, non c'era più posto per me.

«Oh certo, avrò con me la compagnia di quel fallito di mio fratello». Ne avevo abbastanza della gente che cercava di trovare lati positivi al mio trasferimento temporaneo: loro non dovevano partire.

«Hey signorina, calma! Stai parlando pur sempre di tuo fratello», mi rimproverò la mamma. Shane era ciò che c’era di più simile ad una creatura irritante, egoista e presuntuosa. Era bello, purtroppo per il resto del mondo. Aveva i capelli scuri e due occhi verdi, ereditati dalla mamma. La sua pecca era essere incredibilmente inopportuno. Diceva cose che non doveva, nei momenti meno giusti. Insomma, era un fratello a tutti gli effetti. In un certo senso io gli somigliavo: avevo i capelli scuri, gli occhi però ereditati da mio padre, erano scuri. Avevamo entrambi un carattere…impetuoso. Un buon aggettivo per descrivere due teste calde. Ormai sicura di non avere vie di scampo, mi trascinai per il corridoio con l’ultima valigia. Al piano di sotto, c’era Garrett, il nuovo compagno di mia madre, un uomo troppo buono e onesto per il mondo, Shane, sangue del mio sangue, ultima categoria di intelligenza del genere umano, anche meglio conosciuto come mio fratello maggiore.

«Mostriciattolo, che hai? Non c’è posto per la tua chitarra in valigia?», rise di gusto, con i suoi soliti modi solari e allegri, che in quel momento erano la cosa più snervante che potesse avere.

«Sei un idiota, Shane!», sbraitai furiosa. Oltre il danno anche la beffa.

«Non vedo l’ora di conoscere le nostre sorellastre». E non c’è due senza tre. Mio fratello non aveva coscienza quando si trattava di ragazze, usava la malizia anche nei momenti più inopportuni. Come si può pensare a qualcosa di malizioso quando si parla di due sorelle acquisite e sconosciute?

«Shane, hanno undici e diciotto anni», disse mia madre seguita da Kate.

«Come hai detto che si chiamano?», mi chiese Kate mentre Garrett chiudeva il portabagagli dell’auto.

«Emma e Madison», trattenni una risata. Ma fu inutile perché Shane prese a ripetere i nomi e scoppiammo a ridere. Detestavo mio fratello, se avessi avuto l’occasione di gettarlo da un aereo in volo l’avrei fatto senza esitazioni. Ma era comunque mio fratello e c’era – purtroppo – quell’amore spontaneo che nutrivo per lui che non potevo negare. Sarebbe rimasto l’unico, perché io non avevo altro. Quelle due che mio padre considerava figlie, quella che lui considerava moglie, non avevano alcun legame con me. E mio padre, beh, lui lo aveva perso da molto tempo quel legame.

«Ma che razza di nomi sono?», ed ormai eravamo partiti in quarta.

«Per favore ragazzi non fate fare brutta figura a vostro padre!», ci rimproverò la mamma.

«Saremo due angioletti», Shane cercò di rassicurarla. Ma detto da lui era preoccupante. Arrivato il momento, salutai la mamma e la mia povera Kate.

«Come farò senza di te all’accademia, voce d’usignolo?», i suoi occhi cominciarono a luccicare e capii che era il momento di andare via, prima di cominciare a sentire veramente la tristezza.

«Sopravvivrai», l’abbracciai più forte di quanto mai avessi fatto e salii in macchina, dove Garrett ci avrebbe portati all’aeroporto. Mi sarebbe mancata l'intero stato di New York. Mi sarebbe mancata Kate, la mia prestigiosa New York Academy. Mi voltai a salutare un’ultima volta la mia felicità. In aeroporto passai il tempo ad ascoltare musica.
L’unica cosa che non poteva andare via dalla mia vita. Pensai e ripensai a quello che era successo prima di partire e a quello che sarebbe successo dopo. Era passato troppo tempo da quando avevo visto mio padre l’ultima volta e non ero sicura del modo in cui mi avrebbe guardata. Purtroppo quando perdi la fiducia di qualcuno, la perdi per sempre. Questo è quello che avevo imparato dalla mia famiglia. Okay, detto così sembra che io sia una persona un po’ troppo pessimista. Ma in fondo io sono una finta-pessimista. Mi piace giocare con la fortuna, sfidarla finché non mi porta qualcosa di buono. Se mi porta a qualcosa di buono.


"«Mamma! Non puoi mandarci lì, cosa ti è venuto in mente? Non posso crederci... è per la storia di Evan, vero? Non devo già soffrire abbastanza senza che adesso debba trasferirmi? Come farò con l’accademia?», ero furiosa. Adesso venivo spedita nel Wisconsin perché mi ero chiusa nel mio dolore, perché mia madre mi aveva definito "apatica". Se solo non fosse successo niente…la mia vita non si sarebbe ridotta Ma neanche per sogno sarei andata a Longwood!

«Ti prego Vicky, cerca di capirmi. Se ti lascio qui rischierai di prendere una brutta strada! E' meglio per te», si era giustificata esasperata.

«Mamma non farlo» Ma ormai era inutile, la decisione era stata presa."



Mi risvegliai. «Vicky, hey senti.», la voce di Shane mi riportò sulla terra lasciando che il solito ricordo ridiventasse un velo di trasparenza.

«Non chiamarmi così, sai quanto lo detesto», mi stiracchiai i muscoli, sbadigliai più di una volta. La schiena era a pezzi e a malapena riuscivo a muovere il collo. Tutta colpa dei sedili scomodi.

«Victoria», sottolineò prima di continuare, «Volevo dirti che, anche se proverai ad ammazzarmi durante il soggiorno a Longwood, e io cercherò di renderti ridicola sempre e comunque…so che significa per te questo viaggio, e se vuoi qualcuno con cui parlare…», mantenne il suo tono teso e serio, che non capitava spesso tra le sue labbra.

«No, ti prego, no. Non parlare così, questi momenti sdolcinati lasciali ai film», scherzai. Eppure mi sentii meglio nel sapere che il mio fratellone era con me. D’altronde era colpa mia se adesso stavamo passando dall’altra parte dell’America per chissà quanto tempo.

«Facciamo così…se avrai bisogno di me basterà una frase in codice. Che ne pensi di: “Shane sei bellissimo, il migliore fratello in circolazione”?».

«Preferirei farmi tirare il sangue», risposi ridendo. Papà ci venne a prendere fuori all’aeroporto, in divisa, come da tanto tempo non lo vedevo.

«Vicky, Shane!», ci corse in contro con i suoi modi sempre composti ed eleganti abbracciandoci entrambi come se fossimo due bambini.

«Papà, ti prego non fare così», appena pronunciai quelle parole, mi ricordai mia madre.

«Scusa», si staccò lentamente e prese a fissarci come un padre orgoglioso che rivede i figli dopo tanto tempo. Gli brillavano gli occhi.

«E’ da molto che non ci vediamo ed ho voglia di dirvi molte cose, ma tra un’ora devo lavorare e credo che riuscirò solo a portarvi a casa e presentarvi alle ragazze», alzai gli occhi al cielo ed ignorai le occhiatacce di Shane. Sorridevo a mio padre forzatamente, voltavo il viso ogni volta che lo trovavo a fissarmi, sbuffavo appena se ne usciva con quelle frasi sdolcinata a cui non credevo. Feci per attraversare la strada per dirigermi verso la Mercedes di papà, quando sentii il rombo di un motore e mi voltai giusto in tempo per vedere quanto fosse vicino a me. Una moto – a cui ero incapace di dare un nome tantomeno una marca –mi sfiorò le gambe e per un pelo, non mi investii. Il ragazzo sulla moto, irriconoscibile, si era a malapena accorto di me ed aveva continuato a correre come un pazzo per le strade di Longwood. Che diavolo avevano contro di me, quel giorno? Shane mi tirò per il gomito più spaventato per la reazione che avrei avuto che per il quasi-incidente con la moto, che incurante della mia incolumità si era volatilizzata.

«Tutto bene?», chiese mio padre. Annuii e diedi un calcio carico di energia alla valigia.

«Non posso crederci. Shane qui c’è gente più idiota di te!», sbuffai con i nervi al massimo. In macchina poggiai la testa al finestrino fissando il panorama. Longwood era un bel posto, esteticamente parlando. C’era il mare, il sole e in estate, c’era anche il luna park. Ma essendo un paese minuscolo di poco più che 4500 persone, la gente parlava e parlava, una cosa che io non riuscivo ad accettare. Ero una ragazza di città cresciuta a New York, avevo la mia giustificazione. La casa di papà era a due passi dal mare, grande –molto più della nostra – e soprattutto ariosa. Le finestre grandi e trasparenti lasciavano intravedere il piano terra della casa. E quella trasparenza dava alla casa un aspetto moderno, ma anche molto elegante. Niente a che vedere con gli appartamenti di Manhattan, o i palazzi di New York City. Quando arrivammo finsi uno dei miei migliori sorrisi e mi preparai ad essere la vecchia Victoria.

«Eccovi! Non sapete da quanto tempo aspetto questo momento», Norah, la seconda moglie di papà, era una bella donna. Capelli biondo cenere, occhi grigi, alta con un fisico atletico. Aveva stampato un grosso sorriso sul viso e un espressione di costante beatitudine. Da una parte, era molto simile alla mia mamma: forse era una cosa da mamme. Ci accolse come se fossimo la gioia più grande della sua estate e ci fece entrare. Cominciai ad agitarmi a causa di tutta quella felicità senza senso e presi a fissare il polsino sul braccio sinistro. Gli interni della casa erano formati da un arredamento rigorosamente colorati e gli accessori rigorosamente, bé…colorati. Era palese che in quella casa ci fosse una maggioranza femminile effettivamente eccentrica.

«Emma, Madison, forza scendete!», urlò Norah. «Venite, dovete essere stanchi, lasciate a vostro padre le valige», seguii Norah nel soggiorno seguita da Shane e due ragazze che scendevano le scale. «Eccoci mamma», disse raggiante la prima.

«Emma, Maddie questi sono Shane e Vicky», ci presentò sempre con lo stesso entusiasmo.

«Victoria», la corressi. La ragazza più alta, probabilmente Emma, doveva avere la mia età. Era identica a Norah, bionda e occhi chiari, solo più giovane. La più piccola, Madison aveva gli occhi e i capelli più scuri e un bel sorriso infantile. Due bamboline.

«Ciao», disse Emma. «Com’è andato il viaggio?».

«Bene», rispose immediatamente Shane. «Ragazzi, adesso devo scappare a lavoro, per qualsiasi cosa ci sono Norah e le ragazze. Ci vediamo stasera», mi diede un bacio sulla guancia frettolosamente e scomparve, non mi aveva neanche dato il tempo di scansarmi dal bacio.

«Avete bisogno di una mano?», chiese Emma rivolgendosi a me.

«Puoi dirmi qual è la mia stanza?», chiesi in quel che si chiama modo gentile. Madison ridacchiò e Emma fece segno di seguirla.

«Stanza?», ripeté, «Tu dividerai la camera con me. Sai, la casa è grande, ma in realtà abbiamo solo una camera per gli ospiti e visto che Shane è l’unico ragazzo abbiamo pensato che era meglio darla a lui…», mi spiegò un pò intimidita dal mio sguardo. Scossi la testa più volte.

«Forte…ehm…per caso nella tua camera c’è anche una finestra dove buttarsi?», chiesi pungente.

«Vicky», Shane mi riprese ancora. “Vicky. Vicky. Basta! Io mi chiamo Victoria”, avrei urlato al mondo se i miei problemi non fossero stati altri. Ero a Longwood per dimostrare che ero una persona comune, responsabile e in grado di badare a sé. Avevo diciottoanni e se non riuscivo a dimostrare di avere tutti i requisiti, mi avrebbero rinchiusa da qualche parte. Emma seguita dalla silenziosa Madison, mi mostrò la sua grande e colorata camera. Perlomeno, avevo abbastanza spazio per me. La camera era già attrezzata di un secondo letto sotto la finestra e vicino al baule di peluche. I muri erano tappezzati di foto…di persone sconosciute a me. Ed io che sognavo ancora sui poster di Di Caprio e Jhonny Depp. «Se vuoi togliere qualcosa, non so…se ti da fastidio, fa come se fosse la tua camera», questo, però, non avrebbe dovuto dirlo, o l'avrei presa davvero in parola.

---------

«Noi andiamo a fare due passi», dissi a Norah. Senza aspettare che rispondesse trascinai fuori Shane con la forza. Ero uscita come una furia da quella casa, per paura di poter avere una crisi di nervi avanti a persone che non conoscevo.
L’aria di Longwood era…estiva. A New York era molto più difficile riuscire a sentire l’estate sulla pelle. Era una città troppo caotica per poter distinguere una stagione dall’altra. In inverno, in estate, in primavera e in autunno, facevo le stesse identiche cose. Non ero affatto abituata ad andare al mare in estate, nei parchi in autunno o in montagna in inverno. Io andavo ovunque, sempre. Camminavamo silenziosi sul lungomare già lontani da casa. Il mare brillava al sole, noi, con quegli abiti così scuri, neri e viola, non passavamo inosservato come mi sarebbe piaciuto. Tutti continuavano a fissarci. Era così evidente che venivamo della città? Nascosi gli occhi tra le ciocche di capelli neri e mi feci piccola vicino a Shane. Arrivati ad una piazzetta affollata, qualcosa catturò la mia attenzione. C’era quella moto. Blue e luccicante Sembrava luccicare lì per me e dire: “distruggimi”.
Lo so, sembra che io soffra di disturbi di personalità, ma in realtà è molto più semplice. Mi piace fare la difficile.

«Hey Shane», indicai il mezzo. «Quella è la moto che mi ha quasi investita», dissi maliziosa. Aspettai qualche secondo per lasciare che la mia testa elaborasse qualcosa. Infatti, la mia testa già stava macchinando, a dispetto della mia coscienza, un modo per riscattare quel irritante incidente. Era stuzzicante.

«Hai una moneta?», disse pensierosa.

«Che vuoi fare, Vic?», domandò serio, preoccupato che io potessi procurarmi qualche problema già dal primo giorno di permanenza. Non ero un tipo a cui piaceva passare i guai, di solito era ai guai che piaceva stare con me. Ero una persona tranquilla, vivevo in un bolla di sapone, ma se qualcuno entrava nella mia bolla di sapone non la lasciavo più uscire.
Veloce e indolore, con un penny piuttosto consumato, rigai lasciando un lunga e stridula striscia, molto evidente, sulla preziosa moto. Era solo un piccolo, insignificante – forse un po’ doloroso – graffio sul blu lucido del motore. Non ero certo soddisfatta di me, rigare una moto cinque minuti dopo essere arrivata in un paese non era una cosa di buone maniera, però…

«Hey! La mia moto!», un grido distolse il mio sguardo e la mia attenzione dall'accurato segno che avevo lasciato sulla moto. Mi voltai lentamente e in modo meccanico, giusto in tempo per capire che l’urlo furioso che veniva da dietro le mie spalle era rivolto a me. Oops.


Fine primo capitolo.



Salve, se state leggendo qui, vuol dire che avete letto il primo capitolo di questa storia e spero che vi sia piaciuto. E' una storia sull'amore, una storia sulla sconvolgente vita che può avere un'adolescente. E' una storia sulla musica, è una storia come le altre che può diventare speciale per qualcuno. Sarebbe un orgoglio sapere se c'è qualcuno a cui è piaciuto, perciò aspetto i vostri giudizi e le vostre critiche. Grazie mille per l'attenzione. BBV
  
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