Fictional Dream © 2010 (16 febbraio 2010)
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L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
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Quando zia Lula diceva che le nuove generazioni avevano poco
rispetto – per tutto, sottolineava schioccando la lingua – ho sempre
pensato che ce l’avesse con Bobby Wallace, un botolo con due inquietanti
sopracciglia che a Huzlehurst, Mississippi, era famoso soprattutto per la
gittata del suo sputo.
Un vero cammello, Bobby, altroché: riusciva a centrarmi il
culo da tre o quattro metri.
Ma non è della mia sfolgorante infanzia che voglio parlare –
anche se ne avrei da raccontare, eh? – quanto di una serie di sfortunati eventi
che mi hanno portato, ancora una volta, a rivalutare la grande saggezza della
mia zia svitata: le pazze e i froci sono del resto quella voce di buonsenso che
preferisci di norma ignorare; dietro il trucco che cola, un abisso di verità.
Bisogna essere molto maschi per guardarla in faccia, notate bene, il che di
norma non piace ai repubblicani. Da queste parti, ormai, se ne vedono troppi,
incollati alla loro proposizione quattordici come piattole sul culo di una
marchetta. Alla fine ci fai l’abitudine: è un po’ come l’odore del granturco
bruciato del Mississippi, intendo.
Comunque zia Lula non ce l’aveva con Bobby più di quanto non
ce l’avesse con Jamie McKenzie o Brian Stevenson: la sua era più che altro una
posizione di principio, che passava per le frittelle e moriva su un tramonto
sanguinolento di blues e pannocchie. Quello cui mirava, era insegnare al
sottoscritto – Emmett, la giovane checca di Huzlehurst – a non lasciarsi
sfuggire nemmeno un dettaglio, perché la vita era complessità e gratitudine.
Sissignore: mai sfuggire ai riti e agli equilibri della tua
comunità.
Poiché il Mississippi non era senz’altro la mia, ovviamente,
ero dispensato dal disturbo. Quando tuttavia decisi di regalarmi una chance e
migrai a Pittsburgh – pessimo clima, ma sempre meglio del Canada, siamo seri –
feci subito mia la lezione della zia Lula: ero una giovane checca del Sud
affamata di legittimazione; veneravo la stella di Godiva e imparavo il sottile e
perverso piacere del dildo aromatizzato alla banana.
La vita è un parco giochi, sapete? L’essenziale è capirne le
regole.
Quando mi parlarono per la prima volta di Mysterious Marilyn,
dunque, mi guardai bene dal fare dell’ironia. Un po’ perché con le transgender
non è sempre il caso di sfoderare il sarcasmo a sproposito; un po’ perché ero
sempre la povera, piccola spaventata checca di Huzlehurst, Mississippi.
Godiva me la fece conoscere ch’era ancora nel suo periodo
rosa: un puff semovente di trasparenze sinistre, che ondeggiava per la Liberty
Avenue oracolando amore e disgrazie.
“Farsi leggere il futuro è un buon modo per cominciare una
nuova vita,” mi sussurrò Godiva. Ignoravo, all’epoca, che Mysterious Marilyn
esisteva soprattutto per inventartelo, un futuro, se non avevi abbastanza
fantasia da andare fino in fondo. Quel giorno, in ogni caso, non solo conobbi un
altro arredo umano fondamentale della comunità gay di Pittsburgh, quanto il
ruolo essenziale che vestiva un travestito cartomante tra le fate della Liberty
Avenue.
Io, almeno, dell’ironia su Mysterious Marilyn non l’avrei mai
fatta.
Non tutti, però, hanno il mio buonsenso.
Il giorno in cui Mysterious Marilyn entrò al Liberty Diner –
era il febbraio o il marzo del duemilasei. C’erano ancora troppi repubblicani in
giro e Debbie aveva avuto un terribile attacco di sciatica – nessuno fece caso
alla sua espressione corrucciata e tetra. Ora: sarebbe facile dire che Marilyn
aveva sempre un’espressione abbastanza tetra e, soprattutto, cincischiava
tanti veli quanti una principessa araba, ma quel giorno era evidente che la
situazione fosse diversa e assai più seria di quel che a chiunque sarebbe
piaciuto ammettere.
L’unico a notarlo, però, fui io, perché il pubblico pagante
non era senz’altro di quelli attenti alle sfumature. Oltre a Debbie, appunto –
che era però alle prese con la sciatica – c’erano Carl e Hunter – due
eterosessuali, cioè. E che vuoi pretendere da due eterosessuali? – nonché il
vanto dei gay di Pittsburgh: il principe ego Brian Kinney.
Non che si vedesse poi molto da queste parti, da che la
principale attrazione del Liberty Diner – il culo di Justin Taylor – aveva preso
il volo per New York.
Era un imprenditore di successo con scarpe italiane e cuore
infranto: una tavola calda alla buona poteva anche non essere la migliore delle
cure possibili.
Brian è sempre stato, al contempo, un frocio modello e il
peggior nemico dei gay, oltre che di se stesso, beninteso. Una specie di Re
Nudo, la cui carrozzeria è sempre valsa il disturbo del silenzio. Quando Justin
se ne andò, tutta Liberty Avenue si sentì quantomeno in diritto di sentirne la
mancanza fuorché lui.
L’invincibile Brian Kinney, no. Lui poteva
rinunciare. Ah, ah.
Il mio principale rimpianto è stato quello di non aver avuto
il bouquet dello sposo: sono abbastanza onesto da ammetterlo, almeno.
Ma torniamo a quel giorno: neve ovunque, pochi clienti,
Hunter passa lo straccio, mentre ripete qualche astrusa formula trigonometrica,
Carl mi tenta con la pagina sportiva – e io, con gli sportivi, ho chiuso. Credo
– e Brian si lamenta della temperatura del caffè. A quel punto, mentre
l’orologio ticchetta di noia, entra la nostra Marilyn. La sua aura invade il
locale, o forse è il tremendo patchouli di cui è intrisa sino all’ultimo
boccolo; Carl continua a raccontarmi qualcosa di Drew – il mio ventricolo destro
lo ascolta. Il sinistro vorrebbe pugnalarlo – Hunter s’imbambola davanti alla
locandina di un concerto della Spears – o robetta del genere.
L’unico in grado di cogliere l’importanza dell’epifania,
insomma, sarei io: che attacco bottone.
La zia Lula era molto risoluta nel condannare l’indifferenza.
Se Dio ci avesse fatti eremiti, diceva sempre, avrebbe risparmiato la
carne per le orecchie.
“Cosa dicono le stelle, divina?” esordii con il più
televisivo dei miei sorrisi – anche se ormai potevo esercitare solo per gli
amici. Marilyn ordinò un etereo quark e una molto terrena omelette con la
pancetta, prima di far vagare lo sguardo sul locale, dagli sparuti avventori al
culo di Brian Kinney, intento a recuperare il cellulare. “Un terribile
transito,” pontificò con voce drammatica. “Questa settimana accadrà senz’altro
qualcosa di tremendo.”
Debbie riemerse dalla cucina con un piatto di frittelle, la
ciotola per la panna e l’espressione scettica dell’italiana che, dopo aver
divorziato da Dio, non pensa certo di portarsi a letto un nuovo credo. “E
perché?” mugugnò, lasciando planare le ordinazioni con la solita efficienza
brutale. Marilyn sprofondò l’indice nella panna, se lo portò alla bocca e,
umettandosi soddisfatta le labbra, oracolò. “Saturno contro. Un terribile
Saturno in transito negativo.”
Brian sollevò ironico un sopracciglio e non poté evitare di
spararne una delle sue. “Sai che tragedia… Per un pianeta che curva contromano!”
Io l’ho sempre detto che Brian dovrebbe andarci un po’ più
morbido con le trans gender; soprattutto quelle che hanno la fama di predire il
futuro e sono un po’ fattucchiere.
Marilyn, non a caso, lo fissò con quell’occhiata penetrante
che il povero Vic chiamava all’italiana ‘malocchio’ e scongiurava con un
gesto efficace e assai poco elegante.
“Saturno in transito negativo è sinonimo di abbandoni,
sconfitte e rinunce!”
Brian – il loden già sulle spalle – le rivolse un sorrisetto
sardonico, di quelli che o impari a conviverci, o impari a compatirlo.
Dev’essere dura avere Saturno contro e fare comunque finta di niente.
“Non è un mio problema,” si sentì in dovere di rimarcare – di
mentire. “Abbandoni, rinunce e sconfitte non sono il mio campo.”
Debbie roteò gli occhi, prima di tirare una sberla a Hunter,
colpevole d’essere eterosessuale e ormonalmente attivo in un locale in cui la
pagina della moda entrava solo come prontuario pratico per le meches. Un
silenzio politicamente corretto, in ogni caso, prese il posto del quasi
inevitabile ‘disse l’uomo abbandonato sull’altare da un raggio di sole,’
perché a mettere il dito nella piaga non ci avrebbe guadagnato nessuno.
“Saturno è il Signore del Tempo e qualcuno lo definisce
Signore del Karma. Se ignoriamo i nostri doveri e le nostre responsabilità,
se crediamo di fare i furbi fregando il prossimo e facendola franca, stiamo solo
facendo i conti senza l’oste. Saturno è il famoso oste che fa i conti per
noi. Chi ha paura della disciplina e delle responsabilità e tenta di evitarle a
ogni costo, ha ben più di un motivo per temere Saturno!” ululò a questo punto la
divina, facendo increspare i veli della propria collera e i boccoli posticci di
Debbie.
Per tutta risposta, Brian sollevò la tazza di caffè. “E cosa
dovrei fare perché al signor Saturno smetta di rodere il culo? Invitarlo a farsi
un giro al Babylon?”
Marilyn picchiettò la mandorla dell’unghia contro il bancone:
indi, sdegnosa, abbandonò il campo. La campanella del Liberty ondeggiò ancora un
poco, quasi volesse conservare nel tempo l’impronta di quell’epifania, poi tutto
tornò bulimico e smorto.
“Ci si vede,” disse poco dopo Kinney. “Se Saturno capita da
queste parti, salutatemelo.”
La popolarità è qualcosa di terribile, sapete? Un po’ come
sembrare etero.
Se sei popolare, precipiti da solo in una spirale di
aspettative che costruisci prima di tutto per fatti tuoi. Nessuno vuole davvero
niente, siamo onesti, ma ti fa piacere pensare il contrario.
Brian, per dire, ha questo complesso del frocio alpha
o non so cosa. È così che ha perso Michael e Justin e un mucchio di occasioni
per essere davvero felice. Di norma, però, taccio, perché un Kinney non è
abbastanza intelligente da piegarsi ai consigli della zia Lula.
Quel giorno avevo in programma due feste di fidanzamento, un
addio al celibato e un compleanno; per quanto facesse comodo pensare il
contrario, anch’io avevo molto da fare: aiutare gli etero a essere decenti, è
una guerra che non conosce stagioni.
Carl mi offrì un passaggio per la Center Avenue, visto che la
prima tappa delle mie peregrinazioni sarebbe stato il Towsend’s Sweet Shoppe,
dolci e biscotti e creme sino a svenire.
Carino, da parte sua – per quanto l’intenzione puzzasse di
secondi fini – ma se l’avessi sentito parlare per l’ennesima volta dei lanci
lunghi di Drew, Saturno con la luna di traverso sarebbe stato ben poca cosa
rispetto alla disperazione di una fata.
“Non ci provare, tu,” berciò Debbie, “lo sappiamo tutti cosa
vorresti fare da quelle parti. ‘Signor cannolo? La dichiaro in arresto. Ha
diritto…’” e blah blah blah.
Carl ripiegò il giornale e se ne andò via contrariato. Il
sottoscritto lo seguì poco dopo, perché procrastinare non ha mai reso nessuno in
grado di organizzare quattro party favolosi in mezza giornata. Siamo gay,
insomma: ai miracoli non siamo ancora arrivati.
Fosse perché faceva davvero un freddo cane, fosse perché mi
sentivo in colpa per la battuta di Debbie, alla fine mi piegai comunque al
passaggio di Horvath. C’era qualcosa di incongruo in una coppia formata da un
vecchio poliziotto e da una checca d’assalto, ma a zia Lula, suppongo, avrebbe
fatto piacere. La verità è che gli eterosessuali sono proprio come noi, a parte
una discutibile passione per il buco sbagliato e quella ancora più terrificante
per i calzini di spugna bianchi sotto i boxer. A Carl, per altro, va
riconosciuto il fegato non indifferente di stare con una Fag’s Mom, il
che gli fa guadagnare sul campo stellette che, suppongo, non gli sarebbe venuto
mai in mente di chiedere. Ma sto divagando ancora.
Eravamo all’altezza della County Court, incolonnati in un
serpentone fumante di lamiere tra cumuli di neve alti come palazzi, quando un
agente del presidio di Carl, riconosciuta l’auto, ci si affiancò. Un tipo
davvero interessante, aggiungo io. Una specie di Benicio del Toro ripulito, con
due occhi artici che…
“Dovete fare il giro dell’isolato. Il traffico è stato
deviato per la Forbes Avenue.”
Mi riscossi dalla contemplazione di quella meraviglia umana
appena in tempo per cogliere, a dieci o venti metri di distanza, il lampeggiare
purtroppo familiare di un mezzo del primo intervento. Dopo la bomba, inutile
sottolinearlo, siamo diventati tutti molto sensibili ai simboli come alle
citazioni del dolore.
“C’è stato un incidente, agente?” flautai, cercando di capire
se fosse articolo da Babylon e se, soprattutto, avrei potuto trascinarcelo.
Benicio, però, doveva essersi allineato con Saturno lungo la direttrice del
due di picche, sicché mi ignorò. “Un tipo con una macchina d’epoca. Una
pattinata sul ghiaccio spettacolare,” riferiva a Carl. “Quando uno se le cerca,
dico…”
E quando uno non ascolta Marilyn, pensavo io. Quanti
idioti giravano per Pittsburgh con una corvetta fuori produzione? Non mi
sembrava il caso di pensare a voce alta, quanto di seguire l’istinto: dove mai
si era vista una fata che lasciava un amico nei guai?
Be’, amico era un titolo esagerato per Brian Kinney,
ma poiché era una specie di monumento della nostra comunità, mi sarebbe parso
squallido abbandonarlo alle proprie miserie.
Lasciai l’auto di Carl e mi condannai a una non proprio
piacevole gincana tra automobilisti furibondi e pozzanghere. Arrivai là dove
c’era stato il botto appena in tempo per veder schizzare via l’ambulanza:
restava un vecchio rottame sbullonato in mezzo alla circonvallazione per la 6th
Avenue. Restava l’incertezza del testimone scomodo.
Era evidente, a quel punto, che toccasse a me avvertire
Michael, visto che Brian Kinney ricordava di avere una famiglia solo quando
voleva una scusa ulteriore per riempirsi il naso di qualcosa.
Quella tra Mikey e Brian è la più grande storia d’amore dopo
Rossella e Butler, solo che sono passati direttamente alla fase ‘domani è un
altro giorno.’
In potenza avrebbero potuto trasformarsi in una coppia di
ferro, solo che hanno fatto questo incomprensibile voto di castità per cui hanno
sempre scopato con qualcun altro. Ciò non ha impedito loro di continuare ad
amoreggiare a dispetto dei rispettivi partner, fosse solo perché Ben sarà il
prossimo Dalai Lama, e Justin aveva dalla sua l’età della speranza e delle
illusioni a vuoto.
Michael, comunque, fu la prima persona che mi venne in mente
di avvisare, perché è l’unico gay al mondo che non abbia mai augurato le
piattole a Kinney.
Un buono, dunque, un santo, un amico e un coglione.
Che telefonata indimenticabile, fu quella!
Se c’è qualcosa che ti dà davvero soddisfazione nella
comunità gay, quello è il sentimento del tragico. Ogni omosessuale
nasconde in sé una promettente diva del muto e non si fa scrupolo a tirarla
fuori se solo gli lanci il famoso amo.
Il mio pesce abboccò subito: cinque minuti e già il mio
cellulare tubava a vuoto. A quel punto, poiché Benicio non era granché
socievole, Mikey avrebbe affisso alla porta del negozio ‘chiuso per dubbio’
– nessuno sapeva cosa fosse successo a Kinney, e con Saturno contro era meglio
non speculare a vuoto – e i quattro party erano al momento sono una nota nella
mia agenda, decisi di mettermi in moto.
È catartico lavorare per gli eterosessuali: sapere che ti
disprezzano in profondità, ma non possono fare a meno di te è soddisfacente.
Siamo un po’ come il barboncino della padrona di casa: rosa confetto, cotonato e
abituato a cagare nelle scarpe del di lei marito. Il di lei marito, ovviamente,
non potrebbe torcergli un pelo senza terribili ritorsioni domestiche.
Tutto sommato fu una giornata quasi piacevole, arresa a una
routine collaudata; restava, da qualche parte, sospeso il molesto pensiero di
Brian, dell’incidente e di Saturno, ma adottai anche in quel caso una delle
tante strategie di sopravvivenza firmate zia Lula: visto che la vita non è
facile e non è allegra, foderala del cinz di un pensiero felice.
Erano più o meno le otto della sera – mancava solo l’addio al
celibato, ma dal locale ai dolci era già tutto in ordine – quando pensai di
chiamare Ted, che, lavorando alle dipendenze di Kinney, era senz’altro l’unico
informato. Il fatto stesso che la sua voce suonasse ferma, efficiente e solo
blandamente ansiosa – quando se c’è uno tachicardico davanti alla vita, quello è
proprio il buon Ted – concorse a rinfrancarmi non poco.
“Ci sono novità?”
“Non immagini quante,” fu però la secca replica, e a quel
punto pensai di potermi preoccupare con un qualche perché.
Ci demmo appuntamento da Whoody’s per un giro di birra (anche
se solo metaforico, visto che Ted andava avanti a mirtillo e buoni propositi).
Neppure un’ora più tardi ci raggiunse Ben, ma a quel punto ne sapevo abbastanza
per non stupirmi più di niente.
Saturno, almeno, non era più il solo a guidare contromano.
Ben Bruckner è, al contempo, una pubblicità progresso sui
benefici dello yoga e una leggenda metropolitana sull’AIDS. Sai di quelle storie
che ti racconti al college, della scopata che finisce con il cartoncino ‘complimenti,
sei positivo?’
Qualcosa del genere.
È difficile credere che un bel maschione così sano sia
sieropositivo, no? Sarebbe difficile anche resistergli, penso io; siccome è un
marito premuroso e fedele, e Mikey è sempre stato la fidanzatina d’America,
tuttavia, non mi è mai venuta voglia di provarci.
Se c’è qualcosa di ammirevole in Ben, in ogni caso, è lo
stoicismo con cui ha da sempre accettato di poter convivere con Brian Kinney; e
avrebbe senz’altro continuato a farlo, probabilmente, se Saturno non avesse
deciso d’infettare anche il suo karma con una manovra che chiamare scorretta
sarebbe stato eufemistico.
In due parole?
Come Ted mi raccontò, l’incidente non aveva avuto per fortuna
alcuna conseguenza di rilievo: a parte svegliarsi con la seccante emicrania di
una modesta commozione cerebrale, Brian non aveva riportato alcuna lesione degna
d’essere chiamata tale. Stava benissimo, tant’è che era già pronto a fare causa
all’amministrazione cittadina per la pessima manutenzione del manto stradale.
Tipico di Brian, no?
“Meglio così,” replicai, adocchiando un articolo di pelle
simil Benicio.
“Ancora non hai sentito il bello, però,” mi redarguì Ted
subito dopo. “Adesso Brian è convinto che Michael sia il suo ragazzo.”
“Alla buonora. Se n’è accorto, finalmente,” mugolai
soprappensiero; poi mi strozzai con un paio di bollicine.
“Che?”
Ted sollevò le spalle, con quel tic da avvoltoio insicuro che
nemmeno il miglior chirurgo plastico del mondo potrebbe scollarti di dosso. “Hai
sentito bene. Sembrava tutto normale; i medici erano già pronti a dimetterlo e
lui, di punto in bianco, agguanta Mikey, lo bacia e tira fuori un: ‘Torniamocene
a casa. Voglio controllare se funziona anche tutto il resto,’ che ha
sconvolto un po’ tutti.”
Il mento mi scivolò fino alle palle, e non trovai nulla di
decente da obiettare.
“Non ha proprio perso la memoria, è più una specie di amnesia
selettiva,” continuò Ted, che frequentare certi circoli di auto-aiuto ha reso un
po’ troppo sensibile nei confronti dell’anima – crede, cioè, che ne possieda una
anche Brian, quando qualunque persona dotata di buonsenso preferirebbe tenersi
il dubbio.
“Ma… Michael?”
“Secondo te?” fece spiccia una voce che conoscevamo entrambi
benissimo, mentre Bruckner raggiungeva il bancone e ordinava una birra. Benché
un po’ meno zen del solito, Ben emanava la solita aura da ‘sono una creatura
matura, superiore e in pace con il mondo.’ C’era anche un vago retrogusto di
‘ma se Brian non esistesse, sarei ancora più maturo, superiore e pacifico.’
Non era il caso di farglielo notare.
“Starà da lui per un po’. Finché la situazione non si sarà
normalizzata, dubito che ascolterebbe ragioni.”
C’era dello stoicismo, nell’uomo Bruckner. Il problema, però,
sarebbe sempre la sottile linea rossa che passa tra l’essere comprensivi e il
prenderla nel culo. Non mi risultava, almeno, che Ben fosse il passivo della
coppia.
“Pensi che Michael…”
Ben bevve un sorso di birra, fissando il vuoto: la classica
espressione dell’uomo forte che, pur fiutando le corna, s’ingegna a viverle con
dignità.
“Io mi fido di lui.”
Tutto quel che mi venne in mente fu una citazione dal
Titanic: Rose, Jack e un iceberg chiamato Saturno.
Una somma maligna di sfortunati eventi, insomma, davanti alla
quale forse persino zia Lula avrebbe preferito tacere.