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Autore: Callie_Stephanides    24/09/2010    5 recensioni
Il duemilasei è appena iniziato, quando Marilyn, la transgender veggente della Liberty Avenue oracola di terribili, imminenti sventure: Saturno in transito negativo, infatti, promette cambiamenti tutt'altro che rosei. Brian Kinney, scettico come ci si aspetta dalla sua maschera più collaudata, sarà nondimeno il primo a fare i conti con il Signore del Karma.
Genere: Commedia, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Fictional Dream © 2010 (16 febbraio 2010)
Tutti i personaggi di Queer as Folk appartengono a Showtime, a Cowlip e ai distributori internazionali che detengono i diritti sull’opera.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito ai succitati copyright si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

******

Quando zia Lula diceva che le nuove generazioni avevano poco rispetto – per tutto, sottolineava schioccando la lingua – ho sempre pensato che ce l’avesse con Bobby Wallace, un botolo con due inquietanti sopracciglia che a Huzlehurst, Mississippi, era famoso soprattutto per la gittata del suo sputo.
Un vero cammello, Bobby, altroché: riusciva a centrarmi il culo da tre o quattro metri.
Ma non è della mia sfolgorante infanzia che voglio parlare – anche se ne avrei da raccontare, eh? – quanto di una serie di sfortunati eventi che mi hanno portato, ancora una volta, a rivalutare la grande saggezza della mia zia svitata: le pazze e i froci sono del resto quella voce di buonsenso che preferisci di norma ignorare; dietro il trucco che cola, un abisso di verità. Bisogna essere molto maschi per guardarla in faccia, notate bene, il che di norma non piace ai repubblicani. Da queste parti, ormai, se ne vedono troppi, incollati alla loro proposizione quattordici come piattole sul culo di una marchetta. Alla fine ci fai l’abitudine: è un po’ come l’odore del granturco bruciato del Mississippi, intendo.
Comunque zia Lula non ce l’aveva con Bobby più di quanto non ce l’avesse con Jamie McKenzie o Brian Stevenson: la sua era più che altro una posizione di principio, che passava per le frittelle e moriva su un tramonto sanguinolento di blues e pannocchie. Quello cui mirava, era insegnare al sottoscritto – Emmett, la giovane checca di Huzlehurst – a non lasciarsi sfuggire nemmeno un dettaglio, perché la vita era complessità e gratitudine.
Sissignore: mai sfuggire ai riti e agli equilibri della tua comunità.
Poiché il Mississippi non era senz’altro la mia, ovviamente, ero dispensato dal disturbo. Quando tuttavia decisi di regalarmi una chance e migrai a Pittsburgh – pessimo clima, ma sempre meglio del Canada, siamo seri – feci subito mia la lezione della zia Lula: ero una giovane checca del Sud affamata di legittimazione; veneravo la stella di Godiva e imparavo il sottile e perverso piacere del dildo aromatizzato alla banana.
La vita è un parco giochi, sapete? L’essenziale è capirne le regole.
Quando mi parlarono per la prima volta di Mysterious Marilyn, dunque, mi guardai bene dal fare dell’ironia. Un po’ perché con le transgender non è sempre il caso di sfoderare il sarcasmo a sproposito; un po’ perché ero sempre la povera, piccola spaventata checca di Huzlehurst, Mississippi.
Godiva me la fece conoscere ch’era ancora nel suo periodo rosa: un puff semovente di trasparenze sinistre, che ondeggiava per la Liberty Avenue oracolando amore e disgrazie.
“Farsi leggere il futuro è un buon modo per cominciare una nuova vita,” mi sussurrò Godiva. Ignoravo, all’epoca, che Mysterious Marilyn esisteva soprattutto per inventartelo, un futuro, se non avevi abbastanza fantasia da andare fino in fondo. Quel giorno, in ogni caso, non solo conobbi un altro arredo umano fondamentale della comunità gay di Pittsburgh, quanto il ruolo essenziale che vestiva un travestito cartomante tra le fate della Liberty Avenue.
Io, almeno, dell’ironia su Mysterious Marilyn non l’avrei mai fatta.
Non tutti, però, hanno il mio buonsenso.

Il giorno in cui Mysterious Marilyn entrò al Liberty Diner – era il febbraio o il marzo del duemilasei. C’erano ancora troppi repubblicani in giro e Debbie aveva avuto un terribile attacco di sciatica – nessuno fece caso alla sua espressione corrucciata e tetra. Ora: sarebbe facile dire che Marilyn aveva sempre un’espressione abbastanza tetra e, soprattutto, cincischiava tanti veli quanti una principessa araba, ma quel giorno era evidente che la situazione fosse diversa e assai più seria di quel che a chiunque sarebbe piaciuto ammettere.
L’unico a notarlo, però, fui io, perché il pubblico pagante non era senz’altro di quelli attenti alle sfumature. Oltre a Debbie, appunto – che era però alle prese con la sciatica – c’erano Carl e Hunter – due eterosessuali, cioè. E che vuoi pretendere da due eterosessuali? – nonché il vanto dei gay di Pittsburgh: il principe ego Brian Kinney.
Non che si vedesse poi molto da queste parti, da che la principale attrazione del Liberty Diner – il culo di Justin Taylor – aveva preso il volo per New York.
Era un imprenditore di successo con scarpe italiane e cuore infranto: una tavola calda alla buona poteva anche non essere la migliore delle cure possibili.
Brian è sempre stato, al contempo, un frocio modello e il peggior nemico dei gay, oltre che di se stesso, beninteso. Una specie di Re Nudo, la cui carrozzeria è sempre valsa il disturbo del silenzio. Quando Justin se ne andò, tutta Liberty Avenue si sentì quantomeno in diritto di sentirne la mancanza fuorché lui.
L’invincibile Brian Kinney, no. Lui poteva rinunciare. Ah, ah.
Il mio principale rimpianto è stato quello di non aver avuto il bouquet dello sposo: sono abbastanza onesto da ammetterlo, almeno.
Ma torniamo a quel giorno: neve ovunque, pochi clienti, Hunter passa lo straccio, mentre ripete qualche astrusa formula trigonometrica, Carl mi tenta con la pagina sportiva – e io, con gli sportivi, ho chiuso. Credo – e Brian si lamenta della temperatura del caffè. A quel punto, mentre l’orologio ticchetta di noia, entra la nostra Marilyn. La sua aura invade il locale, o forse è il tremendo patchouli di cui è intrisa sino all’ultimo boccolo; Carl continua a raccontarmi qualcosa di Drew – il mio ventricolo destro lo ascolta. Il sinistro vorrebbe pugnalarlo – Hunter s’imbambola davanti alla locandina di un concerto della Spears – o robetta del genere.
L’unico in grado di cogliere l’importanza dell’epifania, insomma, sarei io: che attacco bottone.
La zia Lula era molto risoluta nel condannare l’indifferenza. Se Dio ci avesse fatti eremiti, diceva sempre, avrebbe risparmiato la carne per le orecchie.
“Cosa dicono le stelle, divina?” esordii con il più televisivo dei miei sorrisi – anche se ormai potevo esercitare solo per gli amici. Marilyn ordinò un etereo quark e una molto terrena omelette con la pancetta, prima di far vagare lo sguardo sul locale, dagli sparuti avventori al culo di Brian Kinney, intento a recuperare il cellulare. “Un terribile transito,” pontificò con voce drammatica. “Questa settimana accadrà senz’altro qualcosa di tremendo.”
Debbie riemerse dalla cucina con un piatto di frittelle, la ciotola per la panna e l’espressione scettica dell’italiana che, dopo aver divorziato da Dio, non pensa certo di portarsi a letto un nuovo credo. “E perché?” mugugnò, lasciando planare le ordinazioni con la solita efficienza brutale. Marilyn sprofondò l’indice nella panna, se lo portò alla bocca e, umettandosi soddisfatta le labbra, oracolò. “Saturno contro. Un terribile Saturno in transito negativo.”
Brian sollevò ironico un sopracciglio e non poté evitare di spararne una delle sue. “Sai che tragedia… Per un pianeta che curva contromano!”
Io l’ho sempre detto che Brian dovrebbe andarci un po’ più morbido con le trans gender; soprattutto quelle che hanno la fama di predire il futuro e sono un po’ fattucchiere.
Marilyn, non a caso, lo fissò con quell’occhiata penetrante che il povero Vic chiamava all’italiana ‘malocchio’ e scongiurava con un gesto efficace e assai poco elegante.
“Saturno in transito negativo è sinonimo di abbandoni, sconfitte e rinunce!”
Brian – il loden già sulle spalle – le rivolse un sorrisetto sardonico, di quelli che o impari a conviverci, o impari a compatirlo. Dev’essere dura avere Saturno contro e fare comunque finta di niente.
“Non è un mio problema,” si sentì in dovere di rimarcare – di mentire. “Abbandoni, rinunce e sconfitte non sono il mio campo.”
Debbie roteò gli occhi, prima di tirare una sberla a Hunter, colpevole d’essere eterosessuale e ormonalmente attivo in un locale in cui la pagina della moda entrava solo come prontuario pratico per le meches. Un silenzio politicamente corretto, in ogni caso, prese il posto del quasi inevitabile ‘disse l’uomo abbandonato sull’altare da un raggio di sole,’ perché a mettere il dito nella piaga non ci avrebbe guadagnato nessuno.
“Saturno è il Signore del Tempo e qualcuno lo definisce Signore del Karma. Se ignoriamo i nostri doveri e le nostre responsabilità, se crediamo di fare i furbi fregando il prossimo e facendola franca, stiamo solo facendo i conti senza l’oste. Saturno è il famoso oste che fa i conti per noi. Chi ha paura della disciplina e delle responsabilità e tenta di evitarle a ogni costo, ha ben più di un motivo per temere Saturno!” ululò a questo punto la divina, facendo increspare i veli della propria collera e i boccoli posticci di Debbie.
Per tutta risposta, Brian sollevò la tazza di caffè. “E cosa dovrei fare perché al signor Saturno smetta di rodere il culo? Invitarlo a farsi un giro al Babylon?”
Marilyn picchiettò la mandorla dell’unghia contro il bancone: indi, sdegnosa, abbandonò il campo. La campanella del Liberty ondeggiò ancora un poco, quasi volesse conservare nel tempo l’impronta di quell’epifania, poi tutto tornò bulimico e smorto.
“Ci si vede,” disse poco dopo Kinney. “Se Saturno capita da queste parti, salutatemelo.”

La popolarità è qualcosa di terribile, sapete? Un po’ come sembrare etero.
Se sei popolare, precipiti da solo in una spirale di aspettative che costruisci prima di tutto per fatti tuoi. Nessuno vuole davvero niente, siamo onesti, ma ti fa piacere pensare il contrario.
Brian, per dire, ha questo complesso del frocio alpha o non so cosa. È così che ha perso Michael e Justin e un mucchio di occasioni per essere davvero felice. Di norma, però, taccio, perché un Kinney non è abbastanza intelligente da piegarsi ai consigli della zia Lula.

Quel giorno avevo in programma due feste di fidanzamento, un addio al celibato e un compleanno; per quanto facesse comodo pensare il contrario, anch’io avevo molto da fare: aiutare gli etero a essere decenti, è una guerra che non conosce stagioni.
Carl mi offrì un passaggio per la Center Avenue, visto che la prima tappa delle mie peregrinazioni sarebbe stato il Towsend’s Sweet Shoppe, dolci e biscotti e creme sino a svenire.
Carino, da parte sua – per quanto l’intenzione puzzasse di secondi fini – ma se l’avessi sentito parlare per l’ennesima volta dei lanci lunghi di Drew, Saturno con la luna di traverso sarebbe stato ben poca cosa rispetto alla disperazione di una fata.
“Non ci provare, tu,” berciò Debbie, “lo sappiamo tutti cosa vorresti fare da quelle parti. ‘Signor cannolo? La dichiaro in arresto. Ha diritto…’” e blah blah blah.
Carl ripiegò il giornale e se ne andò via contrariato. Il sottoscritto lo seguì poco dopo, perché procrastinare non ha mai reso nessuno in grado di organizzare quattro party favolosi in mezza giornata. Siamo gay, insomma: ai miracoli non siamo ancora arrivati.
Fosse perché faceva davvero un freddo cane, fosse perché mi sentivo in colpa per la battuta di Debbie, alla fine mi piegai comunque al passaggio di Horvath. C’era qualcosa di incongruo in una coppia formata da un vecchio poliziotto e da una checca d’assalto, ma a zia Lula, suppongo, avrebbe fatto piacere. La verità è che gli eterosessuali sono proprio come noi, a parte una discutibile passione per il buco sbagliato e quella ancora più terrificante per i calzini di spugna bianchi sotto i boxer. A Carl, per altro, va riconosciuto il fegato non indifferente di stare con una Fag’s Mom, il che gli fa guadagnare sul campo stellette che, suppongo, non gli sarebbe venuto mai in mente di chiedere. Ma sto divagando ancora.
Eravamo all’altezza della County Court, incolonnati in un serpentone fumante di lamiere tra cumuli di neve alti come palazzi, quando un agente del presidio di Carl, riconosciuta l’auto, ci si affiancò. Un tipo davvero interessante, aggiungo io. Una specie di Benicio del Toro ripulito, con due occhi artici che…
“Dovete fare il giro dell’isolato. Il traffico è stato deviato per la Forbes Avenue.”
Mi riscossi dalla contemplazione di quella meraviglia umana appena in tempo per cogliere, a dieci o venti metri di distanza, il lampeggiare purtroppo familiare di un mezzo del primo intervento. Dopo la bomba, inutile sottolinearlo, siamo diventati tutti molto sensibili ai simboli come alle citazioni del dolore.
“C’è stato un incidente, agente?” flautai, cercando di capire se fosse articolo da Babylon e se, soprattutto, avrei potuto trascinarcelo. Benicio, però, doveva essersi allineato con Saturno lungo la direttrice del due di picche, sicché mi ignorò. “Un tipo con una macchina d’epoca. Una pattinata sul ghiaccio spettacolare,” riferiva a Carl. “Quando uno se le cerca, dico…”
E quando uno non ascolta Marilyn, pensavo io. Quanti idioti giravano per Pittsburgh con una corvetta fuori produzione? Non mi sembrava il caso di pensare a voce alta, quanto di seguire l’istinto: dove mai si era vista una fata che lasciava un amico nei guai?
Be’, amico era un titolo esagerato per Brian Kinney, ma poiché era una specie di monumento della nostra comunità, mi sarebbe parso squallido abbandonarlo alle proprie miserie.
Lasciai l’auto di Carl e mi condannai a una non proprio piacevole gincana tra automobilisti furibondi e pozzanghere. Arrivai là dove c’era stato il botto appena in tempo per veder schizzare via l’ambulanza: restava un vecchio rottame sbullonato in mezzo alla circonvallazione per la 6th Avenue. Restava l’incertezza del testimone scomodo.
Era evidente, a quel punto, che toccasse a me avvertire Michael, visto che Brian Kinney ricordava di avere una famiglia solo quando voleva una scusa ulteriore per riempirsi il naso di qualcosa.

Quella tra Mikey e Brian è la più grande storia d’amore dopo Rossella e Butler, solo che sono passati direttamente alla fase ‘domani è un altro giorno.’
In potenza avrebbero potuto trasformarsi in una coppia di ferro, solo che hanno fatto questo incomprensibile voto di castità per cui hanno sempre scopato con qualcun altro. Ciò non ha impedito loro di continuare ad amoreggiare a dispetto dei rispettivi partner, fosse solo perché Ben sarà il prossimo Dalai Lama, e Justin aveva dalla sua l’età della speranza e delle illusioni a vuoto.

Michael, comunque, fu la prima persona che mi venne in mente di avvisare, perché è l’unico gay al mondo che non abbia mai augurato le piattole a Kinney.
Un buono, dunque, un santo, un amico e un coglione.

Che telefonata indimenticabile, fu quella!
Se c’è qualcosa che ti dà davvero soddisfazione nella comunità gay, quello è il sentimento del tragico. Ogni omosessuale nasconde in sé una promettente diva del muto e non si fa scrupolo a tirarla fuori se solo gli lanci il famoso amo.
Il mio pesce abboccò subito: cinque minuti e già il mio cellulare tubava a vuoto. A quel punto, poiché Benicio non era granché socievole, Mikey avrebbe affisso alla porta del negozio ‘chiuso per dubbio’ – nessuno sapeva cosa fosse successo a Kinney, e con Saturno contro era meglio non speculare a vuoto – e i quattro party erano al momento sono una nota nella mia agenda, decisi di mettermi in moto.

È catartico lavorare per gli eterosessuali: sapere che ti disprezzano in profondità, ma non possono fare a meno di te è soddisfacente. Siamo un po’ come il barboncino della padrona di casa: rosa confetto, cotonato e abituato a cagare nelle scarpe del di lei marito. Il di lei marito, ovviamente, non potrebbe torcergli un pelo senza terribili ritorsioni domestiche.
Tutto sommato fu una giornata quasi piacevole, arresa a una routine collaudata; restava, da qualche parte, sospeso il molesto pensiero di Brian, dell’incidente e di Saturno, ma adottai anche in quel caso una delle tante strategie di sopravvivenza firmate zia Lula: visto che la vita non è facile e non è allegra, foderala del cinz di un pensiero felice.
Erano più o meno le otto della sera – mancava solo l’addio al celibato, ma dal locale ai dolci era già tutto in ordine – quando pensai di chiamare Ted, che, lavorando alle dipendenze di Kinney, era senz’altro l’unico informato. Il fatto stesso che la sua voce suonasse ferma, efficiente e solo blandamente ansiosa – quando se c’è uno tachicardico davanti alla vita, quello è proprio il buon Ted – concorse a rinfrancarmi non poco.
“Ci sono novità?”
“Non immagini quante,” fu però la secca replica, e a quel punto pensai di potermi preoccupare con un qualche perché.
Ci demmo appuntamento da Whoody’s per un giro di birra (anche se solo metaforico, visto che Ted andava avanti a mirtillo e buoni propositi). Neppure un’ora più tardi ci raggiunse Ben, ma a quel punto ne sapevo abbastanza per non stupirmi più di niente.

Saturno, almeno, non era più il solo a guidare contromano.

Ben Bruckner è, al contempo, una pubblicità progresso sui benefici dello yoga e una leggenda metropolitana sull’AIDS. Sai di quelle storie che ti racconti al college, della scopata che finisce con il cartoncino ‘complimenti, sei positivo?
Qualcosa del genere.
È difficile credere che un bel maschione così sano sia sieropositivo, no? Sarebbe difficile anche resistergli, penso io; siccome è un marito premuroso e fedele, e Mikey è sempre stato la fidanzatina d’America, tuttavia, non mi è mai venuta voglia di provarci.
Se c’è qualcosa di ammirevole in Ben, in ogni caso, è lo stoicismo con cui ha da sempre accettato di poter convivere con Brian Kinney; e avrebbe senz’altro continuato a farlo, probabilmente, se Saturno non avesse deciso d’infettare anche il suo karma con una manovra che chiamare scorretta sarebbe stato eufemistico.
In due parole?
Come Ted mi raccontò, l’incidente non aveva avuto per fortuna alcuna conseguenza di rilievo: a parte svegliarsi con la seccante emicrania di una modesta commozione cerebrale, Brian non aveva riportato alcuna lesione degna d’essere chiamata tale. Stava benissimo, tant’è che era già pronto a fare causa all’amministrazione cittadina per la pessima manutenzione del manto stradale. Tipico di Brian, no?
“Meglio così,” replicai, adocchiando un articolo di pelle simil Benicio.
“Ancora non hai sentito il bello, però,” mi redarguì Ted subito dopo. “Adesso Brian è convinto che Michael sia il suo ragazzo.”
“Alla buonora. Se n’è accorto, finalmente,” mugolai soprappensiero; poi mi strozzai con un paio di bollicine.
Che?
Ted sollevò le spalle, con quel tic da avvoltoio insicuro che nemmeno il miglior chirurgo plastico del mondo potrebbe scollarti di dosso. “Hai sentito bene. Sembrava tutto normale; i medici erano già pronti a dimetterlo e lui, di punto in bianco, agguanta Mikey, lo bacia e tira fuori un: ‘Torniamocene a casa. Voglio controllare se funziona anche tutto il resto,’ che ha sconvolto un po’ tutti.”
Il mento mi scivolò fino alle palle, e non trovai nulla di decente da obiettare.
“Non ha proprio perso la memoria, è più una specie di amnesia selettiva,” continuò Ted, che frequentare certi circoli di auto-aiuto ha reso un po’ troppo sensibile nei confronti dell’anima – crede, cioè, che ne possieda una anche Brian, quando qualunque persona dotata di buonsenso preferirebbe tenersi il dubbio.
“Ma… Michael?”
“Secondo te?” fece spiccia una voce che conoscevamo entrambi benissimo, mentre Bruckner raggiungeva il bancone e ordinava una birra. Benché un po’ meno zen del solito, Ben emanava la solita aura da ‘sono una creatura matura, superiore e in pace con il mondo.’ C’era anche un vago retrogusto di ‘ma se Brian non esistesse, sarei ancora più maturo, superiore e pacifico.’ Non era il caso di farglielo notare.
“Starà da lui per un po’. Finché la situazione non si sarà normalizzata, dubito che ascolterebbe ragioni.”
C’era dello stoicismo, nell’uomo Bruckner. Il problema, però, sarebbe sempre la sottile linea rossa che passa tra l’essere comprensivi e il prenderla nel culo. Non mi risultava, almeno, che Ben fosse il passivo della coppia.
“Pensi che Michael…”
Ben bevve un sorso di birra, fissando il vuoto: la classica espressione dell’uomo forte che, pur fiutando le corna, s’ingegna a viverle con dignità.
“Io mi fido di lui.”

Tutto quel che mi venne in mente fu una citazione dal Titanic: Rose, Jack e un iceberg chiamato Saturno.
Una somma maligna di sfortunati eventi, insomma, davanti alla quale forse persino zia Lula avrebbe preferito tacere.

   
 
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