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Autore: BigMistake    27/09/2010    4 recensioni
Dal Prologo: "Un nano ed un elfo, in groppa allo stesso destriero. Definire tale cosa rara, sarebbe soltanto blasfemia. Eppure successe alla fine della Terza Era, quando la Quarta albeggiava altisonante sulle teste della Terra di Mezzo. [...] Proprio in quel viaggio conobbero, a caro prezzo un popolo nascosto, Gwath - Ombre, venivano chiamate, e si mostravano come spettri nella notte. Mai avevano agito al di fuori delle loro terre, ma i tumulti che avevano scosso Mordor e tutti gli abitanti delle Terre dell’Est, ovviamente le avevano costrette a “cacciare”, se così possiamo definire la loro una caccia, ben oltre il loro piccolo recinto fatto di alberi e oscurità." Sarìin, il bardo racconta una storia agl'avventori di una taverna, i cui protagonisti presero parte alla Compagnia che salvò la Terra di Mezzo da un'imminente fine. Grazie per la vostra attenzione e buona lettura!
Genere: Romantico, Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gimli, Legolas, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO XXIII: Ricambiare il favore.

Quello strano atteggiamento e l’allontanamento del ragazzo, provocarono un certo turbamento fra gli uomini presenti. Ognuno commentava sottovoce, aggiungendo al coro il proprio contributo. Di sicuro tutto questo istillava una curiosità morbosa, il voler sapere cos’altro aveva in serbo per loro il Sovrano del Khand che attendeva trionfante. In quell’attesa delle urla di donna si levarono dal fondo della sala, attirando così tutti gli occhi su di lei. Non era una donna, bensì una ragazzina dalle esili braccia e dalla pelle olivastra, una spruzzata di efelidi le tingevano le guance e delle spirali di fuoco le ricadevano sulle spalle. Un altro tonfo del cuore, un’altra persona che lei non si sarebbe aspettata. Questo era troppo, non poteva essere la bambina che era nata poco dopo suo figlio e che ora la teneva come sua prigioniera, con le mani legate contro la schiena e strattonandola per la sua reticenza a collaborare. Imprecava e inveiva contro i suoi carcerieri, in una lingua che solo Tirinîr in quella Sala poteva comprendere.

“No …” gemette il mezzelfo vedendo come la stavano trasportando. L’agnello sacrificale era proprio Ruin, l’avevano presa avevano trovato lei e chissà chi altro. Era diventata una giovanissima piccola donna, indossava una di quelle vesti di pelle conciata  che pochi anni prima appartenevano anche alla Guaritrice e possedeva la forza di una vera Gwath sui suoi muscoli affusolati, ma che non era abbastanza per contrastare chi la teneva come un gallo che non si arrende al suo destino nelle cucine. Stava quasi per andare da lei, voleva assisterla, ma Éowyn la braccò prendendole i polsi. Quando i loro occhi s’incontrarono, la Bianca Dama negò con un cenno della testa appena percettibile. La prese quindi per le spalle e la condusse dietro a tutte le altre persone, riparandola da sguardi indiscreti che avessero notato l’ambiguo comportamento della fanciulla. Non conosceva tutti i dettagli, ma dalle analogie dei suoi racconti aveva capito che lei aveva un legame estremamente profondo con quel popolo di guerriere.

“Volevate vedere di cosa stavo parlando? Ecco, miei signori, questa è una Gwath!” esclamò Kudrem con un gesto plateale del braccio, quando venne scaraventata ai suoi piedi, gettata come un sacco di patate troppo pesante. Ruin scivolò e barcollò a terra, i capelli le finirono sul viso. Non riusciva nessuno a vedere nulla se non altro che una ragazza, presa con la forza e sbattuta al cospetto del Re senza nemmeno un briciolo di rispetto, esibita come un trofeo di guerra. E forse doveva anche ringraziare i Valar che si trovasse in quel posto, perché l’ordine di ucciderle a vista era cambiato poco prima che venisse catturata. Serviva a Kudrem per dimostrare cosa fossero quelle maledette meretrici, ergo doveva sopravvivere almeno fino a quando la sua presenza fosse stata necessaria, poi poteva diventare cibo per vermi. Il vociare confuso tacque improvvisamente, il gelo di quell’apparizione e dell’affermazione del Variag avevano eclissato ogni commento sensato.

“Cosa volete farci intendere?” esclamò indignato Éomer, la cui pazienza sembrava aver prevaricato il limite di sopportazione. “Che questa ragazzina sia una crudele assassina? Kudrem, penso proprio che la vostra sete di potere vi abbia fatto perdere il senno!”

“Voi dite? Questa ragazzina come l’avete chiamata voi …” il Variag si avvicinò alla gradinata mettendo un piede sul primo gradino come se volesse in qualche modo trovare un modo di sovrastare l’uomo con cui si era acceso quel dibattito, poi puntò un dito inquisitorio contro la ragazza che furastica lo guardava con occhi di fuoco al pari del suo nome. “ … ha ucciso a sangue freddo ben cinque uomini colpendoli alle spalle! E questa è solo una spina del rovo, vi sono guerriere letali ed esperte, capaci di efferatezze che ho visto compiere solo hai seguaci più crudeli di Mordor …” il modo in cui raccontava con enfasi esagerata, i lugubri respiri che scandivano le pause tra una parola e l’altra, servivano solo a rendere spaventosa la sua versione. Poi si rivolse di nuovo a Ruin, famelico e carico d’odio puro, volgendosi a quella ragazzina che da sotto le sue ciocche disordinate gli lanciava sguardi pieni di disprezzo. Non si sarebbe arresa, non avrebbe implorato pietà. Il Signore della Guerra non riusciva a tollerare quella sfrontatezza, ricordava vagamente solo un altro paio di occhi che lo guardavano con cotanto spregio, occhi che non avevano volto, e ciò faceva accrescere in lui ancor più collera. Si avvicinò con calma, non mostrava la sua vera natura, raggirandola fino finirle alle spalle per poi afferrarle i capelli per farle sollevare la testa.“Non sottostanno a nessuna legge, religione o qualsiasi altra cosa che l’umana ragione può suggerire e …”

“Ora basta!” disse ad un tratto Aragorn, fino ad allora rimasto attonito. La voce che Tirinîr aveva potuto udire quando si trovava nelle Case di Guarigione, ora aveva un altro tono. Era greve, imponente, calda ma allo stesso tempo ferma come una montagna che il vento non può scalfire. Aveva su di sé il retaggio dei Re passati. “Come me penso che tutti hanno capito cosa voi state raccontando Kudrem, non c’è ... bisogno di tutto questo ... ” sollevò quindi una mano invitando in linea d’aria a evitare inutile violenza.“Lasciatela, vi prego! Non è necessario!” concluse quasi con dolore. Kudrem lasciò i capelli della ragazzina, che iniziò a gridare come un’aquila evidenti insulti contro il Variag, il quale ghignava soddisfatto della reazione inviperita di Ruin.

“Bene, Re Elessar, cosa decidete quindi? Mi aiuterete a scovare queste ripugnanti donne e a concedermi la giusta vendetta?” chiese Kudrem cercando di concludere freneticamente la questione. Aragorn tornò al suo trono incrociando gli occhi della sua sposa. La Stella del Vespro aveva visto epoche passarle davanti, aveva vissuto millenni in lei c’era la saggezza imperturbabile degl’elfi, aveva visto la Guerra, eppure, vedendo quell’uomo avventarsi su Ruin, era rimasta sconvolta e basita. Accarezzò il dorso della mano tesa sul bracciolo del trono con la punta delle dita, senza farsi vedere in quella ricerca di risposte che lui stesso doveva dare.

“Mi serve altro tempo …” sussurrò verso Arwen per un consiglio ai suoi leciti dubbi. Il suo regno era rifiorito solo grazie alla sua guida buona e basata sulla giustizia. Quello in fondo chiedeva il Signore della Guerra, giustizia. Ma si poteva parlare di Giustizia quando non aveva nemmeno una completa visione di una situazione? Si sentiva di giudicare un popolo e classificarlo come nemico con la sola parola del suo nemico? Per un'offerta sicuramente allettante, ma che comunque sarebbe costata delle vite. Se però avesse deciso di non appoggiare i Variag, le lotte si sarebbero inasprite e questo non lo voleva. La Regina confermò con un morbido cenno, tornando poi a guardare quella ragazza che era stata sollevata da terra. Cercava di non darlo a vedere, ma sui suoi lineamenti finemente inaspriti si poteva osservare tutto il disgusto della Regina degli Uomini. “Kudrem, ho bisogno di tempo per valutare. Vorrei anche poter parlare con le vostre prigioniere ed avere molti più elementi per dirvi se le vostre condizioni sono accettabili …”

“Tempo, mio Signore?” chiese quasi istericamente. “Il tempo è un lusso, sire, le ribellioni imperversano e le Gwaith continueranno ad uccidere, cos’altro vi occorre?  Che vi porti le teste dei miei soldati? E volete persino avere la parola di chi marchia le loro promesse con il sangue? A quanto sembra, Re, la pace di cui tanto beatamente vi riempite la bocca non vi sta così a cuore!”

“Non avete sentito cosa ha detto Re Elessar?” e per la prima volta fu Gimli a prendere apertamente parola. Il nano si pose parallelo all’uomo, osservandolo dall’alto degli scalini con un cipiglio orgoglioso e stizzito. “Avete avanzato le vostre richieste, non sono decisioni che si possono prendere troppo frettolosamente. Per tutte le montagne! State parlando di decidere sulla vita di persone, non di pedine su di una scacchiera! O forse, per i Signori della Guerra Variag, questo non ha nessuna importanza?” chiese esasperato. Era da quando l’uomo aveva iniziato a parlare che voleva esporre l’intero arsenale d’improperi che aveva a disposizione, ma si accontentò di zittirlo per una buona volta. Kudrem si limitò a guardarlo con disdegno, emettendo un verso  simile ad un ringhio animalesco.

“Sette giorni, Re Elessar. All’alba dell’ottavo i Variag partiranno per tornare nel Khand.” disse con tutta l’acredine che poteva dimostrare. “Che  ci siano testimoni ogni persona qui, noi avremo la nostra vendetta da nemici o da amici di Gondor. Sta a voi la scelta!” e mentre diceva queste parole tutti cercavano di parlare, ognuno sovrastando l’altro con impeto. Esprimevano ognuno le proprie opinioni disparate dalle molteplici menti da cui erano partorite, rendendo gli animi più o meno concitati. Aragorn osservava ciò che avrebbe voluto evitare: il caos e la diffidenza avevano scosso gli animi dei presenti. Kudrem, invece, pareva soddisfatto da quello che era riuscito a provocare, guardava a come aveva ulteriormente alimentato i fuochi già accesi. Sogghignava sardonico con quelle sue labbra, incorniciate da della barbetta ispida ed irsuta ricalcando le linee spigolose del mento, ma non godeva a pieno di quella vista perché qualcosa attraeva il suo sguardo più del dovuto.

La fanciulla elfica resasi inconsapevolmente complice di quella confusione, se ne stava in quell’angolo immobile, pallida come se avesse visto un fantasma. Quel volto, a quel volto erano bastati così pochi secondi per entrargli dentro e dare vita ad una nuova ossessione. Perché non sembrava essere nuovo alla sua vista? Perché sentiva in un certo qual modo quella sensazione di appartenenza? Perché sembrava bramarla? Sentiva l’eco di una promessa, qualcosa di lontano, la voce di suo padre che gli spiegava qualcosa.  Eppure il sole non sconfiggeva la bruma che aleggiava intorno ad essa, i suoi ricordi non parvero rischiararsi. Quando mosse un passo in sua direzione una mano affusolata gli si parò davanti, imponendo una lieve pressione sul petto per bloccarlo, determinata ma senza essere rude o violenta. Un placido avvertimento che costrinse l’uomo a voltarsi lentamente, riservando uno sguardo truce verso quell’elfo che lo ricambiava con uno altrettanto carico di rancore.

“State attento a quello che fate, elfo!” ruggì sprezzante tra i denti.

“Anche voi, Variag!” sibilò il Principe minaccioso. Di nuovo il fuoco ed il ghiaccio si fronteggiavano sempre più pericolosamente vicini, in procinto di prevaricare l’uno sull’altro. Non si spostavano, Kudrem non arretrava e Legolas non toglieva la mano: in quel gioco di supremazia erano incapaci di arrendersi continuando a lanciarsi sguardi di ammonimento e collera. Ad un tratto però l’attenzione dell’uomo venne catturata da quel ragazzo che, avvicinatosi con cautela, li aveva interrotti. L’elfo scostò la mano osservandolo meglio, togliendo ogni dubbio alla supposizione se fosse o no il figlio di Tirinîr. Persino la sua voce aveva quelle tonalità dolci poco più basse, con quell’inclinazione melodiosa tipica di chi ha lontane origini elfiche.

“Padre …” disse, e quella parola fu come unghie sullo specchio. Ricordava a Legolas le colpe di quell’uomo, le sue mani sulla donna che amava e quello che le aveva fatto. Se solo avesse potuto avrebbe preso le sue dita e staccate una ad una, lasciandolo agonizzare in un fiume di sangue. “ … dobbiamo andare!” con uno scatto secco il Variag arretrò, lanciando il lembo del mantello indietro per impedirgli di farlo inciampare. In tutta questa operazione non aveva mai staccato gli occhi da quelli di Legolas, almeno finché non si trovò più alla sua portata. Legolas era rimasto impettito, aspettando che quell'infido tornasse a sfidarlo e fu smosso solo dalla voce del suo amico nano che lo riportava alla realtà indicando sua moglie.

Tirinîr lo stava guardando preoccupata, tenendo il suo ventre cercando di ripararlo. Disperazione, questo poteva leggere in lei.

Stolto ed egoista. Si ripeteva mentre le andava incontro, per abbracciarla. Avrebbe avuto tempo per pensare alla sua rivalsa, prima c'erano loro.

 

Il manto oscuro della notte era calato sulla capitale di Gondor, con ancora una zavorra sulle spalle del suo Sovrano. Per due giorni il Re si riuniva con i suoi Principi ed i suoi consiglieri, c’era una difficile decisione da prendere. Ogni possibilità sembrava trovare soluzione con una battaglia, cosa che Aragorn voleva evitare. Gli inutili spargimenti di sangue non erano contemplati nella sua idea di pace e questo vicolo cieco in cui si trovava lo poneva in una posizione di svantaggio. I più ritenevano Kudrem un evidente pazzo vendicatore ed assetato di sangue, che mascherava con buoni propositi un genocidio, gli altri, soprattutto gli appartenenti ai principati di confine, ritenevano che sarebbe stato meglio aiutarlo e cercarsi di liberare delle lotte che ancora imperversavano al Sud.

“Ma …” sospirò il nano, boccheggiando alla sua pipa e accomodandosi accanto all’elfo. Legolas aveva smesso da tempo di partecipare, non voleva neppure trovarsi lì in quel momento. Se ne stava seduto con la testa china, contemplando ogni oggetto che non fosse il grande tavolo allestito per accoglierli. Si era lasciato convincere da Tirinîr e da Éowyn di non trascurare i suoi doveri, eppure non riusciva a togliersi dalla mente lo sguardo sconvolto e triste di sua moglie, la ferita lacerava di nuovo le sue carni e lui non era con lei per cercare di sanarla. “Sono sempre più convinto che ci sia molto di più di quello che vuol farci intendere il buon Variag …” meditò sarcasticamente il nano assaporando un’altra boccata della buon erba pipa offerta dal Re dalle sue scorte inviate dal Decumano Sud da vecchi amici comuni. Intanto Éomer aveva preso ad alzare la voce un po’ più concitatamente, il caparbio Re del Mark era piuttosto restio a concedere il beneficio del dubbio al Signore del Khand.

“Cosa intendi amico mio?” chiese ad un tratto l’elfo interessato dalle teorie del nano. Il Portatore della Ciocca si volse con calma controllando che gli occhi dei presenti fossero puntati per lo più alla discussione in atto, quindi riprese a parlare avvicinandosi di più a Legolas.

“Che tutto questo accanirsi improvviso contro le care Gwaith sembra più una mossa politica che altro, un distogliere l’attenzione da qualcosa. Chissà se …” disse sempre più pensieroso il nano, non accennando a continuare.

“Chissà se?”chiese allora l’elfo, cercando di scorgere tutte le sfaccettature ad una teoria che lo apparve interessare. Gimli stava per rispondere, ma si rimangiò ciò che stava pensando. Non voleva buttare altra carne al fuoco, visto che il suo amico già ribolliva di rabbia e rancore. Aggiungere sospetti, seppur fondati, lo avrebbe soltanto sguinzagliato il suo lato iracondo.

“Nulla, solo congetture di un vecchio nano che comincia ad essere anziano e stanco per correre dappresso ad un principino con le orecchie a punta scalmanato e procacciatore di guai!” Legolas rimase interdetto da quell’affermazione, prima di scoppiare in una leggera e cristallina risata. Tuttavia ciò lo fece tornare a pensare a quanto stava accadendo di nuovo. Sentiva i suoi muscoli fremere, temeva di non riuscire a controllarsi, una reazione avventata e tutto il precario equilibrio creato sarebbe miseramente crollato come un castello con fondamenta di sabbia. Il nano si accorse del cambio repentino di umore dell’amico, fingendo diffidenza prese a pulire la sua pipa. Non riuscì a resistere a lungo con quella sua maschera da imperturbabile erede di Durin e con una rude pacca sulla spalla sospirò. “Suvvia torniamo a fare i nostri doveri mastro elfo, uniamoci alla mischia e speriamo che qualcuno di più in alto ci illumini sul da farsi!”

 Ma mentre in una delle Sale del Palazzo si cercavano le vie traverse a quello che poteva rivelarsi esclusivamente uno scontro, nel buio delle cucine dedite dei domestici vi era uno strano movimento. Quella che sembrava una serva stava sistemando i capelli ad una sua pari, la quale intanto si fasciava una mano sana. Il tutto avveniva in un religioso silenzio per non svegliare il cuoco di turno che era addetto alla guardia per quella notte. Peccato che si fosse addormentato fra i sacchi di patate del magazzino, dopo una bevuta generosa di buon vino offerta da quelle due cameriere, o quel che fossero. Il vecchio era conosciuto per non badare a chi gli dimostrava magnanimità e a prendere tutto ciò che gli capitava fra le mani.

“Perché mi state aiutando?” chiese ad un tratto quella che si stava fasciando.

“Non sopporto le ingiustizie …” rispose meccanicamente l’altra. La zittì poi con un dito sulle labbra, quando voltandosi verso la sua interlocutrice iniziò a lamentarsi su tutto quello che poteva rischiare. Non le importava, ciò a cui aveva assistito poche mattine precedenti era sufficiente per farla reagire. Ammirò poi i capelli raccolti della sua compagna, sistemandoli al meglio sulle orecchie. “Così dovrebbe andare. Per fortuna che il sanguinaccio è ancora fresco, altrimenti non avrei saputo dove prendere del sangue e vi avrei dovuta ferire sul serio …” disse estraendo dalla tasca del proprio grembiule un budello contenente un liquido viscoso e rosso scuro, preso proprio dalla cantina in cui giaceva il cuoco ormai dal volto paonazzo per il solerte bere. La ragazza guardò quel sacchetto, tastandolo un poco incerta se quella fosse la strada giusta.

“Pensate davvero che funzionerà?”

“Vedrete che,una volta superate le guardie reali, per gli altri livelli non vi sarà ostacolo. Conosco questo posto molto bene, vi ho soggiornato per un po’ e ho capito bene i suoi meccanismi. In più avere ascoltato i racconti di sire Faramir sulle sue sortite notturne mi avranno insegnato qualcosa, non credete?” annuì ancora dubbiosa, ma cercando in qualche modo di farsi forza. “Quindi, mia cara servetta, ora stringete quel budello e dipingete sul volto un’espressione dolorante che si va in scena!” al suo ordine la fanciulla stritolò il debole brandello di carne, che alla prima pressione cedette riversando il suo contenuto sulle fasce di lino e sul pavimento in più di un rigolo di sangue pisto. La giovane più alta prese quindi le spalle di quella che inscenava la ferita e a grandi passi cercò di condurla verso l’esterno. Superarono le lunghe scalette fino a raggiungere il retro del palazzo, raggirandolo fino a giungere la Piazza della Fontana dove solo il suo gorgoglio irrompeva nell’oblio.

Le guardie, ritte ed imperiose nella loro divisa scura e con i loro elmi argentei, videro di lontano una macchia indistinta che gli veniva incontro. Pian piano che essa si avvicinava se ne delineavano i contorni e quella che da prima sembrava una vecchia ombra ricurva su sé stessa, si rivelarono due fanciullette. L’una sorreggeva l’altra, che sembrava tener tra le mani qualcosa di liquido, che gocciava di continuo e copiosamente. Solo quando la debole luce delle lanterne alle loro spalle riuscì ad illuminarle videro che era la mano della ragazza a sgorgare un fiume di sangue, anche il suo viso era provato, cereo ed appariva stanco. Nonostante tutto non si mossero ed attesero che giungessero ad un passo da loro per intimar di fermarsi.

“Vi prego lasciateci passare! Devo portarla alle Case di Guarigione …” disse la ragazza cercando di convincere le guardie.

“Cosa ha fatto?” chiese allora uno dei due soldati.

“Lavora nelle cucine, si è tagliata per preparare la cena. Ho provato a medicarla, ma il sangue non cessa di cadere ed ormai ha superato le bende.” Rispose cercando di mantener un’inclinazione quasi disperata nella voce.

“Posso vedere?” anche la guardia sembrava preoccupata notando l’esagerato volume di liquido continuare a gocciare. Allungò quindi il palmo guantato dal cuoio, invitando la ragazza a porgere il suo per poter meglio osservare. Lei non si ritrasse e sicura posò la sua piccola mano in quella nerboruta dell’uomo. Lui, con delicatezza, provò a spostarla in favore della scarsa illuminazione, ma appena si mosse la fanciulla gemette rendendolo partecipe del dolore. Con occhi spalancati ed increduli osservò la ragazza a cui tremavano le labbra e respirava a fatica, convincendosi della buona fede di quella ferita. “Va bene passate, ma state attente!”

“Grazie, vi siamo debitrici!” esclamò quindi la ragazza bionda, superando velocemente le guardie prima che cambiassero idea e richiudessero la porta per il passaggio pedonale davanti ai loro occhi. Furono leste poi a percorrere il lungo pendio che conduceva all’ingresso che permetteva l’accesso alla Cittadella non sorvegliato. Si affacciarono quindi al sesto livello, notando le strade praticamente deserte. Minas Tirith dormiva e lontano era il momento in cui la vita avrebbe ripreso la sua frenetica attività. Rapide e silenziose giunsero fino alle Stalle Reali, sgattaiolando all’interno con facilità. Lì ormai al sicuro da altri sguardi iniziarono a spogliarsi. Si tolsero gli abiti da fanciulle per rivelare giacche e pantaloni dalla forgia tipicamente maschile nascosti sotto le loro gonne da semplici serve.

“Come avete convinto la vostra giovane guardia del corpo a lasciarvi uscire in piena notte da sola?” chiese Éowyn con un sorriso, più per spezzare la tensione che per altro. Non era la prima volta che si mascherava da uomo, per quanto la situazione fosse pericolosa trovava una certa ilarità in quel che faceva. Era tornata la Dama di Ferro che aveva combattuto come il più valoroso fra i guerrieri. Ora capiva perché il Principe elfico la paragonava alla sua sposa. Era scaltra e sapeva come farsi valere. Durante la notte Éowyn l’aveva scoperta mentre usciva furtiva dalle proprie stanze: da principio voleva fermarla, farla desistere da ogni avventata decisione avesse preso; poi ascoltando le sue parole, sentendo quello spirito affine che tanto era stato decantato e mai realmente scoperto come allora, aveva preso le sue parti e si era seduta con lei per elaborare un piano per uscire da Minas Tirith senza allarmare nessuno.

“Spero solo che quando si risveglierà non ce l’abbia tanto con me …” scuoteva il capo mesta, non nascondendo il rammarico che le provocava quella confessione appena sussurrata.“Non potevo permettergli di intralciarmi e conoscendolo non me lo avrebbe mai permesso, è una pazzia ma non posso sottrarmi …” la Bianca Dama si fermò meditabonda dal sellare il cavallo che si apprestavano a prendere.

“So cosa sentite, vi capisco …” disse voltandosi per osservare Tirinîr che si sollevava il cappuccio sulla testa per nascondere le sue fini fattezze. La donna si avvicinò a lei, sicura, prendendo le spalle del mezzelfo.“Andiamo allora garzone, prima che l’alba ci tolga il favore della notte e che i cambio della guardia fornisca occhi freschi!” affermò attendendo il semplice assenso della fanciulla. Un nitrito però le bloccò. Due occhi cangianti nel buio, come quelli di un gatto a cui la luce fa baluginare le iridi, le inchiodarono sul pavimento. Tirinîr non aveva messo in conto il suo amico fidato che risiedeva nelle stalle del sesto livello e che la fissava come se lo stesse tradendo. Aratoamin, seppur veloce, avrebbe troppo attirato l’attenzione per questo non potevano portarlo con loro.

Mellon nîn!” si portò al suo fido e piccolo destriero sotto lo sguardo contrariato di Éowyn.

“Mia Signora …” provò a dirle imponendole la giusta fretta per l’azzardata mossa che si stavano apprestando a fare.

“Solo un momento!” le impose invece l’altra, voltandosi giusto il tempo di replicare per poi tornare ad accarezzare il muso di Aratoamin con fare materno. Il loro rapporto era così profondo, simile a quello che poteva esserci tra fratelli e la Signora di Rohan sapeva quanto poteva essere forte ciò che lega il cavallo al suo cavaliere. “Non posso portarti con me, Aratoamin, comprendimi.” L’intelligente animale borbottò muovendo nervosamente la testa, per poi strofinarsi contro il viso del mezzelfo come se avesse capito ogni singola parola. Tirinîr sorrise dolcemente prima di accostarsi al suo orecchio per sussurrargli la sua gratitudine. Dopo un ultimo sguardo e sfiorando ancora il pelo sulla gobba del muso tornò alla sua compagna d’avventura, per montare il cavallo dietro di lei stringendole il fianco. Éowyn incitò l’animale a partire, lasciando il buio ed il silenzio a fare compagnia a tutti gli abitanti delle stalle.

 

Superare la sorveglianza non era stato un grande problema, nemmeno il farsi passare per giovani garzoni costretti a lavorare fino a sera inoltrata. In quei giorni la vita a Minas Tirith si prolungava oltre il tramonto per i semplici lavoranti che dovevano badare alle faccende domestiche e qualsiasi altra mansione, sicuramente poi il permesso del sovraintendette con il sigillo Reale che Éowyn mostrava a chiunque le sbarrasse la strada aiutava alquanto. Il loro aspetto inoltre non faceva presagire a niente di pericoloso, solo due fanciulli che si erano attardati dal rientro e che ora si apprestavano a tornare nella loro casa. Dall’assedio di Gondor molti erano tornati ad abitare il Pelennor e a coltivare i suoi campi, tinti ormai d’oro e verde, di sovente capitava qualcuno che doveva passare per i cancelli per ritornare e il coprifuoco aveva cessato di esistere.

Per raggiungere il loro obbiettivo ci vollero quasi due ore: l’accampamento dei Variag non era al confine come pensavano, i loro calcoli erano divenuti vani quando, per solo un gioco di prospettive, scoprirono che la vista dalla Torre non rendeva chiare le giuste distanze. Erano pericolosamente più vicini a Minas  Tirith, oltre i vecchi confini ma entro i nuovi, dove distese di colture e filari di frutteti si estendevano rigogliosi. Tra le viti disposte in linee parallele alla perfezione ormai sulla via del riposo stagionale, il cavallo se ne stava tranquillo ruminando sul posto qualche tenera erbetta sfuggita alla decadenza dell’autunno. Intanto le due donne si erano appostate al limite contrario, sdraiate in terra ad osservare i Variag nella quiete della notte. Tirinîr non aveva dimenticato il modo per nascondersi, mimetizzarsi diventando parte delle ombre notturne e trascinava con sé Éowyn, che si preoccupava di guardarle le spalle. Due guardie si trovavano accanto a quella che sembrava una vera cella ambulante, le prigioni di Guerra le chiamavano. Gli abiti scuri e gli elmi in metallo che puntavano in alto come una fiamma di una candela, facevano pensare a carcerati importanti. All’interno della cella c’erano cinque fanciulle tutte della stessa inconfondibile provenienza: sembravano stanche e ferite, una di loro giaceva sulle ginocchia di un’altra tremante con dei segni sulla schiena e sul viso tumefatto. Ruin invece posava le spalle alle sbarre, giocando nervosamente dalle mani. La Guaritrice ricordava quel gesto di quando era ancora una bambina, il suo modo personale per aiutarsi a pensare e per sfogare la frustrazione che la stava cogliendo. Si massaggiava continuamente ed insistentemente le dita dell’una e dell’altra mano, mordendosi il labbro inferiore con ferocia, quasi a ferirsi con i denti. I suoi occhi puntavano ad un punto neutro del pavimento dove cercava di raccogliere i suoi pensieri. Un vicolo cieco, era un maledetto vicolo cieco.

I Variag non l’avevano torturata, ma l’avevano costretta a vedere la sua compagna percossa con una violenza inaudita. Lei aveva in tutti i modi cercato di non dare a vedere segni di debolezza, non aveva ceduto alle loro richieste mostrando indiferenza alle brutalità a cui l'avevano assoggettata, senza rivelare in alcun modo come rintracciare le altre ormai disperse in tutti gli angoli della Terra di Mezzo, ma appena i suoi aguzzini si stancarono di giocare con loro e l’avevano cacciate aveva rigettato quel niente che le spettava come razione di cibo. Ogni volta che provava anche solo a riflettere su come uscirne le ritornava alla mente il sangue, le frustrate, i colpi inferti, le bruciature. Maledetti: sapevano benissimo che un’Ombra non avrebbe parlato se torturata lei stessa, ma solo con la sofferenza altrui. Colpivano il loro spirito di popolo. E minacciavano di continuo di passare ad altre torture se solo avesse provato a difendersi a Gondor, avrebbero ucciso le altre se lei avesse anche solo osato proferire parola in lingua corrente ad Elessar. Ma la morte non sarebbe stata né dolce né tantomeno onorevole, come ci si auspicava. Ogni genere di supplizio era previsto per loro e lei avrebbe solo potuto assistere inerme allo scempio delle vite che aveva di fronte. Quelle donne che le avevano giurato fedeltà, quel piccolo manipolo che era riuscito a scoprire molte verità e che erano state elette per difendere ancora il loro segreto finché i Signori del Khand non avessero ceduto le armi, si sacrificavano assieme a lei per proteggere le loro madri e sorelle.

Non avevano più via di scampo a causa sua. La colpa ricadeva sulla sua nuca pesante, si sentiva in debito con loro e quanto avrebbe voluto che non fosse lei alla loro guida, che ci fosse qualcuna di più saggia e con più esperienza. Una come Adamante per esempio. Lei avrebbe saputo come comportarsi, la diplomazia era il suo punto di forza. Avrebbe trovato un appiglio, una scappatoia. Ma c'era solo lei e le sue compagne con un addestramento inferiore al suo. Era pur sempre la figlia della Storica, della Consigliera in carica, a lei spettava di guidare. Troppe responsabilità per una così giovane ragazza, nemmeno aveva le forme di una vera donna e già si trovava a dover guidare un esercito. Avevano forse sopravvalutato le sue capacità?

Ruin sentì solo un tonfo, come di un una pietra lanciata contro la corteccia di un albero, ed alzando lo sguardo vide le due guardie accasciarsi l’una dopo l’altra. I suoi occhi vagarono sulle compagne, spaesate ed incredule che a loro volta osservavano il buio dei campi per capire cosa stesse accadendo. La ragazza si voltò quindi, afferrando le sbarre che fino a poco prima le fornivano un sostegno per la sua schiena stanca ed aspettando che anche la sua vista si abituasse all’oscurità resa ancor più tetra dalla luce proveniente dall’accampamento poco distante.

“Voltati!” fu l’intimazione roca che provenì da essa. Una voce familiare, femminile appena accennata. Ubbidì, senza replicare sul momento, tornando a sedersi nella stessa posizione precedente. Ad un tratto sentì un respiro riverberarsi sulla pelle della spalla e un profumo intenso e floreale, che cozzava con l’odore stantio della cella. Anch’esso non era nuovo, ma non ricordava dove avesse potuto sentirlo.

“Chi siete? Vi … Vi conosco?” sussurrò in una disperata richiesta di chiarezza.

“Non è ora dei ricongiungimenti Ruin figlia di Raja …” rispose la voce alle sue spalle. Non le servì altro, non le interessava. Chiunque fosse aveva appena tramortito due guardie Variag con tecniche che conosceva da sempre. Era dalla loro parte, o almeno lo sperava ardentemente. “Dove sono?”

“Chi?” chiese con una finta indifferenza.

“Sai benissimo chi!” rispose con sicurezza. Come faceva quella voce a sapere?

“Ci hanno seguito a distanza fin dalla nostra cattura, ma non hanno potuto superare i confini.”replicò vaga. Un respiro più profondo le solleticò il collo, sembrava rassegnato ed aveva l’impressione che chiunque fosse dietro di sé, stesse riflettendo ed avesse distolto lo sguardo. Provò quindi a voltarsi lentamente, ma mentre stava per intravedere quella figura ella riprese a parlare.

“Ascoltami bene Ruin …” disse “… una volta uscite da qua dirigetevi verso le colline. Attenzione, su quel versante vi sono i campi a riposo e a nascondervi non vi sarà altro che il buio. Prendete le armi delle due guardie e se possibile non fatevi catturare di nuovo.” Una mano chiusa in un pugno si allungò al suo fianco facendola sobbalzare al contatto con quella tiepida e perlacea pelle. Lasciò silenziosa un oggetto sul pagliericcio che si posò con un rumore metallico contro il legno, ma prima che sfilasse nuovamente tra le sbarre la ragazza la trattenne con un gesto fulmineo. Non prestò nemmeno attenzione a ciò che aveva abbandonato accanto a sé, piuttosto era intenta a capire chi le stesse aiutando, voleva essere certa che non fosse una macchinosa trappola dei Variag per complicare la loro posizione già altamente compromessa agl’occhi del Re. Eppure, tra i borbottii sempre più confusi delle sue compagne, riuscì ad udire indistintamente ‘le chiavi’ o ‘potremo scappare’. La sua attenzione quindi venne riportata a quell’oggetto abbandonato proprio da quella mano che ancora teneva stretta nella sua: chiavi, le chiavi della cella.

“Mia Signora …” disse una voce diversa, sempre femminile ma dai toni più duri, colti dalla frenesia e da un lieve tocco di sana paura. “Dobbiamo andare, temo che se indulgiamo oltre rischieremmo molto più di quello che già stiamo facendo.” Ruin però la teneva stretta e non sembrava pronta a abbandonarla.

“Lasciami libera piccola Ruin, torna al tuo orto …” ed ecco l’indizio che attendeva, quello che le stava svelando il mistero della voce così familiare da sembrarle quella della madre. Ancora ricordava quando, quella stessa voce, le indicava come intrecciare le corde dei tralicci per la passiflora o le cure che doveva riservare alla belladonna. Non aveva più potuto alimentare quel piccolo passatempo e i suoi studi da Guaritrice, perché lei stessa aveva scelto una vita raminga per proteggere le persone che amava, tra cui anche colei che ora si stava esponendo uscendo dalla tana che le avevano costruito per nasconderla.

“Chillah, sei proprio tu?” chiese con una nuova emozione, ingenua e alimentata dalla nostalgia della sua innocenza ormai così lontana da non ricordarne, se non con vaghe immagini come la sua visita agl’elfi o come l'ultima che ritraeva la sua Adamante sullo sfondo divenuta un mero pensiero sfumato nella nebbia della vita vissuta sfuggendo alla vita stessa. Una bambina, sembrava esserlo tornata nel momento che aveva capito.

“Chillah non esiste più, come non esiste più Adamante, Ruin …” rispose quella voce rinnegando ciò che invece il suo cuore le dettava sempre più prepotentemente.

“Anche le Gwaith non esistono, eppure ci vogliono cancellare dalle mappe di Arda senza mai esservi state indicate.” Rispose più prontamente la ragazza non accennando a lasciare il polso del mezzelfo. “Adamante esiste, è solo nascosta, ora si sta mostrando per quello che sarà sempre: una di noi, ma una di noi finalmente libera dai nostri dogmi!” Non resistette più e si voltò senza lasciare la presa. Dopo qualche istante di titubanza, contemplando la fanciulla che ricordava essere la trasformazione della sua Chillah, incastrò le sue braccia tra le sbarre per avvolgerle attorno al collo di quella che un tempo era la sua vera ed autentica sorella. L’aveva amata e continuava ad amarla come tale.

 Un gorgoglio di voci però iniziò ad espandersi tra le tende del Khand, la fuga delle Gwaith stava per essere scoperta e solo questo fece cedere dall’abbraccio distaccato dalla paratia di gelide sbarre. Non avevano neppure avuto il tempo di assaporare a vicenda il loro affetto, il nemico le osservava famelico pronto ad azzannarle. Allentò quindi la morsa per potersi voltare a favore del progressivo borbottio. No, non era tempo di ricongiungimenti strappalacrime. 

“Devi andare, noi ce la caveremo! Salvati amica mia, salvati mia Regina!” E con uno scatto lanciò le chiavi alla guerriera più vicina alle sbarre che si affrettò a cercare quella giusta per far scattare la serratura. Un ultimo sguardo e le dita intrecciate per un’ultima volta. Non c’era bisogno di altre parole, l’affetto che provavano l’una per l’altra era racchiuso fra piccoli gesti di devozione, una forma privata ed inconscia di comunicazione che la Bianca Dama non avrebbe mai voluto interrompere se non fosse stato estremamente necessario. Si sentiva un’estranea in quel quadro ed allo stesso tempo parte integrante. Lo spirito combattivo, lo stesso che aveva visto in Tirinîr lo trovava riflesso in loro, donne forti ed indipendenti che si ribellavano alla loro condizione di fragili fanciulle. Vedeva esclusivamente questo, non spietate assassine sanguinarie. Osservava le due e sul bel volto della spietata guerriera vide scivolare una lacrima fatta della stessa composizione delle sue, simbolo che il sangue che scorre in battaglia sia sempre lo stesso che esso fosse di una misteriosa guerriera o di un cavaliere di Rohan o di un Variag. Aveva scelto da che parte stare e, come aveva sempre saputo, era dalla parte giusta. Nessuno avrebbe approvato questo aiuto che stavano dando, soprattutto per le ripercussioni politiche che il loro comportamento avrebbe comportato e per il rischio di essere tacciate per traditrici.

Con riluttanza prese le spalle di quella che adesso poteva considerare un’amica e l’invitò con forza ad allontanarsi. L’ultima cosa che sentirono fu il cigolio della porta e il rumore della lotta come dardi infuocati che fischiavano nel vento. Presero a correre verso in direzione del loro destriero senza voltarsi. Le gambe si muovevano con foga toccando il terreno come se fosse coperto da braci, le falcate lunghe e determinate, veloci e scattanti ricolme di adrenalina e speranza. A lungo i loro respiri concitati dall’affanno erano stati il ritmo musicale ad accompagnare quella danza in lunghezza, note di una melodia dettata dal corpo.

Ma il corpo spesso si trova ad essere risucchiato dalla stessa vita, soprattutto se ve ne è uno solo a sorreggerne due. I primi cedimenti li avvertì quando il mezzelfo fu costretta a diminuire l’andatura, rimanendo indietro e coprendo la scia lasciata dalla traiettoria della donna. Il soffio cadenzato dalla corsa presto divenne affanno, sentendosi improvvisamente privata della maggior parte delle forze. Impietoso, come il senso di nausea che le stava attanagliando la gola, il crollo la colpì facendola accasciare sulle ginocchia. ‘Non ora piccolo mio, lasciami ancora un po’ di forze’ si trovò a pensare, sperando che quella sua preghiera fosse ascoltata anche dal frutto che stava maturando nel suo ventre.

“Presto Tirinîr! Stanno arrivando!” Éowyn era tornata indietro. Quando si accorse che il mezzelfo si trovava in difficoltà l’aveva già superata di parecchio. Si era trovata quindi a vagare con lo sguardo alle sue spalle ed oltre alla figura accasciata di Tirinîr, vide dei puntini luminosi muoversi verso di loro. Torce. Nella fretta della fuga non avevano avvertito di avere alle calcagna i Variag con il loro carico di rancore. “Se non ce la fate vi potrete reggere sulle mie spalle!” No. Tirinîr non lo poteva permettere, non sarebbe stata la zavorra che avrebbe fatto affondare entrambe. Scosse il capo negando, riuscendo solo di sospirare per intraprendere il suo dissenso che la donna l’aveva ripresa interrompendola dal dire anche una misera parola. “Non dire sciocchezze, non ti lascerei mai qui, in balia di quei bruti!” La donna si dimenticò persino dell’etichetta e delle formalità che ormai erano state abbattute. Non aveva senso darsi voi quando avevano fatto evadere delle prigioniere di un esercito nemico.

“No! Va Éowyn!Io non ce la faccio! Sono stanca e debole, finiremo entrambe nelle loro mani … ” rispose tra un respiro e l’altro. “Non preoccuparti, non mi accadrà nulla. Sono la moglie di un principe e alleato di Re Elessar. Torna a Palazzo e racconta cosa sta accadendo. Dì a Legolas che lo amo e che non avrei voluto che finisse così, spero mi possa perdonare ma non ... potevo ... starmene con le mani in mano. Lui sa il perchè!” per la prima volta la caparbietà della fiera dama di Rohan non ebbe la meglio sulla ragionevolezza della timida mezzelfo, la quale a fatica con le mani sosteneva il suo busto sopra le ginocchia. Un solo bacio sulla sua fronte con la promessa di tornarla a riprendere fu il rapido congedo fra le due. Tutto ruotava troppo in fretta e troppo rapidamente per essere fermato ed era questa la consapevolezza di entrambe per potersi lasciare andare ai vezzi della stima che era nata in quella notte.  

Il mezzelfo attese. Attese lo svolgersi degli eventi, attese il ritorno delle sue parole, attese il compiersi del suo Destino. Sentiva lo scalpiccio di stivali pesanti infrangersi contro il terreno, tremava di paura, di rabbia contro gli eventi, fremeva di impazienza perché  se qualcuno si stava divertendo con i fili del Fato era meglio che si sbrigasse. Pregò i Valar di proteggere Éowyn e Ruin, pregò suo padre Helluin e sua madre Amarah di starle accanto ed assisterla, pregò suo figlio di aiutarla a proteggerlo mentre vide di lontano il drappo dardeggiante di uomini pronti a sottomettere un’Ombra e che si sarebbero trovati di fronte ad un elfo. E proprio nel momento in cui le forze la stavano abbandonando, accasciata su di un fianco in preda alla debolezza vide lo stivale di un uomo che si stava accovacciando su di lei. La studiava scrutandola a fondo scostando i capelli dal viso. Purtroppo il mezzelfo non poteva ricambiare quell’attenta esamina, la sua vista ormai era quasi del tutto offuscata. Sentiva solo una morbida carezza sul suo volto e l’ultima cosa che avvertì fu una stretta piacevole prima di essere sollevata da terra.

“Ne avete trovata una, mio Signore Raion?”

 

Miei amici! Il mezzelfo perse i sensi con quella frase nella mente e si trovò a pensare, prima che la fitta foschia l’avvolgesse, che Raion fosse un bel nome. Chi fosse non sapeva, nemmeno le interessava, ma quello che avvertì fu solo la strana sensazione di essere al sicuro e protetta, strana soprattutto perché ora si sarebbe trovata nel covo delle serpi. La lotta tra Adamante e Tirinîr era appena agli esordi: il passato, il presente ed il futuro a confronto come i vertici di una figura regolare che perdeva i suoi contorni definiti a favore di altri più sfaccettati e fluidi. Miei signori, la nostra avventura finalmente sta per concludersi ma per ascoltare se il finale dia lieto vi chiedo ancora di attendere, vi prego pazientate che il vostro umile servo Sarìin possa rischiararsi la voce con i fermenti del luppolo e con del buon Vecchio Tobia nella pipa, vedrete che saprò ricompensare la vostra bontà d’animo come ho fatto fin ora.

Note dell'autrice: Ehm!!!^^ Scusate il ritardo!!! Allora a mia discolpa posso dire che c'è stato il mio compleanno di mezzo ed ho avuto meno tempo per scrivere!!! Ghgh!!! Mi dispiace avervi fatto attendere ma ecco qui! Inoltre mi trovo un attimo in difficoltà con questi capitoli perchè ne ho cambiato la connotazione circa tre volte: prima gli atti finali si dovevano svolgere in un certo modo che però non mi convincevano, poi in un altro... bhè spero che non lo troverete banale, ma volevo che Eowyn aiutasse la nostra tirinir nel farle fuggire visto che lei è combattiva e guerriera proprio come lo spirito amazzone. Le due Signore dell'Ithilien all'attacco!!! Temo solo che possa risultare un po' forzato e magari troppo teatrale, non so a me piace ... mi rimetto alla vostra sentenza!!! ^^

Comunque se avete dei dubbi, qualche domanda sono sempre disposta a rispondere o eventualmente a corregere qualcosa che non quadra.

A conti fatti il prossimo capitolo dovrebbe essere l'ultimo o il penultimo prima dell'epilogo. Ci si avvicina alla fine di questa meravigliosa avventura con cui io ho sognato ed è forse per questo che sento il peso e la difficoltà a districarmi fra le mie idee. Temo di finire nel vortice delle banalità e che la mia fantasia non riesca a soddisfare le vostre aspettative. Non voglio deludervi e poi ci tengo troppo a questa storia per farla scadere. Dopo questo piagnisteo passiamo a rispondere quindi:

Angolino della posta:

Thiliol: Mellon nin! Grazie per l'applauso, anche a me è partito quando hanno risposto in quella maniera, sai com'è i personaggi del maestro vivono di vita propria io mi limito a fantasticare su di loro e a dargli voce cercando il più possibile di farli rientrare. Certo se ci fosse stato Gandalf altro che bastonate, l'avrebbe trasformato in qualche strana creatura attaccato ad uno dei suoi fuochi e sparato nel cielo (Adoro Olorin è il mio mito!). Uh è vero lo sbaglio sempre Dol Amroth, lo pronuncio sbagliato nella mia testa e mi viene naturale sbagliarlo scrivendo eh eh!!! ^^ comunque grazie ho subito corretto!!!Buonanotte egregia compagna di avventura!!!

Elfa: Ma ciao!!! Eh eh!!!Già già, al nostro santo Legolas gli girano un po' in questo capitolo ancora di più!!! Ma ha perfettamente ragione, gli ho creato un antagonista veramente ma veramente odioso!!! Sono proprio cattiva, muahahahah!!! Bhè il figlio di Adamante avrà modo di sbucare, già qui lo intravediamo ... va buò non dico altro ... Besitos!!!

Elviraj: Uh che billo!!!^^ Mae govannen nuova amica!!! Sono contenta che ti sia affezionata alla mia mezzelfo, piccina la mia Tirinir!!! Avevi scritto bene il nome cara, comunque va bene anche Adamante o Chillah o Guaritrice (miii quanti nomi, new Gandalf in action).  Spero che continui ad appasionarti anche se stiamo arrivando alla fine. Se ti va mi farà piacere sapere cosa ne pensi ancora!!!Un bacione e buonottina!!!

Ringrazio tutti quelli che mi leggono, mi seguono e mi preferiscono!!!

Vi Adoro la Vostra Mally pseudo scrittrice pazza.

   
 
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