Un’ora
sola ti vorrei…
Io
che non so scordarti mai
per te darei la vita mia
per dirti quello che non sai...
Un'ora sola ti vorrei
io che non so scordarti mai
per dirti ancor nei baci miei
che cosa sei per me.
Un'ora sola ti vorrei
per dirti quello che non sai
ed in quest'ora donerei
la vita mia per te.
Io non vedo il mondo
quando penso a te
vedo gli occhi tuoi nei miei.
Ma se non mi vuoi
non è niente, sai,
la vita mia per me.
Un'ora sola ti vorrei
io che non so scordarti mai
per dirti ancor nei baci miei
che cosa sei per me.
Ed in quest'ora donerei
la vita mia per te.
Mia nonna cantava spesso
quella vecchia canzone.
Mentre lavava i piatti o
coglieva i fiori in giardino. Non era particolarmente stonata, ma non
si poteva
dire che avesse una gran voce. La cantava piano, come sussurrata, come
se le
parole che dicesse fossero troppo forti, per una vecchia signora di
ottant’anni
con i capelli bianchi raccolti in una crocchia sulla cima della testa e
un
vestito a fiorellini.
Ma cosa poteva essere una
frase come “Un’ora sola ti vorrei, per dirti quello
che non sai…” in confronto
a certe canzoni piene di sproloqui o parolacce come quelle di oggi? Non
diceva
niente di strano se non esprimere un desiderio. Un sogno forse quasi
impossibile a realizzarsi.
Chissà perché
era la sua
canzone preferita.
Chissà a chi pensava
quando
la cantava. A sua mamma? Al nonno? Ad un uomo che non aveva mai
incontrato? Ad
una persona alla quale non aveva mai parlato?
Non gliel’ho mai chiesto.
E chissà
perché mi è venuta
in mente ora mentre sto scrivendo: forse perché in
realtà la cantava per me?
Per dirmi che, nello spazio
di una breve ora, sessanta minuti, tremilaseicento secondi,
può succedere la
cosa più meravigliosa al mondo e anche quella che ti spezza
il cuore per
sempre?
Non lo so.
Ma così è
avvenuto.
*******
Mi guardo e riguardo allo
specchio. Faccio una, due, tre giravolte e comunque non mi capacito.
Ma sono davvero io, quella
riflessa, o in realtà ho davanti lo specchio del luna park?
Vabbè che sono
stata due ore dal visagista, due dal parrucchiere e una dalla sarta,
ma… pare
un miracolo!
Mi tocco i capelli, stando
attenta a non spettinarmi: ma che accidenti di acconciatura mi ha
fatto, quella
parrucchiera matta? I miei lunghi capelli ricci e scuri sono diventati
un acrocchio
stranissimo, a metà strada tra il chignon di mia nonna e la
pettinatura che ha
Madonna in “Cercasi Susan disperatamente”, quando
li ha raccolti. Non che stia
male, anzi. Qualche ricciolo mi scappa, ad arte, ai lati del viso,
dietro e
sulla fronte e il collo e le spalle bianche risaltano molto. Posso dire
che i
cento euro che mi è costata valgono tutti. E questa
pettinatura da gran sera è
perfetta per il vestito che indosso.
Me lo sono fatta fare
apposta, su un modello che avevo in mente da tempo: è
stretto nella parte alta,
con una scollatura non troppo accentuata e maniche lunghe, che partono
strette
e poi vanno larghe, e poi scende svasato, lungo fino ai piedi.
E’ di un tessuto che
assomiglia alla seta.
Nero. Il mio colore
preferito.
La sarta ha fatto un ottimo
lavoro: mi sta alla perfezione, anche perché sono snella e
proporzionata, per
fortuna. Non posso permettermi scollature generose, vista la mancanza
di un
decoltee adeguato, né minigonne vertiginose, visto che ormai
non ho più
vent’anni, ma devo dire che è di classe. Mi piace
molto.
Non sono una bellezza,
quello no: ma il visagista mago ha fatto la sua magia. Per una sera
posso dire
di sembrare bella: sarà grazie al fatto che il truccatore ha
accentuato i miei
due begli occhi azzurri dalle ciglia e sopracciglia nere e la mia bocca
ben
disegnata. Quanto è che mi ammiro allo specchio? Troppo, mi
sa… guardo
l’orologio e vedo che però non sono poi
così in ritardo.
Mio marito è
già andato alla
festa al Ministero dell’Ambiente, neo-eletto deputato, mentre
io sono ancora
qui che bighellono per la nostra stanza di un albergo tre stelle dietro
al
Viminale, a Roma. Se prendo un taxi nel giro di dieci minuti, direi che
sono in
tempo perfetto. Sono solo le venti e la festa inizia attorno alle nove.
Prendo i sandali dalla loro
scatola: hanno dodici centimetri di tacco a spillo e sono bellissimi,
neri, con
dei minuscoli brillantini applicati sopra. E sono in pendant perfetto
con la
mia borsetta nuova. Li indosso e quasi mi par di cadere per terra: sono
altissimi
per me, che di solito giro in scarpe basse; ma mio marito è
alto quasi un metro
e novanta e non posso, in questa sera così importante per
lui, sembrare la sua
moglie nana. Con i tacchi, almeno viaggio attorno al metro e
settantasette e
non sfiguro così tanto.
Metto due cose in borsetta e
sono pronta. Non mi servono giacche o scialli perché siamo
in maggio e a Roma è
caldo. Esco dalla stanza e mi chiudo la porta alle spalle. I miei passi
sono
silenziosi sulla moquette azzurra del corridoio dell’albergo.
Per un momento mi
pare di essere una modella in passerella e mi rendo conto che se voglio
stare
in piedi su quei trampoli, l’unico modo che ho è
sculettare leggermente, in
modo da passare il peso da un piede all’altro. Difficile, ma
spero di resistere
un paio d’ore, almeno, prima di collassare da qualche parte
con i piedi in
fiamme.
Arrivo all’ascensore e
premo
il bottone per chiamarlo. Siamo al sesto piano. Per nulla al mondo
farei le
scale a piedi rischiando di incespicare sulla corsia di tappeto che
c’è sulle
scale e finire a gambe all’aria, e quindi aspetto con calma
che arrivi.
Salgo non appena si aprono
le porte. E’ vuoto.
Mi giro verso la porta
dell’ascensore aperta per scegliere il piano e premere il
pulsante, quando
qualcuno si catapulta dentro di corsa prima che si chiudano e non
l’avevo visto
prima, non so se mi seguisse lungo il corridoio.
Resto con la mano sollevata,
come se fossi congelata.
E non posso credere ai miei
occhi.
Shannon Leto.
“Aspetta,
aspetta...” Mi
dice, trafelato. Ah potrei aspettare anche due giorni, visto che non mi
risponde più nessun muscolo del corpo e ho il cuore in gola.
Devo avere
un’espressione ebete al massimo, mentre lo guardo e gli
faccio una radiografia
seduta stante.
Dio mio se non è bello!
Al
solito non è vestito benissimo
(giacchetta in pelle sopra una maglietta consunta e
pantaloni scuri,
scarpe da ginnastica, berretto in testa) ma sarebbe sexy anche se
avesse il
solo sacchetto della Despar infilato addosso… forse anche di
più…
“A che piano
vai?” Piano?
Cos’è un piano? Improvvisamente realizzo che mi
sta chiedendo di schiacciare
qualche bottone e non di suonare una sinfonia di Chopin al piano.
“P-piano
terra.” Sì, terra…
Terra chiama Marte…
“Pure io.”
Schiaccia lui per
me, anche perché non so nemmeno dove mi trovo e nella
pulsantiera è facile che
ci inserisco i numeri del bancomat invece di scegliere il piano. Quando
allunga
un braccio davanti a me per arrivare alla pulsantiera, sento il suo
profumo,
mentre le porte si chiudono lentamente.
“G-grazie” gli
dico, girandomi
verso di lui. Di che non so, e lui mi sorride, sornione, fissandomi per
un
attimo. Spero ardentemente che non legga il pensiero e che non scopra
che sono
una sua fan accanita e che so a memoria la composizione della sua
batteria. La
sua pagina di wikipedia italiana l’ho scritta io, sotto uno
dei miei tanti
nickname. Ho almeno due GB di sue foto, un calendario favoloso
self-made con le
sue foto appeso in ufficio, una invidia allucinante per la giapponese
che si
scarrozza in Ducati per Malibù e gli ho dedicato pure un
tribute su youtube.
Ricambio con un sorriso rimbambito: starà pensando che in
Italia hanno aperto i
manicomi e i matti li hanno trasferiti tutti negli alberghi tre stelle
di Roma.
Tre stelle??? Che cazzo ci
fa lui in un tre stelle?? A Milano non alloggiava al super mega
lussuoso Park
Hyatt?? Glielo chiedo? Meglio di no.
L’ascensore si avvia con
un
rumore che mi pare un po’ sinistro, mentre ho i neuroni
impallati, il cuore a
mille e la solita espressione ebete per la serie
che-cazzo-ci-faccio-qui. Gli
sorrido nuovamente, arrossisco e abbasso gli occhi a guardare la
borsetta che
ho in mano.
Vorrei essere da un’altra
parte.
No.
Forse no.
Va bene qui.
Ma tra trenta secondi
arriviamo al piano terra e addio.
Vorrei che si fermasse tutto
e vorrei avere un po’ più di
sicurezza.
Vorrei avere la faccia come
il culo per dirgli le solite boiate di circostanza che si dicono agli
sconosciuti in ascensore.
Vorrei non essere cotta
così
di lui.
Vorrei essere una gnocca
galattica da interessargli almeno
un
pochino e non una racchia qualsiasi.
Vorrei che non mi guardasse
in quel modo, come se stesse aspettando che gli dica qualcosa. Non so
perché ma
mi sta facendo lui una radiografia. Si starà chiedendo se
sono la cameriera?
Vorrei sentire le mie gambe
ferme, non tremare come fanno ora, come foglie al vento. Potrei cadere
dai
tacchi. (A proposito: sono più alta di lui…
è vero che è piccolino… me
l’ero
sempre immaginato alto, invece è proprio basso…)
Vorrei non sentirmi come
Fantozzi, color rosso pompeiano, lingua felpata e salivazione azzerata.
Vorrei troppe cose e tutte
insieme.
Vorrei non sentire questo strano
rumore e avvertire l’ascensore
che si
ferma bruscamente e non è arrivato a destinazione. Oppure
sì?
“Che cazzo
succede!?” lo
sento esclamare.
L’ascensore è
bloccato.
E in pochi metri quadrati ci
siamo solo io e Shannon.
E non so per quanto.
Ci scambiamo un’occhiata
allarmata.
“Soffri di
claustrofobia?”
mi chiede, sorridendo, mentre mi guarda la scollatura del vestito.
“N-no.” E
arrossisco.
“Nemmeno io. Meno
male.”
Poi schiaccia il pulsante
d’allarme. Tranquillo come se restasse chiuso in ascensore
due volte al giorno,
prima e dopo i pasti.
“S-siamo bloccati
qui?” Ma,
cazzo, perché balbetto??
“Eh
già.” Si mette le mani
in tasca, scuotendo le spalle, indifferente, e ‘sto giro mi
guarda dalla testa
ai piedi.
Eh-già?
EH-GIAAAA’??????? Eh
già un corno! Non soffro di claustrofobia ma essere chiusa
qui con te non mi
piace proprio, caro il mio Shanoronzo!! Mi verrebbe da prendere la
porta a
pugni per uscire. “E… cosa si fa?”
Chiedo, schiarendomi la voce, imbarazzata,
mentre già mi pento della domanda, temendo la risposta
(troppe fantasie
sull’ascensore rotto in generale e su di te? Sonia, amica mia
psicologa,
aiuto!!!).
“Non so.
Aspettiamo…” Ti
sposti e poi ti metti a braccia incrociate appoggiato sulla parete al
lato
della porta e mi fissi nuovamente. “Ti chiami?”
Boh… chi se lo
ricorda… me
ne invento uno? No, posso dirgli quello vero, tanto… cazzo
cambia? Glielo dico.
“Io mi chiamo
Shannon.”
“Lo so.”
‘AZZO, MI E’
SCAPPATO!! Collegare prima il cervello, no eh?
“Eh? Lo sai?”
“Ehmmm…
s-sì.”
“E come fai a saperlo? Ci
conosciamo?”
“Ehmmm. No,
cioè s-s-sì.
Cioè io, non tu, cioè tu non mi conosci, ma io
sì, cioè non di persona,
cioè…”
A quanti ‘cioè’ sono? Millesettecento?
Temperatura superficiale delle mie
guance? Dieci milioni di gradi Kelvin? Bene… potrei produrre
un processo di
fusione atomica reazione-protone-protone così su due piedi.
Mi togli dall’imbarazzo:
“Sì, ho capito. Sai chi sono ma non ci siamo mai
incontrati.”
Era tanto semplice,
perché
non ci ho pensato? “Esatto.”
“Ok.”
Sì, più o
meno: la
conversazione con uomini di cui sono cotta non mi è mai
venuta bene, penso
nemmeno stavolta, e di solito, dopo le presentazioni, non so
più cosa dire:
“Ok.” Infatti.
“Allora conosci i 30
Seconds
to Mars?”
Eccome, no?
“Sì.”
“Bene. E ti piace la
nostra
musica?”
Oddio santo. Mo’ che gli
dico? “No, cioè
sì…”
“NO??” Fai
finta di
guardarmi male.
“No, ho detto
sì, cioè…” Se
non la smetto con questi ‘cioè’ mi
taglio la lingua da sola. Contegno,
contegno. Respiro profondo: “So chi siete e ascolto anche la
vostra musica, ma…
ehmm… non siete il mio gruppo preferito.”
“Perché?”
Perché siete solo
gnocchi da
paura ma non sapete suonare, specialmente i due chitarristi e per me
non c’è
rock senza chitarristi validi. Glielo dico? Mmmmhhhh. La diplomazia non
è mai
stata il mio forte, potrebbe scapparmi, devo stare attenta. Meglio di
no,
aspetta che mi metto in forma ‘intenditrice di musica
on’: “A me piace il
progressive rock, non l’emo… o qualsiasi cosa sia
la vostra musica…”
“EMO? NOI? Ma per favore,
chi cazzo è che dice ‘ste stronzate? Progressive
rock? Interessante. Chi?”
“Ehm… Coheed
and Cambria.”
“Davvero?”
“Sì.”
Alzo leggermente il
bordo della gonna e ti mostro la caviglia sinistra con il tatuaggio
della
libellula, simbolo dei Coheed and Cambria. Non so perché, ma
mi viene
spontaneo. “E’ il loro
simbolo…” ti dico, arrossendo come se tu ci avessi
appoggiato la mano, su quella caviglia, e non solo il tuo sguardo
incuriosito.
“Accidenti. Sei presa
proprio.”
“Eh
sì.” E mi sento anche
tanto scema, in questo momento.
Sembri interessato: “Fai
vedere meglio.”
Oh nooooooo!! Ti chini e mi
guardi la gamba. Mi sono depilata, vero???? Sì e mi sono
anche messa dieci
tonnellate di crema idratante-abbronzante. Oddio, se mi tocchi casco
per terra,
non lo fare, ti prego, non lo fare, ti prego, non lo fare, ti prego,
no, no… e
invece lo fai… Con un dito mi sfiori la libellula e io, con
un brivido lungo la
schiena da antologia, abbasso la gonna di scatto, mentre tu togli la
mano e io
ho il cuore in gola.
“Perché non
l’hai fatta
colorata?” Cosa? La gonna? Ah no, ti riferisci alla
libellula. Ti rialzi da
terra e ti metti più vicino.
“Perché ce
l’hanno così
tutti i componenti dei Coheed.”
“Io non ho nessun
tatuaggio
tutto nero…”
Ma lo so, lo so, inutile che
me lo dici… li conosco a memoria i tatuaggi tuoi. Potrei
ridisegnarteli ad
occhi chiusi. Te li farei uguali e nella stessa posizione.
Mo’ che gli dico? E
cosa mi scappa se non un: “Lo so.”? Certo, proprio
quello. E convinto, anche.
“Ah. Sai pure questo.
Dimmi…
cosa NON sai, di me?”
Urka… non mi sono fatta
la
lista, ma potrei improvvisare: non so come sei appena sveglio al
mattino in
mezzo alle lenzuola sfatte, non so come fai l’amore, non so
se sei spericolato
in Ducati, non so… non so… non so se quella tipa
che ti scorrazzi in giro
per Malibù
è la tua ragazza o se lo
fosse una di quelle due con cui ti hanno visto in macchina a
Monaco… e mi
piacerebbe saperlo. Così,
come
informazione, per cultura generale, tanto sono già gelosa
marcia di
tutte/tutti, perfino del postino che ti suona alla porta di casa, una
in più o
in meno non cambia. Ma ti risparmio la lista e mi limito ad un:
“Dai… non mi
prendere in giro. So solo quello che si dice su
internet…”, poi sorrido e
abbasso gli occhi.
Sono scema, no? Possibile
che non te ne sei ancora accorto? Ti metti a ridere e ti avvicini
ancora di
più: “E’ vero. Le stronzate che girano
su di me sono tante… e quasi tutte
false.”
Mi tocco il viso,
imbarazzata da quella vicinanza, mi rendo conto che sono appoggiata ad
un
angolo dell’ascensore e tu sei davanti a me a meno di mezzo
metro, torreggio
sui tacchi e sono più alta di te, ma mi fai una discreta
paura: “Beh… io… penso
che sia inevitabile. Se non si sa, si inventa.” Sapessi
quante me ne sono
inventata io nelle fan fiction, su di te… ti ho perfino
fatto cicatrizzare da
una strega boliviana e quasi mi verrebbe da controllare se la cicatrice
ce
l’hai veramente.
“Ma non è
giusto…” Lo
sussurri, quasi, mentre mi guardi le labbra, che il visagista mi ha
fatto color
rosso sangue, indelebili, e io ricambio guardando le tue.
Sì, sì, continua a
sussurrare così e mi prende un attacco di panico. Butto
giù il soffitto
dell’ascensore con una testata e poi mi arrampico a
mo’ di scimmia sui cavi,
come nei film.
Quanto è che siamo qui
chiusi? “C-che ore sono?” Ti chiedo, nel tentativo
di cambiare discorso.
Estrai il blackberry da una
tasca. “Otto e un quarto.”
SOLOOOOO?????? E io che
credevo che fosse già mattina! La questione si fa
lunga… E ora? “Ma perché ci
mettono tutto questo tempo?” chiedo.
“Chi?”
“Chi deve aggiustare
l’ascensore…” Ecchisennò?
Babbo Natale? Pronto? C’è Shannon in casa?
“Boh. Non ne ho
idea.”
Ma come diavolo fai a essere
così calmo? Vabbè, sarà il tuo
carattere, il tuo modo di fare nelle emergenze.
Ma poi che diavolo ci fai qui? Curiosità alle stelle.
Chiedo? Ma sì, via…
“Ma… che ci
fai tu qua? In
un tre stelle del cacchio, abituato come sei agli alberghi lussuosi,
come
quello di Milano e…” Accidenti a me!!
L’ho fatto di nuovo. Quando la smetto di
dire che so tutti i cazzi tuoi?
Infatti ti metti a ridere
come un matto mentre io mi sento il cuore il gola e divento rossa
nuovamente.
“Sai anche che numero di stanza avevo, per caso?”,
chiedi.
Ehmmm… No, ma mi sarebbe
piaciuto. Ma così, per giocarlo al lotto, mica per altro. E
aggiungerei anche
che avrei potuto fare il tappetino del bagno di quella stanza, senza
batter
ciglio, per te. “Scusa…”
“Di che?”
“Sono stupida, lo
so…”
“Ma no. Sei
divertente.”
Certo. Mi chiamo
‘pagliaccia’
di secondo nome. E faccio il clown al circo come secondo lavoro:
“Sono cose che
mi hanno raccontato…”
Fai spallucce e sembri un
bambino: “Vabbè, che problema
c’è? E’ quello il motivo per cui
alloggio qui…
Siccome il mondo intero sa che di solito stiamo al più
lussuoso hotel della
città e ci sono le echelon fuori ad ogni ora del giorno e
della notte, abbiamo
deciso di separarci in hotel diversi e meno lussuosi in cui non possano
trovarci… e infatti qui fuori non c’è
nessuno, finalmente…”
Accidenti, che gatti che
siete!! Ma così non avete il concierge che vi porta le
barbie d’alto bordo
bionde e brune e tutto il resto… come farete a sopravvivere?
“No, dai…
scherzi...”
“No. E’ vero.
Però…”
“Cosa?”
“Tu non devi dirlo in
giro…”
IO? Ma se sono
“N-no,
certo…” Ma non
capisco dove ho trovato il fiato per risponderti.
“Brava.” Togli
la mano e poi
dici: “Beh, mi sono stufato e ora mi siedo per
terra.” E ti metti giù
nell’angolo opposto, con la schiena appoggiata alle pareti,
ti togli il
berretto e ti apri la giacca in pelle. I tuoi capelli sono tutti
spettinati e,
al solito, ti stanno alla supersayan e la tua maglietta è
una di quelle
consunte, ma mi pare di vedere i tuoi pettorali, sotto.
Ahimé: queste visioni
non fanno bene alle mie cellule cerebrali. “Dai…
siediti anche tu… qui…” e mi
fai segno con la mano destra di sedermi vicino a te.
Eh sì, come no, nei miei
sogni più folli, forse. “Ma…”
“Mi pare pulito. Vedrai
che
non ti sporchi il tuo bel vestito da gran sera,
dai…”
Ah già…
dovevo essere in
taxi, io a quest’ora… diretta alla
festa… e mio marito sarà là che si
chiede
dove cavolo sono finita. Il problema è che me lo ricordo
solo ora, di avere un
marito e una festa in pieno svolgimento a cui andare!
Prendo il catorcio del mio
telefonino e provo a fare il numero di mio marito, ma il segnale
è inesistente:
“Accidenti…”
“Che
c’è?”
“Dovrei avvisare mio
marito
ma il cellulare non prende.”
“Beh, si
sa…”
‘Si sa’? Cosa?
Che dovrei
avvisare mio marito o che il cellulare negli ascensori non prende?
Lavori alla
Telecom, a tempo perso? “Oh, noooo… non
arriverò mai in tempo!”
“Dove stavi
andando?”
“Ad una festa.”
“Sì, quello lo
avevo capito.
Non penso che vai a visitare il Colosseo vestita
così...”
E tu che ne sai? Potrei
essere un’eccentrica miliardaria e lavarci i piatti, con un
Valentino da
ventimila euro addosso. “Al Ministero…”
“Accidenti. Nei palazzi
del
potere…”
“Già, anche se
preferirei
andare da un’altra parte…” Ad un tuo
concerto, per esempio. A proposito: “Ma tu
non hai il concerto, stasera? Cioè,
adesso…”
“No. Domani
sera.”
Ma oggi che giorno è? Ah
sì.
Avevo anche pensato di poter venire al tuo concerto di Roma, ma domani
pomeriggio ho il treno e non potrei esserci e comunque nessuna mia
amica viene,
questa volta: “Ah. OK.”
“Ma non penso che
suonerò,
domani…”
“Perché?”
“Perché mi
verrà un
torcicollo espresso, se non ti siedi…”
Touchè. Anche se mi
verrebbe
da dire che potresti fare anche a meno di guardarmi da sotto in
sù… con quegli
occhi, poi… E poi la fai facile, tu, che sei in pantaloni.
Come ci si siede per
terra con un vestito da sera e tacchi da dodici centimetri senza
stramazzare al
suolo? Non sono molto convinta di riuscirci. Ci penso un attimo e poi
prendo
dalla borsetta un fazzoletto di carta e lo stendo nell’angolo
adiacente a
quello dove è seduto Shannon, sulla sua destra. E adesso?
Appoggio la borsetta
per terra, mi accuccio e centro con il sedere il fazzoletto, allungo le
gambe e
poi mi metto a sistemare la gonna attorno in modo che non si spiegazzi
tutta.
Ho occupato quasi tutto il pavimento dell’ascensore. Mi tolgo
anche i sandali,
sennò mi si ammacca il tacco a star seduta così.
Ovviamente non hai perso una
mossa e ti ho visto mentre mi sbirciavi il sedere e sotto la gonna.
Porco. E
ora mi sorridi e annuisci: “Così va
meglio…”
Andrà bene per te: a me
sembra di essermi seduta su un formicaio.
“Insomma…” dico, mentre noto dei
peletti bianchi sulla moquette per terra che sicuramente finiranno
attaccati
alla mia gonna nera e, quando uscirò
dall’ascensore, sembrerò passata in mezzo
ad un esercito di gatti. Che devo fare? Avvolgermi nei fazzoletti di
carta?
Sbuffo: “Che palle…”
“Beh, se eri sola qui
dentro
era peggio, no?”
Poveretto: crede che abbia
detto ‘Che palle’ per lui. Non potrei mai.
“No, no, non dicevo ‘che palle’
perché ci sei tu, ma perché…
beh… arriverò alla festa in ritardo e con il
vestito
tutto pieno di peli della moquette…” Ma
perché fa così caldo qui dentro? O
forse è perchè non smetti di guardarmi con quegli
occhi che non ho ancora ben
capito che colore hanno? Ma sta succedendo veramente che sono chiusa
qui con
te? Oppure è una delle mie fantasie più folli e
in realtà sono a letto e sto
scrivendo l’ennesima fanfiction su di te, sul mio portatile?
Quasi quasi mi
mollo un pizzicotto.
Scuoti una spalla, mentre
pieghi un ginocchio e ci appoggi sopra un braccio, a tuo agio,
rilassato: “E che
ti importa?”
Mi importa: se ti dico che
è
la prima volta in vita mia che mi metto un cazzo di vestito da sera che
fai?
Muori dal ridere, scommetto, meglio se non sai la mia situazione da
cenerentola
di provincia: “Sembrerò una zingara…
ritardataria.”
“Non ci puoi fare niente,
no?”
Beh… non ha tutti i
torti,
ma io sono Miss Perfezionista e il ritardo non è contemplato
nel mio dizionario
e nemmeno i peli sul mio vestito nuovo. “Mio marito mi
ucciderà…”
“Ma no… posso
testimoniare
io che non potevi arrivare prima e che ti sei seduta per terra
perché eri
stanca.”
Oh mio adorato cavaliere
dalla splendente armatura che corre in aiuto di una damigella in
difficoltà…
Grazie ma… Direi di no. Mio marito potrebbe uccidere anche
te, visto che sa che
non faccio altro che sospirare sulle tue foto e ti odia a morte:
“Meglio di
no.”
“Non mi
crederebbe?”
Sì, sì, ti
crederebbe, dopo
averti tirato un pugno sul naso. “No. Ucciderebbe anche
t…” Accidenti. Ma
perché non me ne sto zitta??
Rifai le spallucce: “E
perché? Mica ho fatto niente e poi non mi conosce, non ha
motivi.”
Certo che ti conosce: ti
chiama ‘Kiltman’, ‘l’uomo dalla
frittata facile’, ‘quella checca’,
‘quell’imbecille’, ‘quel
batterista di merda’ e tanti altri simpatici e
divertenti (per mio marito) nomignoli… ah sì,
anche ‘puttaniere pedofilo’:
“Beh… invece sì.”
“Pure lui?”
“Eh,
già.”
“E come mai?”
Ma, per illuminazione
divina, credo: “Gliene parlo io…” Oddio
come mi sento cretina. Presto una
scusa, devo trovare una scusa…
“EEH?” Ti metti
a ridere per
l’ennesima volta e mi guardi con le sopracciglia aggrottate.
“Sì, quando si
parla di
musica… ehmm… di batteristi…”
“Di batteristi?”
Sì, possibilmente
semi-svestiti. “Sì.”
“E cosa gli dici? Gli
parli
di come suono?” Per la serie, ma che cazzo, donna, ma cosa ne
sai di batterie
tu?
“Sì, che usi
la doppia
cassa, per esempio, e che suoni anche la batteria elettrica
e… i bidoni della
spazzatura, quando ti esibisci con gli Street Drums Corps.”
So tutto, tutto!! E tu ridi
nuovamente: “E’ vero. E lui che dice?”
Niente, semplicemente che
suoni di merda, anche se non ha mai sentito nessuna delle tue canzoni,
ma
schifa a priori. Mentire, mentire: “Niente, non gli piace
come suoni. Il suo
batterista preferito è John Dolmayan dei System of a
Down.”
“Beh, non si
può dargli
torto…”
“Direi di no.”
“John lo conosco di
persona.
E’ anche simpatico, tra l’altro. E il
tuo?”
“Il mio batterista
preferito?” Tu annuisci. Adesso sì che sono in
panico. E nei guai. Sono certa
che dirò qualcosa di sconveniente.
“Beh… non ce n’è uno
soltanto…” Mi sposto il
ricciolo che mi cade sulla fronte per prendere tempo, mentre tu mi
guardi
fisso. “Ehmmm… A me piacciono Tre Cool, Joshua
Eppard, Josh Freese, David
Carey, Gartdrumm... e anche quello dei Muse, Dominic
qualcosa…” Imparassi tu un
po’ da ognuno di loro, saremo a posto.
Adesso mi guardi moooooolto
strano: “E io?”
Tu ‘cosa’? Non
vorrai che ti
dica che sei un grande batterista, vero? Nemmeno per sogno. Gnocco sei,
ma
suoni così così e potresti fare molto di
più. Faccio finta di non avere capito:
“Cosa?”
“Io non ti
piaccio?”
URKA CHE SI’ CHE MI
PIACI,
specialmente quando suoni con il kilt, perché se uno
è macho in kilt figurarsi
senza… beh anche quando suoni in bermuda, senza maglia e con
i calzettoni a
righe sei sexy e pure quando sei vestito Dolce&Gabbana al blood
ball e
quando hai la camicia a quadretti e anche con il cappellino nero con la
piumetta e nonostante ti sia recentemente rifatto i fori per gli
orecchini devo
dire che…
“Pronto? Ci
sei?” mi dici,
passandomi una mano davanti agli occhi… Acc… mi
ero lasciata prendere dalle mie
visioni di te, non mi bastasse che sei stravaccato qui per terra
davanti a me.
“C-cosa?”
“Io non ti piaccio come
suono?”
Sì, meglio che
specifichi
cosa vuoi sapere, sennò parto di nuovo con il mio filmetto.
Ma ora… CHE CAZZO
TI DICO? “Ehmmmm… No, cioè
sì… Ehmmmm…”
“No o
sì?”
Arrossisco e mi gratto una
guancia: “Beeeeehhh, Ehhmmm… Iooooo…
cioè…”
“Dimmi la
verità, dai…”
La verità? E’
una parola.
Sei certo di voler veramente sapere cosa penso di te, musicalmente
parlando?
“Sicuro?”
“Ma sì,
dai…”
“No, dai…
lasciamo perdere.
Cosa ti interessa della mia opinione?”
“Perché non
dovrebbe? Sono
un musicista. Mi interessano opinioni sulla mia musica più
delle opinioni sul
mio modo di vestire… quelle che sento di solito dalle
echelon.”
Oddio non mi avrai letto nel
pensiero mentre ti pensavo con il kilt, spero…
“Non ti servirebbe a niente, la
mia opinione, non ha nessun valore…”
“Tu dimmela. Giudico io
se
ha valore o no.”
D’accordo. Mi hai
convinto,
te lo dico, anche se sembra che me lo ordini e ti stai scazzando. Non
ti
piacerà, ne sono certa, lo sento a pelle, ma te la dico:
“OK. Tu… potresti fare
di più. Molto, ma molto di più. Sei bravo, ma
sono gli altri 30STM che non sono
bravi come te, che non sono al tuo livello. A partire da tuo fratello e
finire
con Tomo. Io ti vedrei bene a suonare veramente il progressive rock o
anche
l’heavy metal, ma in un altro gruppo...” Abbasso
gli occhi a guardarmi la
borsetta che tengo in mano, mentre tu mi guardi ad occhi spalancati. Ti
osservo
di sottecchi e mi sembra che cominci a guardarmi male. Mi affretto a
continuare: “Vabbé, è una mia opinione.
Io… alla fin fine non me ne intendo
granché di batteristi…”
“Ma tu mi hai mai sentito
suonare?” Mi punti un dito addosso.
Eccome, no? Potrei dire di
conoscere la partitura di ‘Valhalla’ a memoria:
“Sì. Certo.”
“Dal vivo?”
“Sì, sono
venuta a vedervi
due volte a Milano. Però mi sembra di non sentire mai
l’hit-hat, dal vivo. A
Milano non lo vedevo proprio, anzi. Lo usi? Oppure no perché
suoni due casse… a
dire la verità non sentivo manco quelle… ma solo
una.”
A questo punto penso che
potresti tirare una saracca, visto che mi stai guardando sempre
più strano. Non
credevi che sapessi come è fatta la tua batteria e come si
suona? Lo so
benissimo come si suona: mio figlio va a scuola di batteria e io lo
accompagno.
E adesso cosa fai? Perché ti alzi di scatto? E ti metti ad
armeggiare con il
blackberry?
Guardo il mio telefonino.
Otto e quaranta. Che tardi! E ancora non prende un cazzo di segnale...
ma
perché il tuo invece sì?
“Pronto? Non so se vi
siete
resi conto che c’è qualcuno chiuso in ascensore da
più di mezzora. Ah sì? E
ALLORA CHE CAZZO STATE FACENDO???!”
Non posso crederci! Hai
telefonato all’albergo per sollecitare i soccorsi? Ma
allora… il tuo cellulare
prendeva anche mezzora fa? Ma… sono confusa:
perché ho insinuato che non usi la
doppia cassa allora ti sei incazzato e non ti va più bene
stare qui, mentre
prima sì? No, dai… Devo essere impazzita! Non
possono essere collegate queste
due cose… ti sei solo rotto di aspettare… Eh
sì, deve essere così…
“Non me ne frega niente
se
solo ora siete riusciti a trovare qualcuno. ADESSO APRITE SUBITO
L’ASCENSORE O
COL CAZZO CHE VI PAGO IL SOGGIORNO IN QUESTO MERDOSO
ALBERGO!!!”
E stai gridando, parlando al
telefonino, dando un pugno alla porta, e due secondi fa eri la calma in
persona? Mi alzo da terra e mi metto a fissarti ad occhi spalancati,
mentre mi
spazzolo la gonna che per fortuna ha preso pochissimi pelucchi.
“Quanto?
Un’altra mezzora al
massimo? Va bene.” Una pausa, mentre ti giri a guardarmi.
“Siamo in due. No.
Non ci sono problemi…”
Poi chiudi la comunicazione
e ti metti l’apparecchio in tasca.
Io rimango a guardarti e
continuo a non capire: se potevi chiamare prima perché non
l’hai fatto e ti sei
interessato soltanto quando stavamo parlando di come suoni? Che poi non
ti
stavo criticando, stavo solo chiedendo…
Ummmhhh. Mi pare strana
‘sta
cosa. Faccio finta di niente e continuo il discorso: “E
comunque una volta ho
visto un filmato che eri ripreso da dietro durante un concerto e ho
notato che
il piede sinistro non lo tieni su nessun pedale. Perché? E
il tintinnio
dell’hit-hat che si sente sul CD come lo fai?”
Non rispondi? OK. Rincaro la
dose, adesso voglio sapere come te la sughi: “E poi
c’è stata pure una volta in
cui hai suonato con una grancassa soltanto, dal vivo per TV. Ma le usi
‘ste due
grancasse o no?”
Hai la faccia di pietra e
gli occhi di ghiaccio mentre mi rispondi: “Tu non sei la
solita echelon, vero?”
“Ehmmm. No. Non sono una
echelon: non faccio volantinaggio, né proselitismo,
né street team…”
“Però sei il
tipo peggiore
di fans: quella che segue i gruppi per criticarli
ferocemente.”
Ahio, non l’hai presa
bene,
lo sapevo. Mai criticare i musicisti, sono troppo permalosi:
“Direi di no: ho
un ascolto critico; volevo fare la musicista, io. Quindi mi piace
seguire i
gruppi anche per capire come suonano e se suonano bene.” In
realtà per me TU
potresti suonare anche il triangolo nella banda del paese, non mi
interesserebbe granché. Però quello che ti ho
detto è vero: potresti fare di
più e meglio.
“Certo, certo. E
dell’aspetto fisico dei musicisti non ti interessa niente,
vero?”
Oopppss…
“No.”
“Ti interessi dei 30STM
per
come suonano, vero? Mio fratello manco lo guardi…”
“Cosa c’entra
tuo fratello?
Stavamo parlando di batteristi e mi hai chiesto un’opinione a
tutti i costi. E
questa è la mia. Non capisco perché ti incazzi
così e tiri fuori cose che non
c’entrano.” Bel discorso. Il problema è
che lo faccio con il viso color cremisi
e mentre mi rifugio nell’angolo, come se avessi una montagna
di cose da
nascondere. Il che è anche vero…
Ti metti a ridere e avanzi
di un passo: “Scendi dal piedistallo, cara. Sei infognata
come tutte le altre
che vengono ai nostri concerti, con gli ormoni a palla. Io potrei
suonare anche
il triangolo e mio fratello cantare ‘Nella vecchia
fattoria’… tu verresti lo
stesso e non per criticare come suono la batteria.”
Hai fatto centro (e il
discorso del triangolo me l’hai letto nel pensiero, sono
sicura). E’ vero.
Anzi, quasi vero. Non basta dire che sono infognata, io sono proprio
INNAMORATA. Ma mi devo creare un alibi, no?
“Macché… Non hai capito niente di
me.”
“No, no. Ho capito
proprio
tutto, invece.” Appoggi una mano sulla parete giusto sopra
alla mia spalla e
ora sei più alto di me perché non indosso i
sandali. Io sono spalmata sulla
parete specchiata e il tuo viso è a dieci centimetri dal
mio.
Sogghigni.
Che ti passa per la testa?
Ti faccio pena, vero?
Mi stai deridendo perché
sai
che sono solo una stupidina che crede di intendersene di musica e
invece quello
che vorrei è soltanto quella tua bella bocca sulla mia.
E’ che mi devo dare un
tono, altrimenti veramente potrei caderti ai piedi. E ho un minimo di
orgoglio
che mi impedisce di accarezzare quella tua barba sfatta e toccarti quei
baffetti
che mi fanno impazzire. E togli quel braccio
di lì perché mi sta venendo una
voglia matta di infilare la mano nel
punto dove la tua giacca si è alzata e si intravede il tuo
fianco. “Boh. Pensa
quel che vuoi, non mi importa. Ti ho detto quel che pensavo e
basta…” Faccio
l’offesa e ne approfitto per cambiare discorso.
“C-cosa ti hanno detto quelli
dell’albergo?”
“Che stanno provvedendo a
farci uscire di qui.”
“Che ore sono?”
“Nove meno
dieci.”
Ma perché non ti sposti
e mi
lasci almeno respirare? Per fortuna ti suona il cellulare e allora ti
scosti da
me, altrimenti divento blu a trattenere il fiato in quel modo.
“Hey. Chiuso in ascensore
con una. Sì, quell’albergo di merda.” Mi
sa che è tuo fratello che ti cerca.
“Un cazzo. Aspetto. Non so per quanto. Vabbè
andate avanti… prima o poi arrivo.
Ciao.” Avevi anche tu un impegno, una qualche orgia alla
quale arriverai in
ritardo, a coca finita? Rimetti il cellulare in tasca, mi guardi
nuovamente e
ti rimetti esattamente come prima. Ma il tuo sguardo avrebbe bisogno
del porto
d’armi per essere portato in giro, te l’hanno mai
detto? E allora io sbotto:
“Spostati e basta guardarmi così.”
“Così,
come?” Prendi in
giro, vero?
“Così e basta.
Basta
guardarmi. E basta.” Benissimo: un cinquanta percento di
‘basta’ su una frase
di poche parole. Ormai come linguaggio sono
all’età della pietra, ma sto
temendo che succeda qualcosa, qui dentro. Non so bene cosa,
però. Il fatto è
che hai scoperto quasi tutti i miei altarini in un secondo e ora non
sappiamo
più cosa dirci. Parliamo del tempo? Se è per
quello è già da un po’ che sento
un vago odore di tempesta.
E non solo quello: adesso
c’è anche qualcuno che smartella furiosamente da
qualche parte. I soccorsi?
Restiamo in silenzio, mentre
io conto le martellate guardando la moquette per terra, con
l’imbarazzo alle
stelle e tormentandomi un’unghia. Non ho il coraggio di
guardarti in viso, non
voglio vedere che espressione hai. Mi verrebbe voglia di finire sotto
la
moquette dell’ascensore, di mimetizzarmi, di diventare
invisibile.
“Ma davvero pensi quello
che
hai detto?” Mi chiedi, ad un tratto, quasi sussurrando.
“Cosa?” Delle
migliaia di
cagate che mi frullano in testa?
“Che sono
bravo?”
Ti guardo negli occhi, quasi
offesa: “Ma certo che sì.”
“Davvero?”
Ma la conferma la devi proprio
volere da me? Peggio per te: “Sì. Sei bravo e
anche se sei bello, sei bravo
comunque. E non te lo dico solo perché sei bello, ma
perché sei anche bravo e
basta. Saresti bravo anche se non fossi bello, insomma. E se facessi
meglio
saresti ancora più bravo... E il fatto che io non senta la
doppia grancassa o
l’hit-hat non vuol dire niente…” Chiaro,
no? E io sono nella merda peggio di
prima. E’ come se avessi alzato una bella bandiera bianca con
scritto “Shannon
4ever”. Non possiamo stare zitti e gettare un pietosissimo
velo sulla mia
infatuazione per te? Anche perché ormai, qualsiasi cosa mi
chiedi, salta fuori
che non sono in grado di intendere e di volere quando sei a meno di due
metri
da me. E io sono sempre più ridicola, ormai.
E infatti ti metti a ridere,
scuotendo la testa, e mi guardi nuovamente dalla testa ai piedi: ti
starai
chiedendo come posso in apparenza
sembrare una seria signora che va ad una festa al Ministero e, nello
stesso
tempo, fare dei discorsi da adolescente cerebrolesa, vero? Beh, ho una
notizia
per te: E’ TUTTA COLPA TUA!! Prima di vederti io ero
effettivamente una donna
seria, tutta casa, famiglia e lavoro, ma la mia serietà
é finita dentro il
cesso in un baleno, dopo che mi sono innamorata di te e infognata con i
30STM.
Ora non farci finire anche la mia dignità.
Ma perché stai ancora
così
vicino? E perché sei ancora lì che mi fissi e non
ridi più? Quanto mi vuoi
mettere in imbarazzo? Non è sufficiente? Che cavolo vuoi? E
ora mi guardi le
labbra. Non vorrai…? Mi balena improvvisamente
un’idea… non vorrai BACIARMI, spero?
No, vero? No, davvero.
Ma…
Che tentazione…
Che pensiero molesto…
E se ti baciassi io?
O se ti accarezzassi il
viso, almeno?
Sei qui, non ti sposti di un
millimetro, il mondo sembra fermo, posso dire che sei mio, per i
prossimi
istanti.
Lo faccio?
Sì o no?
E’ adesso o mai
più, eh?
Alzo una mano, trattenendo
il fiato. Leggermente ti accarezzo una guancia. E tu non ti sposti e
continui a
guardarmi. Ma per te è forse normale farti accarezzare dalle
sconosciute in ascensore?
Perché non dici niente?
Oddio. Sto tremando ma…
E… se…
Lo faccio?
Sì o no?
E’ adesso o mai
più, di
nuovo.
Sì, devo farlo. Devo.
Non mi
capiterà mai più, non posso pensare alle
conseguenze.
Mi avvicino di più a te,
piego il viso e ti deposito un piccolo bacio su una guancia, ad occhi
chiusi.
E tu non rispondi e continui
a non muoverti, a guardarmi.
C’era da aspettarselo.
Era
ovvio.
Non fa niente. Ci ho
provato, non avevo niente da perdere.
Ti fisso un attimo negli
occhi e poi abbasso il viso e mi guardo nuovamente le mani, arrossendo
per
l’ennesima volta e vergognandomi come se avessi rubato.
Quasi subito si sentono
altre martellate e poi un sussultare dell’ascensore. Ci
muoviamo.
Esalo un sospiro. Meno male.
Non ce la facevo più. Mi tolgo dall’angolo, senza
dire niente e senza
guardarti, raccolgo la borsetta e i sandali e mi metto a favore della
porta che
dovrebbe aprirsi a momenti. Finalmente in pochi istanti
l’ascensore arriva al
piano terra e le porte si aprono. Intravedo le facce del portiere e di
alcuni
operai appena fuori, faccio per uscire ma tu mi afferri un braccio.
In un millesimo di secondo,
mi ritrovo tra le tue braccia e tu hai premuto il tasto che fa chiudere
nuovamente le porte e l’ascensore comincia a salire.
Mi stringi a te, mi metti un
braccio attorno alla vita e una mano sulla nuca. Dirigi il mio viso
contro il
tuo e porti la tua bocca sulla mia, con decisione, quasi con impeto. E
io non
resisto, ovviamente, mi arrendo subito, apro le labbra e le muovo sulle
tue. Mi
baci forte, la tua lingua contro la mia. Non mi tiro indietro e
rispondo. Porto
le braccia attorno al tuo collo e ti stringo a me. E tu mi stringi
contro di
te, contro il tuo petto, con impeto.
O Gesù! Vorrei poter
fermare
la mia testa, arrestare i miei pensieri e godermi le sensazioni della
tua bocca
in pace, ma non ci riesco del tutto perché non ci credo che
stia avvenendo… non
credo che tu lo voglia, non può essere…
Che diavolo stai facendo?
Abbasso le braccia, ti
spingo per allontanarti e tu mi lasci.
No.
Non devi farlo.
Non puoi farlo.
Non con quello sguardo.
Non senza amore.
“Stronzo.”
Ti metti a ridere. “Non
era
quello che volevi?”
“Un bacio che non conta
un
cazzo? No. Non era questo…”
“Se non ti basta, visto
che
non ho niente da fare stasera, se vuoi andiamo in camera mia e continuo
anche
con il resto…”
Mentre allunghi una mano e
per un momento penso che vorresti mettermela dentro la scollatura, ti
mollo un
ceffone.
Non sei quello che credevo,
ma solo un borioso pallone gonfiato, troppo sicuro di sé e
della sua avvenenza
e io non ho dieci anni, non mi faccio comandare da te. Sono infognata
persa, ma
ho anche una dignità, seppure minima: “Stasera
allora ti dovrai arrangiare come
puoi perché io invece ho da fare e sono già in
ritardo.”
Da quella tua faccia da presa
in giro quel sorrisetto non ti scompare, nonostante si vedano
chiaramente le
mie dita sulla tua guancia. Mo’ che farai? Le porte
dell’ascensore si riaprono
al sesto piano e io premo nuovamente il pulsante del piano terra,
guardandoti
con la coda dell’occhio e dandoti le spalle.
“Sei solo una casalinga
annoiata.” Mi dici, per offendermi, strofinandoti la guancia,
mentre avevo
pensato che restituissi lo schiaffo con gli interessi. Peccato che sia
vero che
lo sono e non mi offendo più di tanto.
E tu cosa sei, allora? “E
tu
un puttaniere. Pensavo qualcosa di meglio e invece... era vero quello
che si
diceva…”
Ti avvicini da dietro e mi
metti un braccio attorno alla vita.
“E cosa si
diceva?” E mentre
me lo sussurri all’orecchio e un brivido mi scorre lungo la
schiena,
l’ascensore si ferma di nuovo perché hai premuto
il pulsante del blocco mentre
non presidiavo la pulsantiera. Mi giro come una vipera calpestata,
togliendomi
le tue mani di dosso e tento di mollarti un altro schiaffo, ma questa
volta non
mi riesce. Mi prendi le braccia e me le giri dietro. In un istante ho
il petto
appoggiato al tuo e tu stringi fino a farmi male i polsi dietro la
schiena e
non riesco ad arrivare alla pulsantiera per fare ripartire
l’ascensore. Ho
perso la borsa e anche i sandali sono per terra.
“Lasciami
immediatamente!”
Ma tu continui a sogghignare
e il tuo viso è vicinissimo al mio. Oddio e che colore
avrebbero adesso i tuoi
occhi? Non saprei dire. Cerco di muovermi per sciogliere questo
abbraccio ma
non mi riesce, sei troppo forte, per me. E il tuo aroma è
insopportabile, mi dà
alla testa in modo incredibile. Dovrei ragionare invece di respirare il
tuo
odore di UOMO. E mi viene in mente che vorrei risentire il sapore della
tua
bocca.
“Vorresti cadere ai miei
piedi, ma il tuo orgoglio te lo impedisce.
Dimmelo…”, mi sussurri piano.
Stringo i denti, inviperita:
“No.”
“Dimmelo che vorresti
venire
nella mia camera e vorresti farti sbattere da me fino a domani
mattina.”
No, cioè sì.
Certo. Come
conseguenza naturale del nostro amore, scoperei con te per giorni
interi. Sono
due anni che lo penso, che immagino come potrebbe essere fare
l’amore con te
che spingi forte tra le mie gambe aperte, dentro di me, Shanimal,
quando mi dai
piacere e ti prendi il tuo. Come potrebbe essere accarezzare e baciare
il tuo
corpo? Come sei dopo l’amore? Che sapore ha il tuo tatuaggio
sulla schiena? Non
ho cinque anni e se ci penso ancora un po’, potrei cominciare
a bagnarmi…
Ma col cavolo che adesso te
lo dico.
“No.” Ma ansimo.
“Ahahahah.
Bugiarda.”
“Lasciami o mi metto a
gridare.”
“Stai già
gridando.”
“Ma che cazzo vuoi da
me?”
Mi guardi in modo strano.
Forse te lo stai chiedendo anche tu. Avevamo parlato e poi…
Che ti è saltato in
mente? “Quello che vuoi tu da me.”
Non può essere. A parte
che
mi pare strano che mi desideri così su due piedi, se non
perché sei un
puttaniere e ti scoperesti qualsiasi cosa, ma è ovvio che
non hai la più
pallida idea di cosa mi passa per la mente. Non sai che quello che
voglio da te
non è solo una scopata e via: “No. Non
è vero. Non è la stessa cosa.”
“Ah, no? Non vuoi un
po’ di
sesso esotico, una ripassatina, per sfuggire alla tua routine di
merda?”
E così tu ti risparmi di
pagare la parcella alle tue zoccole castane, per stanotte?
“No.”
“E allora cosa?”
“Che mi
lasci...”
“Rispondi,
prima.”
“No.”
“Dimmelo… e ti
lascio.”
“No.”
“Stiamo qui tutta notte,
per
me…”
“Lasciami.”
“No. Dimmelo.”
“Vorrei
che…” mi manca il
fiato. Devo proprio dirlo?
“Cosa?
Dillo…”
Devo proprio dirtelo?
“Vorrei che…
che tu mi
amassi, come… come ti amo io.”
Abbasso gli occhi e
arrossisco. Ecco, l’ho detto. Ti sto chiedendo troppo,
decisamente, ma è la
verità. Non posso fare a meno di confessartelo, Shan. Se non
lo dico a te, a
chi lo dovrei dire? Ma so anche che non sono ricambiata, non
può essere. Non è
possibile che tu possa amarmi, nemmeno per un momento. A te piacciono
le brune
anoressiche minorenni, possibilmente mulatte o giapponesi, non le madri
di
famiglia con troppi problemi di autostima. Ed è ovvio,
è naturale. Anche perché
se tu adesso, in quest’istante, dicessi di amarmi non ti
crederei un momento.
Lo vorrei con tutto il cuore, ovviamente, ma non è
contemplato che esca un ‘Ti
amo’ da quella tua splendida bocca. Dopo un’ora di
ascensore e due parole
inutili, proprio no. Una volta credevo nell’amore a prima
vista ma ora… ci
credo solo perché lo scrivo nelle fanfinction. In
realtà non può esistere, in
realtà tutte le volte che l’ho provato
è perché l’ho sentito io, non
l’oggetto
del mio amore. Quindi non può essere vero nemmeno con te.
L’unico amore che ho
avuto ricambiato, quello di mio marito, non è
stato un colpo di fulmine, ma un amore fin troppo
‘pensato’. E allora
mollami: “Ma so… che non è
possibile… e quindi… LASCIAMI!”
Te lo grido in faccia,
mentre tu mi fissi perplesso per quello che ti ho detto. Non
sarà la prima
dichiarazione d’amore che ricevi, spero. Poi mi sorridi,
sarcastico: “Non
esiste nella vita reale, l’amore con
Ah, se è per quello me
li
scrivo pure, come piacciono a me, oltre che a leggerli, i mielosi
harmony. E ce
li scambiamo tra amiche, tra fottute romantiche innamorate
dell’amore, che si
cullano in amori impossibili per scordare le amarezze e le troppe
sconfitte
della vita. Eh sì: mi hai detto che sono una cretina, in
fondo, e devo dire che
hai perfettamente ragione. Ma il tuo cinismo non mi piace, mio principe
azzurro
caduto da cavallo. In fondo che ne sai, tu, dell’amore con
“Ma cosa ti importa della
mia vita? E nella tua sì?”
Esito a rispondere. Non lo
so. E’ lui il mio amore? E può essere amore se non
è ricambiato? Non voglio
rispondere. “Non sono affari tuoi!”
“Due secondi fa hai detto
che amavi me e ora non sarebbero affari miei? Mi sembri
matta...”
Beh, in effetti sono
confusa, ma i tuoi occhi da gatto, il tuo fiato sul viso e i muscoli
del tuo
petto contro il mio seno non aiutano certo la concentrazione e la
linearità di
discorso: “Ma… insomma, lasciami. E chiedi
scusa.”
Ti metti a ridere: “No,
non
chiedo scusa, perché quel che ho detto è
vero.”
Hai ragione. Lo so che hai
ragione. E stupida io a cacciarmi in questa situazione. Mi lasci andare
e io
corro a sbloccare l’ascensore e recupero borsa e sandali da
terra. Poi mi metto
in un angolo. Ma perché questo cazzo di ascensore non va
più veloce?
Non so più cosa dirti:
ti ho
dichiarato il mio amore e ora rimaniamo a guardarci di sottecchi, io
imbarazzata e tu indifferente, e poi arriviamo al piano terra e le
porte si
aprono.
“Addio.” Ti
dico, quasi
senza guardarti in faccia. Esco e me ne vado di corsa, lungo il
corridoio,
senza girarmi, e ti lascio con il portiere che ti chiede scusa, piegato
a
novanta gradi in una ridicola riverenza. Il taxi aspetta da
più di un’ora, a
lato dell’entrata. Mi rendo conto solo quando salgo che sono
senza fiato e
scalza.
Allora mi aggancio i sandali
mentre il taxi parte e ti vedo uscire sul marciapiede davanti
all’albergo.
Sospiro. Vabbè:
è andata
così.
Shannon si farà due
risate
di cuore con suo fratello quando gli racconterà della
cretina-sposata-casalinga-disperata-innamoratacotta-di-lui-come-una-adolescente.
Poi quando gli dirà che si era pure offerto per una
compassionevole scopata
gratis e la cretina ha rifiutato,
Jared cascherà per terra dal ridere e si
riprenderà forse dopo mezz’ora. Per
non parlare di quando gli dirà che mi atteggiavo ad esperta
di musica… OK. Sarà
il prezzo che ho pagato per conoscerti.
E comunque c’era da
aspettarselo. Lo sapevo, dai… di cosa dovrei stupirmi? Ti ho
avuto per un’ora,
da solo. Ero pure vestita bene, tanto da sembrare carina, e per una
volta nella
vita potevo non vergognarmi del mio aspetto. Potevo anche fare finta di
piacerti. Dopotutto avresti anche voluto scopare con me, tanto da
chiedermelo.
O forse scherzavi? Per mettermi in imbarazzo?
Poi mi hai detto che sono
una stupida romantica. E’ vero, non ne ho dubbi. Non
scriverei sdolcinate
fanfiction su di te e sul mio amore per te, se non lo fossi. Non me ne
vergogno, sai: mi vergognerei di più a non credere
all’amore e a non sentire
più nulla. Da buona romantica avrei voluto che mi cadessi ai
piedi, ovviamente,
con un fulminante amore a prima vista.
Poi ti ho baciato, mi hai
baciato. Mi tocco le labbra. Oddio, mi hai baciato. Ho ancora la tua
saliva in
bocca.
Ho sentito il tuo sapore e
il tuo odore.
Ho sentito le tue braccia
stringermi e il tuo corpo contro il mio.
Ho sentito che non ho mai
amato nessuno come amo te.
Ho sentito che non mi ami e
non lo farai mai. E non posso costringerti ad amarmi. Non si
può. Non è
destino.
Ho avuto tutto come avrei
desiderato? Forse no.
Ma ho avuto come non avrei
mai pensato.
Certo.
Ma il mio cuore ora è
spezzato.
Per sempre.
Perché non ho il tuo
amore,
ma solo la tua commiserazione.
Perché non ti
avrò mai.
Perché ti vorrei
più di
prima.
Fine
Questa
è
una vecchia ff, una delle prime che ho scritto (e lo capite anche dalle
descrizioni) e l’ultima che pubblico. Per tanto tempo
l’ho tenuta nel cassetto,
indecisa sul da farsi, ma oggi ho deciso di pubblicarla e solo ed
esclusivamente
per ringraziarvi e salutarvi. Ringraziare le tante persone che mi sono
state
vicine in questi tre lunghi anni in cui ho scritto ff sui 30 Seconds to
Mars. E
salutarvi con affetto: forse ci rivedremo ancora, magari non qui (dove
scrivere
ha ormai perso di senso, viste le tante scopiazzature tra ff che vedo).
Magari
non appena uscirò dal limbo in cui sono caduta,
metterò davvero mano al mio
primo vero libro.
Alcune
persone voglio citarle, però, una per una, con il loro vero
nome, perché sono
persone assolutamente speciali, per me, ognuna a modo loro.
Sonia
(Folleria)
ed Alessandra (Tannaca): senza la vostra presenza e il vostro
incoraggiamento
non avrei mai iniziato. E senza i vostri sorrisi non sarei mai andata
avanti. Senza
la vostra carica non andrò avanti. Ma so che ci siete e mi
basta. Vi voglio un
mondo di bene, anche se non sempre sono brava a dimostrarlo.
Claudia
(Aglaja): la nostra anima tormentata e dannata è stata
suddivisa in due corpi
distinti. Ma ci siamo trovate qui. Per favore, ti supplico, continua a
scrivere. Devi farlo, anche se rende soli e fa male. Ma è il
destino degli
scrittori, cosa che tu sei.
Valentina
(FallenAngel): questa ff ho deciso di pubblicarla solo
perché so che ti fa piacere
leggerla. Per cui è dedicata a te. E a te soltanto. E sai
anche perché.
Sara
(Artemide): guardarsi e capirsi in un baleno, con un gesto, una parola
o un sms.
Queste siamo io e te. Inesorabilmente lontane ma sempre assolutamente
vicine.
Lori
(Candidalametta): sorellina cara, so che ti ho delusa, ma non me ne
avere.
Niente intacca l’enorme affetto che ho per te, nemmeno il mio
“brutto
carattere”. Spero di rivederti presto, abbracciarti e
stringerti.
Monica
(PrincesMonica): socia. Sei tutto per me e lo sai. Non cambiare mai
quello che
sei. Non lasciarti intaccare da chi è cattivo e
superficiale. Sei unica, sei
una perla rara. E io ti voglio bene.
E
poi
tutte le ragazze (e sono state tante e tante) che hanno messo le mie ff
tra le
preferite e le seguite, che hanno recensito, commentato, complimentato,
votato in
tutti questi anni e ancora continuano a farlo e di cui non faccio
l’elenco
perché non sarebbe esaustivo. Siete tutte nel mio cuore.
Nessuna esclusa.
E
per
ultimo vorrei spendere un pensiero anche per LUI, non dico nemmeno il nome, tanto sapete di chi
parlo, per il quale
non trovo parole, ma uso quelle di Ligabue riadattandole. Tu e solo tu
‘ti sei
preso il mio tempo, ti sei preso il mio spazio, ti sei preso il mio
meglio…’ ma
quando ho tentato di dirtelo non hai capito. E questa cosa e tante
altre mi hanno
distrutto, hanno distrutto Shanna e fatto crollare tutto il mio intero
mondo,
tutti i miei sogni, le mie speranze, la mia intera vita. Se questo
è un bene,
ancora non lo so, probabilmente sì, visto che nulla accade
per caso, ma ora
devo ricostruire tutto quanto. Senza di te.
Con
affetto, un bacio a tutti.
Shanna.