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Autore: shanna_b    28/09/2010    10 recensioni
Nello spazio di una breve ora, sessanta minuti, tremilaseicento secondi, può succedere la cosa più meravigliosa al mondo e anche quella che ti spezza il cuore per sempre... Per sempre...
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un’ora sola ti vorrei…

 

Io che non so scordarti mai
per te darei la vita mia
per dirti quello che non sai...

Un'ora sola ti vorrei
io che non so scordarti mai
per dirti ancor nei baci miei
che cosa sei per me.

Un'ora sola ti vorrei
per dirti quello che non sai
ed in quest'ora donerei
la vita mia per te.

Io non vedo il mondo
quando penso a te
vedo gli occhi tuoi nei miei.
Ma se non mi vuoi
non è niente, sai,
la vita mia per me.

Un'ora sola ti vorrei
io che non so scordarti mai
per dirti ancor nei baci miei
che cosa sei per me.

Ed in quest'ora donerei
la vita mia per te.

 

Mia nonna cantava spesso quella vecchia canzone.

Mentre lavava i piatti o coglieva i fiori in giardino. Non era particolarmente stonata, ma non si poteva dire che avesse una gran voce. La cantava piano, come sussurrata, come se le parole che dicesse fossero troppo forti, per una vecchia signora di ottant’anni con i capelli bianchi raccolti in una crocchia sulla cima della testa e un vestito a fiorellini.

Ma cosa poteva essere una frase come “Un’ora sola ti vorrei, per dirti quello che non sai…” in confronto a certe canzoni piene di sproloqui o parolacce come quelle di oggi? Non diceva niente di strano se non esprimere un desiderio. Un sogno forse quasi impossibile a realizzarsi.

Chissà perché era la sua canzone preferita.

Chissà a chi pensava quando la cantava. A sua mamma? Al nonno? Ad un uomo che non aveva mai incontrato? Ad una persona alla quale non aveva mai parlato?

Non gliel’ho mai chiesto.

E chissà perché mi è venuta in mente ora mentre sto scrivendo: forse perché in realtà la cantava per me?

Per dirmi che, nello spazio di una breve ora, sessanta minuti, tremilaseicento secondi, può succedere la cosa più meravigliosa al mondo e anche quella che ti spezza il cuore per sempre?

Non lo so.

Ma così è avvenuto.

 

 

*******

 

 

Mi guardo e riguardo allo specchio. Faccio una, due, tre giravolte e comunque non mi capacito.

Ma sono davvero io, quella riflessa, o in realtà ho davanti lo specchio del luna park? Vabbè che sono stata due ore dal visagista, due dal parrucchiere e una dalla sarta, ma… pare un miracolo!

Mi tocco i capelli, stando attenta a non spettinarmi: ma che accidenti di acconciatura mi ha fatto, quella parrucchiera matta? I miei lunghi capelli ricci e scuri sono diventati un acrocchio stranissimo, a metà strada tra il chignon di mia nonna e la pettinatura che ha Madonna in “Cercasi Susan disperatamente”, quando li ha raccolti. Non che stia male, anzi. Qualche ricciolo mi scappa, ad arte, ai lati del viso, dietro e sulla fronte e il collo e le spalle bianche risaltano molto. Posso dire che i cento euro che mi è costata valgono tutti. E questa pettinatura da gran sera è perfetta per il vestito che indosso.

Me lo sono fatta fare apposta, su un modello che avevo in mente da tempo: è stretto nella parte alta, con una scollatura non troppo accentuata e maniche lunghe, che partono strette e poi vanno larghe, e poi scende svasato, lungo fino ai piedi.

E’ di un tessuto che assomiglia alla seta.

Nero. Il mio colore preferito.

La sarta ha fatto un ottimo lavoro: mi sta alla perfezione, anche perché sono snella e proporzionata, per fortuna. Non posso permettermi scollature generose, vista la mancanza di un decoltee adeguato, né minigonne vertiginose, visto che ormai non ho più vent’anni, ma devo dire che è di classe. Mi piace molto.

Non sono una bellezza, quello no: ma il visagista mago ha fatto la sua magia. Per una sera posso dire di sembrare bella: sarà grazie al fatto che il truccatore ha accentuato i miei due begli occhi azzurri dalle ciglia e sopracciglia nere e la mia bocca ben disegnata. Quanto è che mi ammiro allo specchio? Troppo, mi sa… guardo l’orologio e vedo che però non sono poi così in ritardo.

Mio marito è già andato alla festa al Ministero dell’Ambiente, neo-eletto deputato, mentre io sono ancora qui che bighellono per la nostra stanza di un albergo tre stelle dietro al Viminale, a Roma. Se prendo un taxi nel giro di dieci minuti, direi che sono in tempo perfetto. Sono solo le venti e la festa inizia attorno alle nove.

Prendo i sandali dalla loro scatola: hanno dodici centimetri di tacco a spillo e sono bellissimi, neri, con dei minuscoli brillantini applicati sopra. E sono in pendant perfetto con la mia borsetta nuova. Li indosso e quasi mi par di cadere per terra: sono altissimi per me, che di solito giro in scarpe basse; ma mio marito è alto quasi un metro e novanta e non posso, in questa sera così importante per lui, sembrare la sua moglie nana. Con i tacchi, almeno viaggio attorno al metro e settantasette e non sfiguro così tanto.

Metto due cose in borsetta e sono pronta. Non mi servono giacche o scialli perché siamo in maggio e a Roma è caldo. Esco dalla stanza e mi chiudo la porta alle spalle. I miei passi sono silenziosi sulla moquette azzurra del corridoio dell’albergo. Per un momento mi pare di essere una modella in passerella e mi rendo conto che se voglio stare in piedi su quei trampoli, l’unico modo che ho è sculettare leggermente, in modo da passare il peso da un piede all’altro. Difficile, ma spero di resistere un paio d’ore, almeno, prima di collassare da qualche parte con i piedi in fiamme.

Arrivo all’ascensore e premo il bottone per chiamarlo. Siamo al sesto piano. Per nulla al mondo farei le scale a piedi rischiando di incespicare sulla corsia di tappeto che c’è sulle scale e finire a gambe all’aria, e quindi aspetto con calma che arrivi.

Salgo non appena si aprono le porte. E’ vuoto.

Mi giro verso la porta dell’ascensore aperta per scegliere il piano e premere il pulsante, quando qualcuno si catapulta dentro di corsa prima che si chiudano e non l’avevo visto prima, non so se mi seguisse lungo il corridoio.

Resto con la mano sollevata, come se fossi congelata.

E non posso credere ai miei occhi.

Shannon Leto.

“Aspetta, aspetta...” Mi dice, trafelato. Ah potrei aspettare anche due giorni, visto che non mi risponde più nessun muscolo del corpo e ho il cuore in gola. Devo avere un’espressione ebete al massimo, mentre lo guardo e gli faccio una radiografia seduta stante.

Dio mio se non è bello! Al solito non è vestito benissimo  (giacchetta in pelle sopra una maglietta consunta e pantaloni scuri, scarpe da ginnastica, berretto in testa) ma sarebbe sexy anche se avesse il solo sacchetto della Despar infilato addosso… forse anche di più…

“A che piano vai?” Piano? Cos’è un piano? Improvvisamente realizzo che mi sta chiedendo di schiacciare qualche bottone e non di suonare una sinfonia di Chopin al piano.

“P-piano terra.” Sì, terra… Terra chiama Marte…

“Pure io.” Schiaccia lui per me, anche perché non so nemmeno dove mi trovo e nella pulsantiera è facile che ci inserisco i numeri del bancomat invece di scegliere il piano. Quando allunga un braccio davanti a me per arrivare alla pulsantiera, sento il suo profumo, mentre le porte si chiudono lentamente.

“G-grazie” gli dico, girandomi verso di lui. Di che non so, e lui mi sorride, sornione, fissandomi per un attimo. Spero ardentemente che non legga il pensiero e che non scopra che sono una sua fan accanita e che so a memoria la composizione della sua batteria. La sua pagina di wikipedia italiana l’ho scritta io, sotto uno dei miei tanti nickname. Ho almeno due GB di sue foto, un calendario favoloso self-made con le sue foto appeso in ufficio, una invidia allucinante per la giapponese che si scarrozza in Ducati per Malibù e gli ho dedicato pure un tribute su youtube. Ricambio con un sorriso rimbambito: starà pensando che in Italia hanno aperto i manicomi e i matti li hanno trasferiti tutti negli alberghi tre stelle di Roma.

Tre stelle??? Che cazzo ci fa lui in un tre stelle?? A Milano non alloggiava al super mega lussuoso Park Hyatt?? Glielo chiedo? Meglio di no.

L’ascensore si avvia con un rumore che mi pare un po’ sinistro, mentre ho i neuroni impallati, il cuore a mille e la solita espressione ebete per la serie che-cazzo-ci-faccio-qui. Gli sorrido nuovamente, arrossisco e abbasso gli occhi a guardare la borsetta che ho in mano.

Vorrei essere da un’altra parte.

No.

Forse no.

Va bene qui.

Ma tra trenta secondi arriviamo al piano terra e addio.

Vorrei che si fermasse tutto e vorrei avere un po’ più di  sicurezza.

Vorrei avere la faccia come il culo per dirgli le solite boiate di circostanza che si dicono agli sconosciuti in ascensore.

Vorrei non essere cotta così di lui.

Vorrei essere una gnocca galattica da interessargli almeno  un pochino e non una racchia qualsiasi.

Vorrei che non mi guardasse in quel modo, come se stesse aspettando che gli dica qualcosa. Non so perché ma mi sta facendo lui una radiografia. Si starà chiedendo se sono la cameriera?

Vorrei sentire le mie gambe ferme, non tremare come fanno ora, come foglie al vento. Potrei cadere dai tacchi. (A proposito: sono più alta di lui… è vero che è piccolino… me l’ero sempre immaginato alto, invece è proprio basso…)

Vorrei non sentirmi come Fantozzi, color rosso pompeiano, lingua felpata e salivazione azzerata.

Vorrei troppe cose e tutte insieme.

Vorrei non sentire questo strano rumore e avvertire  l’ascensore che si ferma bruscamente e non è arrivato a destinazione. Oppure sì?

“Che cazzo succede!?” lo sento esclamare.

L’ascensore è bloccato.

E in pochi metri quadrati ci siamo solo io e Shannon.

E non so per quanto.

Ci scambiamo un’occhiata allarmata.

“Soffri di claustrofobia?” mi chiede, sorridendo, mentre mi guarda la scollatura del vestito.

“N-no.” E arrossisco.

“Nemmeno io. Meno male.”

Poi schiaccia il pulsante d’allarme. Tranquillo come se restasse chiuso in ascensore due volte al giorno, prima e dopo i pasti.

“S-siamo bloccati qui?” Ma, cazzo, perché balbetto??

“Eh già.” Si mette le mani in tasca, scuotendo le spalle, indifferente, e ‘sto giro mi guarda dalla testa ai piedi.

Eh-già? EH-GIAAAA’??????? Eh già un corno! Non soffro di claustrofobia ma essere chiusa qui con te non mi piace proprio, caro il mio Shanoronzo!! Mi verrebbe da prendere la porta a pugni per uscire. “E… cosa si fa?” Chiedo, schiarendomi la voce, imbarazzata, mentre già mi pento della domanda, temendo la risposta (troppe fantasie sull’ascensore rotto in generale e su di te? Sonia, amica mia psicologa, aiuto!!!).

“Non so. Aspettiamo…” Ti sposti e poi ti metti a braccia incrociate appoggiato sulla parete al lato della porta e mi fissi nuovamente. “Ti chiami?”

Boh… chi se lo ricorda… me ne invento uno? No, posso dirgli quello vero, tanto… cazzo cambia? Glielo dico.

“Io mi chiamo Shannon.”

“Lo so.” ‘AZZO, MI E’ SCAPPATO!! Collegare prima il cervello, no eh?

“Eh? Lo sai?”

“Ehmmm… s-sì.”

“E come fai a saperlo? Ci conosciamo?”

“Ehmmm. No, cioè s-s-sì. Cioè io, non tu, cioè tu non mi conosci, ma io sì, cioè non di persona, cioè…” A quanti ‘cioè’ sono? Millesettecento? Temperatura superficiale delle mie guance? Dieci milioni di gradi Kelvin? Bene… potrei produrre un processo di fusione atomica reazione-protone-protone così su due piedi.

Mi togli dall’imbarazzo: “Sì, ho capito. Sai chi sono ma non ci siamo mai incontrati.”

Era tanto semplice, perché non ci ho pensato? “Esatto.”

“Ok.”

Sì, più o meno: la conversazione con uomini di cui sono cotta non mi è mai venuta bene, penso nemmeno stavolta, e di solito, dopo le presentazioni, non so più cosa dire: “Ok.” Infatti.

“Allora conosci i 30 Seconds to Mars?”

Eccome, no? “Sì.”

“Bene. E ti piace la nostra musica?”

Oddio santo. Mo’ che gli dico? “No, cioè sì…”

“NO??” Fai finta di guardarmi male.

“No, ho detto sì, cioè…” Se non la smetto con questi ‘cioè’ mi taglio la lingua da sola. Contegno, contegno. Respiro profondo: “So chi siete e ascolto anche la vostra musica, ma… ehmm… non siete il mio gruppo preferito.”

“Perché?”

Perché siete solo gnocchi da paura ma non sapete suonare, specialmente i due chitarristi e per me non c’è rock senza chitarristi validi. Glielo dico? Mmmmhhhh. La diplomazia non è mai stata il mio forte, potrebbe scapparmi, devo stare attenta. Meglio di no, aspetta che mi metto in forma ‘intenditrice di musica on’: “A me piace il progressive rock, non l’emo… o qualsiasi cosa sia la vostra musica…”

“EMO? NOI? Ma per favore, chi cazzo è che dice ‘ste stronzate? Progressive rock? Interessante. Chi?”

“Ehm… Coheed and Cambria.”

“Davvero?”

“Sì.” Alzo leggermente il bordo della gonna e ti mostro la caviglia sinistra con il tatuaggio della libellula, simbolo dei Coheed and Cambria. Non so perché, ma mi viene spontaneo. “E’ il loro simbolo…” ti dico, arrossendo come se tu ci avessi appoggiato la mano, su quella caviglia, e non solo il tuo sguardo incuriosito.

“Accidenti. Sei presa proprio.”

“Eh sì.” E mi sento anche tanto scema, in questo momento.

Sembri interessato: “Fai vedere meglio.”

Oh nooooooo!! Ti chini e mi guardi la gamba. Mi sono depilata, vero???? Sì e mi sono anche messa dieci tonnellate di crema idratante-abbronzante. Oddio, se mi tocchi casco per terra, non lo fare, ti prego, non lo fare, ti prego, non lo fare, ti prego, no, no… e invece lo fai… Con un dito mi sfiori la libellula e io, con un brivido lungo la schiena da antologia, abbasso la gonna di scatto, mentre tu togli la mano e io ho il cuore in gola.

“Perché non l’hai fatta colorata?” Cosa? La gonna? Ah no, ti riferisci alla libellula. Ti rialzi da terra e ti metti più vicino.

“Perché ce l’hanno così tutti i componenti dei Coheed.”

“Io non ho nessun tatuaggio tutto nero…”

Ma lo so, lo so, inutile che me lo dici… li conosco a memoria i tatuaggi tuoi. Potrei ridisegnarteli ad occhi chiusi. Te li farei uguali e nella stessa posizione. Mo’ che gli dico? E cosa mi scappa se non un: “Lo so.”? Certo, proprio quello. E convinto, anche.

“Ah. Sai pure questo. Dimmi… cosa NON sai, di me?”

Urka… non mi sono fatta la lista, ma potrei improvvisare: non so come sei appena sveglio al mattino in mezzo alle lenzuola sfatte, non so come fai l’amore, non so se sei spericolato in Ducati, non so… non so… non so se quella tipa che ti scorrazzi in giro per  Malibù è la tua ragazza o se lo fosse una di quelle due con cui ti hanno visto in macchina a Monaco… e mi piacerebbe saperlo.  Così, come informazione, per cultura generale, tanto sono già gelosa marcia di tutte/tutti, perfino del postino che ti suona alla porta di casa, una in più o in meno non cambia. Ma ti risparmio la lista e mi limito ad un: “Dai… non mi prendere in giro. So solo quello che si dice su internet…”, poi sorrido e abbasso gli occhi.

Sono scema, no? Possibile che non te ne sei ancora accorto? Ti metti a ridere e ti avvicini ancora di più: “E’ vero. Le stronzate che girano su di me sono tante… e quasi tutte false.”

Mi tocco il viso, imbarazzata da quella vicinanza, mi rendo conto che sono appoggiata ad un angolo dell’ascensore e tu sei davanti a me a meno di mezzo metro, torreggio sui tacchi e sono più alta di te, ma mi fai una discreta paura: “Beh… io… penso che sia inevitabile. Se non si sa, si inventa.” Sapessi quante me ne sono inventata io nelle fan fiction, su di te… ti ho perfino fatto cicatrizzare da una strega boliviana e quasi mi verrebbe da controllare se la cicatrice ce l’hai veramente.

“Ma non è giusto…” Lo sussurri, quasi, mentre mi guardi le labbra, che il visagista mi ha fatto color rosso sangue, indelebili, e io ricambio guardando le tue. Sì, sì, continua a sussurrare così e mi prende un attacco di panico. Butto giù il soffitto dell’ascensore con una testata e poi mi arrampico a mo’ di scimmia sui cavi, come nei film.

Quanto è che siamo qui chiusi? “C-che ore sono?” Ti chiedo, nel tentativo di cambiare discorso.

Estrai il blackberry da una tasca. “Otto e un quarto.”

SOLOOOOO?????? E io che credevo che fosse già mattina! La questione si fa lunga… E ora? “Ma perché ci mettono tutto questo tempo?” chiedo.

“Chi?”

“Chi deve aggiustare l’ascensore…” Ecchisennò? Babbo Natale? Pronto? C’è Shannon in casa?

“Boh. Non ne ho idea.”

Ma come diavolo fai a essere così calmo? Vabbè, sarà il tuo carattere, il tuo modo di fare nelle emergenze. Ma poi che diavolo ci fai qui? Curiosità alle stelle. Chiedo? Ma sì, via…

“Ma… che ci fai tu qua? In un tre stelle del cacchio, abituato come sei agli alberghi lussuosi, come quello di Milano e…” Accidenti a me!! L’ho fatto di nuovo. Quando la smetto di dire che so tutti i cazzi tuoi?

Infatti ti metti a ridere come un matto mentre io mi sento il cuore il gola e divento rossa nuovamente. “Sai anche che numero di stanza avevo, per caso?”, chiedi.

Ehmmm… No, ma mi sarebbe piaciuto. Ma così, per giocarlo al lotto, mica per altro. E aggiungerei anche che avrei potuto fare il tappetino del bagno di quella stanza, senza batter ciglio, per te. “Scusa…”

“Di che?”

“Sono stupida, lo so…”

“Ma no. Sei divertente.”

Certo. Mi chiamo ‘pagliaccia’ di secondo nome. E faccio il clown al circo come secondo lavoro: “Sono cose che mi hanno raccontato…”

Fai spallucce e sembri un bambino: “Vabbè, che problema c’è? E’ quello il motivo per cui alloggio qui… Siccome il mondo intero sa che di solito stiamo al più lussuoso hotel della città e ci sono le echelon fuori ad ogni ora del giorno e della notte, abbiamo deciso di separarci in hotel diversi e meno lussuosi in cui non possano trovarci… e infatti qui fuori non c’è nessuno, finalmente…”

Accidenti, che gatti che siete!! Ma così non avete il concierge che vi porta le barbie d’alto bordo bionde e brune e tutto il resto… come farete a sopravvivere? “No, dai… scherzi...”

“No. E’ vero. Però…”

“Cosa?”

“Tu non devi dirlo in giro…”

IO? Ma se sono la Mata Hari dei poveri? Mai potrei tradire la tua fiducia, anzi potrei morire qui e portare questo segreto indicibile in tomba con me, specialmente ora che ti sei avvicinato ancora e mi hai messo una mano sulla spalla.

“N-no, certo…” Ma non capisco dove ho trovato il fiato per risponderti.

“Brava.” Togli la mano e poi dici: “Beh, mi sono stufato e ora mi siedo per terra.” E ti metti giù nell’angolo opposto, con la schiena appoggiata alle pareti, ti togli il berretto e ti apri la giacca in pelle. I tuoi capelli sono tutti spettinati e, al solito, ti stanno alla supersayan e la tua maglietta è una di quelle consunte, ma mi pare di vedere i tuoi pettorali, sotto. Ahimé: queste visioni non fanno bene alle mie cellule cerebrali. “Dai… siediti anche tu… qui…” e mi fai segno con la mano destra di sedermi vicino a te.

Eh sì, come no, nei miei sogni più folli, forse. “Ma…”

“Mi pare pulito. Vedrai che non ti sporchi il tuo bel vestito da gran sera, dai…”

Ah già… dovevo essere in taxi, io a quest’ora… diretta alla festa… e mio marito sarà là che si chiede dove cavolo sono finita. Il problema è che me lo ricordo solo ora, di avere un marito e una festa in pieno svolgimento a cui andare!

Prendo il catorcio del mio telefonino e provo a fare il numero di mio marito, ma il segnale è inesistente: “Accidenti…”

“Che c’è?”

“Dovrei avvisare mio marito ma il cellulare non prende.”

“Beh, si sa…”

‘Si sa’? Cosa? Che dovrei avvisare mio marito o che il cellulare negli ascensori non prende? Lavori alla Telecom, a tempo perso? “Oh, noooo… non arriverò mai in tempo!”

“Dove stavi andando?”

“Ad una festa.”

“Sì, quello lo avevo capito. Non penso che vai a visitare il Colosseo vestita così...”

E tu che ne sai? Potrei essere un’eccentrica miliardaria e lavarci i piatti, con un Valentino da ventimila euro addosso. “Al Ministero…”

“Accidenti. Nei palazzi del potere…”

“Già, anche se preferirei andare da un’altra parte…” Ad un tuo concerto, per esempio. A proposito: “Ma tu non hai il concerto, stasera? Cioè, adesso…”

“No. Domani sera.”

Ma oggi che giorno è? Ah sì. Avevo anche pensato di poter venire al tuo concerto di Roma, ma domani pomeriggio ho il treno e non potrei esserci e comunque nessuna mia amica viene, questa volta: “Ah. OK.”

“Ma non penso che suonerò, domani…”

“Perché?”

“Perché mi verrà un torcicollo espresso, se non ti siedi…”

Touchè. Anche se mi verrebbe da dire che potresti fare anche a meno di guardarmi da sotto in sù… con quegli occhi, poi… E poi la fai facile, tu, che sei in pantaloni. Come ci si siede per terra con un vestito da sera e tacchi da dodici centimetri senza stramazzare al suolo? Non sono molto convinta di riuscirci. Ci penso un attimo e poi prendo dalla borsetta un fazzoletto di carta e lo stendo nell’angolo adiacente a quello dove è seduto Shannon, sulla sua destra. E adesso? Appoggio la borsetta per terra, mi accuccio e centro con il sedere il fazzoletto, allungo le gambe e poi mi metto a sistemare la gonna attorno in modo che non si spiegazzi tutta. Ho occupato quasi tutto il pavimento dell’ascensore. Mi tolgo anche i sandali, sennò mi si ammacca il tacco a star seduta così.

Ovviamente non hai perso una mossa e ti ho visto mentre mi sbirciavi il sedere e sotto la gonna. Porco. E ora mi sorridi e annuisci: “Così va meglio…”

Andrà bene per te: a me sembra di essermi seduta su un formicaio. “Insomma…” dico, mentre noto dei peletti bianchi sulla moquette per terra che sicuramente finiranno attaccati alla mia gonna nera e, quando uscirò dall’ascensore, sembrerò passata in mezzo ad un esercito di gatti. Che devo fare? Avvolgermi nei fazzoletti di carta? Sbuffo: “Che palle…”

“Beh, se eri sola qui dentro era peggio, no?”

Poveretto: crede che abbia detto ‘Che palle’ per lui. Non potrei mai. “No, no, non dicevo ‘che palle’ perché ci sei tu, ma perché… beh… arriverò alla festa in ritardo e con il vestito tutto pieno di peli della moquette…” Ma perché fa così caldo qui dentro? O forse è perchè non smetti di guardarmi con quegli occhi che non ho ancora ben capito che colore hanno? Ma sta succedendo veramente che sono chiusa qui con te? Oppure è una delle mie fantasie più folli e in realtà sono a letto e sto scrivendo l’ennesima fanfiction su di te, sul mio portatile? Quasi quasi mi mollo un pizzicotto.

Scuoti una spalla, mentre pieghi un ginocchio e ci appoggi sopra un braccio, a tuo agio, rilassato: “E che ti importa?”

Mi importa: se ti dico che è la prima volta in vita mia che mi metto un cazzo di vestito da sera che fai? Muori dal ridere, scommetto, meglio se non sai la mia situazione da cenerentola di provincia: “Sembrerò una zingara… ritardataria.”

“Non ci puoi fare niente, no?”

Beh… non ha tutti i torti, ma io sono Miss Perfezionista e il ritardo non è contemplato nel mio dizionario e nemmeno i peli sul mio vestito nuovo. “Mio marito mi ucciderà…”

“Ma no… posso testimoniare io che non potevi arrivare prima e che ti sei seduta per terra perché eri stanca.”

Oh mio adorato cavaliere dalla splendente armatura che corre in aiuto di una damigella in difficoltà… Grazie ma… Direi di no. Mio marito potrebbe uccidere anche te, visto che sa che non faccio altro che sospirare sulle tue foto e ti odia a morte: “Meglio di no.”

“Non mi crederebbe?”

Sì, sì, ti crederebbe, dopo averti tirato un pugno sul naso. “No. Ucciderebbe anche t…” Accidenti. Ma perché non me ne sto zitta??

Rifai le spallucce: “E perché? Mica ho fatto niente e poi non mi conosce, non ha motivi.”

Certo che ti conosce: ti chiama ‘Kiltman’, ‘l’uomo dalla frittata facile’, ‘quella checca’, ‘quell’imbecille’, ‘quel batterista di merda’ e tanti altri simpatici e divertenti (per mio marito) nomignoli… ah sì, anche ‘puttaniere pedofilo’: “Beh… invece sì.”

“Pure lui?”

“Eh, già.”

“E come mai?”

Ma, per illuminazione divina, credo: “Gliene parlo io…” Oddio come mi sento cretina. Presto una scusa, devo trovare una scusa…

“EEH?” Ti metti a ridere per l’ennesima volta e mi guardi con le sopracciglia aggrottate.

“Sì, quando si parla di musica… ehmm… di batteristi…”

“Di batteristi?”

Sì, possibilmente semi-svestiti. “Sì.”

“E cosa gli dici? Gli parli di come suono?” Per la serie, ma che cazzo, donna, ma cosa ne sai di batterie tu?

“Sì, che usi la doppia cassa, per esempio, e che suoni anche la batteria elettrica e… i bidoni della spazzatura, quando ti esibisci con gli Street Drums Corps.”

So tutto, tutto!! E tu ridi nuovamente: “E’ vero. E lui che dice?”

Niente, semplicemente che suoni di merda, anche se non ha mai sentito nessuna delle tue canzoni, ma schifa a priori. Mentire, mentire: “Niente, non gli piace come suoni. Il suo batterista preferito è John Dolmayan dei System of a Down.”

“Beh, non si può dargli torto…”

“Direi di no.”

“John lo conosco di persona. E’ anche simpatico, tra l’altro. E il tuo?”

“Il mio batterista preferito?” Tu annuisci. Adesso sì che sono in panico. E nei guai. Sono certa che dirò qualcosa di sconveniente. “Beh… non ce n’è uno soltanto…” Mi sposto il ricciolo che mi cade sulla fronte per prendere tempo, mentre tu mi guardi fisso. “Ehmmm… A me piacciono Tre Cool, Joshua Eppard, Josh Freese, David Carey, Gartdrumm... e anche quello dei Muse, Dominic qualcosa…” Imparassi tu un po’ da ognuno di loro, saremo a posto.

Adesso mi guardi moooooolto strano: “E io?”

Tu ‘cosa’? Non vorrai che ti dica che sei un grande batterista, vero? Nemmeno per sogno. Gnocco sei, ma suoni così così e potresti fare molto di più. Faccio finta di non avere capito: “Cosa?”

“Io non ti piaccio?”

URKA CHE SI’ CHE MI PIACI, specialmente quando suoni con il kilt, perché se uno è macho in kilt figurarsi senza… beh anche quando suoni in bermuda, senza maglia e con i calzettoni a righe sei sexy e pure quando sei vestito Dolce&Gabbana al blood ball e quando hai la camicia a quadretti e anche con il cappellino nero con la piumetta e nonostante ti sia recentemente rifatto i fori per gli orecchini devo dire che…

“Pronto? Ci sei?” mi dici, passandomi una mano davanti agli occhi… Acc… mi ero lasciata prendere dalle mie visioni di te, non mi bastasse che sei stravaccato qui per terra davanti a me.

“C-cosa?”

“Io non ti piaccio come suono?”

Sì, meglio che specifichi cosa vuoi sapere, sennò parto di nuovo con il mio filmetto. Ma ora… CHE CAZZO TI DICO? “Ehmmmm… No, cioè sì… Ehmmmm…”

“No o sì?”

Arrossisco e mi gratto una guancia: “Beeeeehhh, Ehhmmm… Iooooo… cioè…”

“Dimmi la verità, dai…”

La verità? E’ una parola. Sei certo di voler veramente sapere cosa penso di te, musicalmente parlando? “Sicuro?”

“Ma sì, dai…”

“No, dai… lasciamo perdere. Cosa ti interessa della mia opinione?”

“Perché non dovrebbe? Sono un musicista. Mi interessano opinioni sulla mia musica più delle opinioni sul mio modo di vestire… quelle che sento di solito dalle echelon.”

Oddio non mi avrai letto nel pensiero mentre ti pensavo con il kilt, spero… “Non ti servirebbe a niente, la mia opinione, non ha nessun valore…”

“Tu dimmela. Giudico io se ha valore o no.”

D’accordo. Mi hai convinto, te lo dico, anche se sembra che me lo ordini e ti stai scazzando. Non ti piacerà, ne sono certa, lo sento a pelle, ma te la dico: “OK. Tu… potresti fare di più. Molto, ma molto di più. Sei bravo, ma sono gli altri 30STM che non sono bravi come te, che non sono al tuo livello. A partire da tuo fratello e finire con Tomo. Io ti vedrei bene a suonare veramente il progressive rock o anche l’heavy metal, ma in un altro gruppo...” Abbasso gli occhi a guardarmi la borsetta che tengo in mano, mentre tu mi guardi ad occhi spalancati. Ti osservo di sottecchi e mi sembra che cominci a guardarmi male. Mi affretto a continuare: “Vabbé, è una mia opinione. Io… alla fin fine non me ne intendo granché di batteristi…”

“Ma tu mi hai mai sentito suonare?” Mi punti un dito addosso.

Eccome, no? Potrei dire di conoscere la partitura di ‘Valhalla’ a memoria: “Sì. Certo.”

“Dal vivo?”

“Sì, sono venuta a vedervi due volte a Milano. Però mi sembra di non sentire mai l’hit-hat, dal vivo. A Milano non lo vedevo proprio, anzi. Lo usi? Oppure no perché suoni due casse… a dire la verità non sentivo manco quelle… ma solo una.”

A questo punto penso che potresti tirare una saracca, visto che mi stai guardando sempre più strano. Non credevi che sapessi come è fatta la tua batteria e come si suona? Lo so benissimo come si suona: mio figlio va a scuola di batteria e io lo accompagno. E adesso cosa fai? Perché ti alzi di scatto? E ti metti ad armeggiare con il blackberry?

Guardo il mio telefonino. Otto e quaranta. Che tardi! E ancora non prende un cazzo di segnale... ma perché il tuo invece sì?

“Pronto? Non so se vi siete resi conto che c’è qualcuno chiuso in ascensore da più di mezzora. Ah sì? E ALLORA CHE CAZZO STATE FACENDO???!”

Non posso crederci! Hai telefonato all’albergo per sollecitare i soccorsi? Ma allora… il tuo cellulare prendeva anche mezzora fa? Ma… sono confusa: perché ho insinuato che non usi la doppia cassa allora ti sei incazzato e non ti va più bene stare qui, mentre prima sì? No, dai… Devo essere impazzita! Non possono essere collegate queste due cose… ti sei solo rotto di aspettare… Eh sì, deve essere così…

“Non me ne frega niente se solo ora siete riusciti a trovare qualcuno. ADESSO APRITE SUBITO L’ASCENSORE O COL CAZZO CHE VI PAGO IL SOGGIORNO IN QUESTO MERDOSO ALBERGO!!!”

E stai gridando, parlando al telefonino, dando un pugno alla porta, e due secondi fa eri la calma in persona? Mi alzo da terra e mi metto a fissarti ad occhi spalancati, mentre mi spazzolo la gonna che per fortuna ha preso pochissimi pelucchi.

“Quanto? Un’altra mezzora al massimo? Va bene.” Una pausa, mentre ti giri a guardarmi. “Siamo in due. No. Non ci sono problemi…”

Poi chiudi la comunicazione e ti metti l’apparecchio in tasca.

Io rimango a guardarti e continuo a non capire: se potevi chiamare prima perché non l’hai fatto e ti sei interessato soltanto quando stavamo parlando di come suoni? Che poi non ti stavo criticando, stavo solo chiedendo…

Ummmhhh. Mi pare strana ‘sta cosa. Faccio finta di niente e continuo il discorso: “E comunque una volta ho visto un filmato che eri ripreso da dietro durante un concerto e ho notato che il piede sinistro non lo tieni su nessun pedale. Perché? E il tintinnio dell’hit-hat che si sente sul CD come lo fai?”

Non rispondi? OK. Rincaro la dose, adesso voglio sapere come te la sughi: “E poi c’è stata pure una volta in cui hai suonato con una grancassa soltanto, dal vivo per TV. Ma le usi ‘ste due grancasse o no?”

Hai la faccia di pietra e gli occhi di ghiaccio mentre mi rispondi: “Tu non sei la solita echelon, vero?”

“Ehmmm. No. Non sono una echelon: non faccio volantinaggio, né proselitismo, né street team…”

“Però sei il tipo peggiore di fans: quella che segue i gruppi per criticarli ferocemente.”

Ahio, non l’hai presa bene, lo sapevo. Mai criticare i musicisti, sono troppo permalosi: “Direi di no: ho un ascolto critico; volevo fare la musicista, io. Quindi mi piace seguire i gruppi anche per capire come suonano e se suonano bene.” In realtà per me TU potresti suonare anche il triangolo nella banda del paese, non mi interesserebbe granché. Però quello che ti ho detto è vero: potresti fare di più e meglio.

“Certo, certo. E dell’aspetto fisico dei musicisti non ti interessa niente, vero?”

Oopppss… “No.”

“Ti interessi dei 30STM per come suonano, vero? Mio fratello manco lo guardi…”

“Cosa c’entra tuo fratello? Stavamo parlando di batteristi e mi hai chiesto un’opinione a tutti i costi. E questa è la mia. Non capisco perché ti incazzi così e tiri fuori cose che non c’entrano.” Bel discorso. Il problema è che lo faccio con il viso color cremisi e mentre mi rifugio nell’angolo, come se avessi una montagna di cose da nascondere. Il che è anche vero…

Ti metti a ridere e avanzi di un passo: “Scendi dal piedistallo, cara. Sei infognata come tutte le altre che vengono ai nostri concerti, con gli ormoni a palla. Io potrei suonare anche il triangolo e mio fratello cantare ‘Nella vecchia fattoria’… tu verresti lo stesso e non per criticare come suono la batteria.”

Hai fatto centro (e il discorso del triangolo me l’hai letto nel pensiero, sono sicura). E’ vero. Anzi, quasi vero. Non basta dire che sono infognata, io sono proprio INNAMORATA. Ma mi devo creare un alibi, no? “Macché… Non hai capito niente di me.”

“No, no. Ho capito proprio tutto, invece.” Appoggi una mano sulla parete giusto sopra alla mia spalla e ora sei più alto di me perché non indosso i sandali. Io sono spalmata sulla parete specchiata e il tuo viso è a dieci centimetri dal mio.

Sogghigni.

Che ti passa per la testa?

Ti faccio pena, vero?

Mi stai deridendo perché sai che sono solo una stupidina che crede di intendersene di musica e invece quello che vorrei è soltanto quella tua bella bocca sulla mia. E’ che mi devo dare un tono, altrimenti veramente potrei caderti ai piedi. E ho un minimo di orgoglio che mi impedisce di accarezzare quella tua barba sfatta e toccarti quei baffetti che mi fanno impazzire. E togli quel braccio  di lì perché mi sta venendo una voglia matta di infilare la mano nel punto dove la tua giacca si è alzata e si intravede il tuo fianco. “Boh. Pensa quel che vuoi, non mi importa. Ti ho detto quel che pensavo e basta…” Faccio l’offesa e ne approfitto per cambiare discorso. “C-cosa ti hanno detto quelli dell’albergo?”

“Che stanno provvedendo a farci uscire di qui.”

“Che ore sono?”

“Nove meno dieci.”

Ma perché non ti sposti e mi lasci almeno respirare? Per fortuna ti suona il cellulare e allora ti scosti da me, altrimenti divento blu a trattenere il fiato in quel modo.

“Hey. Chiuso in ascensore con una. Sì, quell’albergo di merda.” Mi sa che è tuo fratello che ti cerca. “Un cazzo. Aspetto. Non so per quanto. Vabbè andate avanti… prima o poi arrivo. Ciao.” Avevi anche tu un impegno, una qualche orgia alla quale arriverai in ritardo, a coca finita? Rimetti il cellulare in tasca, mi guardi nuovamente e ti rimetti esattamente come prima. Ma il tuo sguardo avrebbe bisogno del porto d’armi per essere portato in giro, te l’hanno mai detto? E allora io sbotto: “Spostati e basta guardarmi così.”

“Così, come?” Prendi in giro, vero?

“Così e basta. Basta guardarmi. E basta.” Benissimo: un cinquanta percento di ‘basta’ su una frase di poche parole. Ormai come linguaggio sono all’età della pietra, ma sto temendo che succeda qualcosa, qui dentro. Non so bene cosa, però. Il fatto è che hai scoperto quasi tutti i miei altarini in un secondo e ora non sappiamo più cosa dirci. Parliamo del tempo? Se è per quello è già da un po’ che sento un vago odore di tempesta.

E non solo quello: adesso c’è anche qualcuno che smartella furiosamente da qualche parte. I soccorsi?

Restiamo in silenzio, mentre io conto le martellate guardando la moquette per terra, con l’imbarazzo alle stelle e tormentandomi un’unghia. Non ho il coraggio di guardarti in viso, non voglio vedere che espressione hai. Mi verrebbe voglia di finire sotto la moquette dell’ascensore, di mimetizzarmi, di diventare invisibile.

“Ma davvero pensi quello che hai detto?” Mi chiedi, ad un tratto, quasi sussurrando.

“Cosa?” Delle migliaia di cagate che mi frullano in testa?

“Che sono bravo?”

Ti guardo negli occhi, quasi offesa: “Ma certo che sì.”

“Davvero?”

Ma la conferma la devi proprio volere da me? Peggio per te: “Sì. Sei bravo e anche se sei bello, sei bravo comunque. E non te lo dico solo perché sei bello, ma perché sei anche bravo e basta. Saresti bravo anche se non fossi bello, insomma. E se facessi meglio saresti ancora più bravo... E il fatto che io non senta la doppia grancassa o l’hit-hat non vuol dire niente…” Chiaro, no? E io sono nella merda peggio di prima. E’ come se avessi alzato una bella bandiera bianca con scritto “Shannon 4ever”. Non possiamo stare zitti e gettare un pietosissimo velo sulla mia infatuazione per te? Anche perché ormai, qualsiasi cosa mi chiedi, salta fuori che non sono in grado di intendere e di volere quando sei a meno di due metri da me. E io sono sempre più ridicola, ormai.

E infatti ti metti a ridere, scuotendo la testa, e mi guardi nuovamente dalla testa ai piedi: ti starai chiedendo come posso in  apparenza sembrare una seria signora che va ad una festa al Ministero e, nello stesso tempo, fare dei discorsi da adolescente cerebrolesa, vero? Beh, ho una notizia per te: E’ TUTTA COLPA TUA!! Prima di vederti io ero effettivamente una donna seria, tutta casa, famiglia e lavoro, ma la mia serietà é finita dentro il cesso in un baleno, dopo che mi sono innamorata di te e infognata con i 30STM. Ora non farci finire anche la mia dignità.

Ma perché stai ancora così vicino? E perché sei ancora lì che mi fissi e non ridi più? Quanto mi vuoi mettere in imbarazzo? Non è sufficiente? Che cavolo vuoi? E ora mi guardi le labbra. Non vorrai…? Mi balena improvvisamente  un’idea… non vorrai BACIARMI, spero? No, vero? No, davvero.

Ma…

Che tentazione…

Che pensiero molesto…

E se ti baciassi io?

O se ti accarezzassi il viso, almeno?

Sei qui, non ti sposti di un millimetro, il mondo sembra fermo, posso dire che sei mio, per i prossimi istanti.

Lo faccio?

Sì o no?

E’ adesso o mai più, eh?

Alzo una mano, trattenendo il fiato. Leggermente ti accarezzo una guancia. E tu non ti sposti e continui a guardarmi. Ma per te è forse normale farti accarezzare dalle sconosciute in ascensore? Perché non dici niente?

Oddio. Sto tremando ma…

E… se…

Lo faccio?

Sì o no?

E’ adesso o mai più, di nuovo.

Sì, devo farlo. Devo. Non mi capiterà mai più, non posso pensare alle conseguenze.

Mi avvicino di più a te, piego il viso e ti deposito un piccolo bacio su una guancia, ad occhi chiusi.

E tu non rispondi e continui a non muoverti, a guardarmi.

C’era da aspettarselo. Era ovvio.

Non fa niente. Ci ho provato, non avevo niente da perdere.

Ti fisso un attimo negli occhi e poi abbasso il viso e mi guardo nuovamente le mani, arrossendo per l’ennesima volta e vergognandomi come se avessi rubato.

Quasi subito si sentono altre martellate e poi un sussultare dell’ascensore. Ci muoviamo.

Esalo un sospiro. Meno male. Non ce la facevo più. Mi tolgo dall’angolo, senza dire niente e senza guardarti, raccolgo la borsetta e i sandali e mi metto a favore della porta che dovrebbe aprirsi a momenti. Finalmente in pochi istanti l’ascensore arriva al piano terra e le porte si aprono. Intravedo le facce del portiere e di alcuni operai appena fuori, faccio per uscire ma tu mi afferri un braccio.

In un millesimo di secondo, mi ritrovo tra le tue braccia e tu hai premuto il tasto che fa chiudere nuovamente le porte e l’ascensore comincia a salire.

Mi stringi a te, mi metti un braccio attorno alla vita e una mano sulla nuca. Dirigi il mio viso contro il tuo e porti la tua bocca sulla mia, con decisione, quasi con impeto. E io non resisto, ovviamente, mi arrendo subito, apro le labbra e le muovo sulle tue. Mi baci forte, la tua lingua contro la mia. Non mi tiro indietro e rispondo. Porto le braccia attorno al tuo collo e ti stringo a me. E tu mi stringi contro di te, contro il tuo petto, con impeto.

O Gesù! Vorrei poter fermare la mia testa, arrestare i miei pensieri e godermi le sensazioni della tua bocca in pace, ma non ci riesco del tutto perché non ci credo che stia avvenendo… non credo che tu lo voglia, non può essere…

Che diavolo stai facendo?

Abbasso le braccia, ti spingo per allontanarti e tu mi lasci.

No.

Non devi farlo.

Non puoi farlo.

Non con quello sguardo.

Non senza amore.

“Stronzo.”

Ti metti a ridere. “Non era quello che volevi?”

“Un bacio che non conta un cazzo? No. Non era questo…”

“Se non ti basta, visto che non ho niente da fare stasera, se vuoi andiamo in camera mia e continuo anche con il resto…”

Mentre allunghi una mano e per un momento penso che vorresti mettermela dentro la scollatura, ti mollo un ceffone.

Non sei quello che credevo, ma solo un borioso pallone gonfiato, troppo sicuro di sé e della sua avvenenza e io non ho dieci anni, non mi faccio comandare da te. Sono infognata persa, ma ho anche una dignità, seppure minima: “Stasera allora ti dovrai arrangiare come puoi perché io invece ho da fare e sono già in ritardo.”

Da quella tua faccia da presa in giro quel sorrisetto non ti scompare, nonostante si vedano chiaramente le mie dita sulla tua guancia. Mo’ che farai? Le porte dell’ascensore si riaprono al sesto piano e io premo nuovamente il pulsante del piano terra, guardandoti con la coda dell’occhio e dandoti le spalle.

“Sei solo una casalinga annoiata.” Mi dici, per offendermi, strofinandoti la guancia, mentre avevo pensato che restituissi lo schiaffo con gli interessi. Peccato che sia vero che lo sono e non mi offendo più di tanto.

E tu cosa sei, allora? “E tu un puttaniere. Pensavo qualcosa di meglio e invece... era vero quello che si diceva…”

Ti avvicini da dietro e mi metti un braccio attorno alla vita.

“E cosa si diceva?” E mentre me lo sussurri all’orecchio e un brivido mi scorre lungo la schiena, l’ascensore si ferma di nuovo perché hai premuto il pulsante del blocco mentre non presidiavo la pulsantiera. Mi giro come una vipera calpestata, togliendomi le tue mani di dosso e tento di mollarti un altro schiaffo, ma questa volta non mi riesce. Mi prendi le braccia e me le giri dietro. In un istante ho il petto appoggiato al tuo e tu stringi fino a farmi male i polsi dietro la schiena e non riesco ad arrivare alla pulsantiera per fare ripartire l’ascensore. Ho perso la borsa e anche i sandali sono per terra.

“Lasciami immediatamente!”

Ma tu continui a sogghignare e il tuo viso è vicinissimo al mio. Oddio e che colore avrebbero adesso i tuoi occhi? Non saprei dire. Cerco di muovermi per sciogliere questo abbraccio ma non mi riesce, sei troppo forte, per me. E il tuo aroma è insopportabile, mi dà alla testa in modo incredibile. Dovrei ragionare invece di respirare il tuo odore di UOMO. E mi viene in mente che vorrei risentire il sapore della tua bocca.

“Vorresti cadere ai miei piedi, ma il tuo orgoglio te lo impedisce. Dimmelo…”, mi sussurri piano.

Stringo i denti, inviperita: “No.”

“Dimmelo che vorresti venire nella mia camera e vorresti farti sbattere da me fino a domani mattina.”

No, cioè sì. Certo. Come conseguenza naturale del nostro amore, scoperei con te per giorni interi. Sono due anni che lo penso, che immagino come potrebbe essere fare l’amore con te che spingi forte tra le mie gambe aperte, dentro di me, Shanimal, quando mi dai piacere e ti prendi il tuo. Come potrebbe essere accarezzare e baciare il tuo corpo? Come sei dopo l’amore? Che sapore ha il tuo tatuaggio sulla schiena? Non ho cinque anni e se ci penso ancora un po’, potrei cominciare a bagnarmi…

Ma col cavolo che adesso te lo dico.

“No.” Ma ansimo.

“Ahahahah. Bugiarda.”

“Lasciami o mi metto a gridare.”

“Stai già gridando.”

“Ma che cazzo vuoi da me?”

Mi guardi in modo strano. Forse te lo stai chiedendo anche tu. Avevamo parlato e poi… Che ti è saltato in mente? “Quello che vuoi tu da me.”

Non può essere. A parte che mi pare strano che mi desideri così su due piedi, se non perché sei un puttaniere e ti scoperesti qualsiasi cosa, ma è ovvio che non hai la più pallida idea di cosa mi passa per la mente. Non sai che quello che voglio da te non è solo una scopata e via: “No. Non è vero. Non è la stessa cosa.”

“Ah, no? Non vuoi un po’ di sesso esotico, una ripassatina, per sfuggire alla tua routine di merda?”

E così tu ti risparmi di pagare la parcella alle tue zoccole castane, per stanotte? “No.”

“E allora cosa?”

“Che mi lasci...”

“Rispondi, prima.”

“No.”

“Dimmelo… e ti lascio.”

“No.”

“Stiamo qui tutta notte, per me…”

“Lasciami.”

“No. Dimmelo.”

“Vorrei che…” mi manca il fiato. Devo proprio dirlo?

“Cosa? Dillo…”

Devo proprio dirtelo?

“Vorrei che… che tu mi amassi, come… come ti amo io.”

Abbasso gli occhi e arrossisco. Ecco, l’ho detto. Ti sto chiedendo troppo, decisamente, ma è la verità. Non posso fare a meno di confessartelo, Shan. Se non lo dico a te, a chi lo dovrei dire? Ma so anche che non sono ricambiata, non può essere. Non è possibile che tu possa amarmi, nemmeno per un momento. A te piacciono le brune anoressiche minorenni, possibilmente mulatte o giapponesi, non le madri di famiglia con troppi problemi di autostima. Ed è ovvio, è naturale. Anche perché se tu adesso, in quest’istante, dicessi di amarmi non ti crederei un momento. Lo vorrei con tutto il cuore, ovviamente, ma non è contemplato che esca un ‘Ti amo’ da quella tua splendida bocca. Dopo un’ora di ascensore e due parole inutili, proprio no. Una volta credevo nell’amore a prima vista ma ora… ci credo solo perché lo scrivo nelle fanfinction. In realtà non può esistere, in realtà tutte le volte che l’ho provato è perché l’ho sentito io, non l’oggetto del mio amore. Quindi non può essere vero nemmeno con te. L’unico amore che ho avuto ricambiato, quello di mio marito, non è  stato un colpo di fulmine, ma un amore fin troppo ‘pensato’. E allora mollami: “Ma so… che non è possibile… e quindi… LASCIAMI!”

Te lo grido in faccia, mentre tu mi fissi perplesso per quello che ti ho detto. Non sarà la prima dichiarazione d’amore che ricevi, spero. Poi mi sorridi, sarcastico: “Non esiste nella vita reale, l’amore con la A maiuscola al primo incrocio di sguardi, a prima vista. Leggi troppi romanzi rosa, tu. Sei una romantica. ”

Ah, se è per quello me li scrivo pure, come piacciono a me, oltre che a leggerli, i mielosi harmony. E ce li scambiamo tra amiche, tra fottute romantiche innamorate dell’amore, che si cullano in amori impossibili per scordare le amarezze e le troppe sconfitte della vita. Eh sì: mi hai detto che sono una cretina, in fondo, e devo dire che hai perfettamente ragione. Ma il tuo cinismo non mi piace, mio principe azzurro caduto da cavallo. In fondo che ne sai, tu, dell’amore con la A maiuscola? Non mi risulta da nessuna parte che tu abbia una ragazza fissa di cui sei innamorato. “Nella tua vita forse non esiste l’amore…”

“Ma cosa ti importa della mia vita? E nella tua sì?”

Esito a rispondere. Non lo so. E’ lui il mio amore? E può essere amore se non è ricambiato? Non voglio rispondere. “Non sono affari tuoi!”

“Due secondi fa hai detto che amavi me e ora non sarebbero affari miei? Mi sembri matta...”

Beh, in effetti sono confusa, ma i tuoi occhi da gatto, il tuo fiato sul viso e i muscoli del tuo petto contro il mio seno non aiutano certo la concentrazione e la linearità di discorso: “Ma… insomma, lasciami. E chiedi scusa.”

Ti metti a ridere: “No, non chiedo scusa, perché quel che ho detto è vero.”

Hai ragione. Lo so che hai ragione. E stupida io a cacciarmi in questa situazione. Mi lasci andare e io corro a sbloccare l’ascensore e recupero borsa e sandali da terra. Poi mi metto in un angolo. Ma perché questo cazzo di ascensore non va più veloce?

Non so più cosa dirti: ti ho dichiarato il mio amore e ora rimaniamo a guardarci di sottecchi, io imbarazzata e tu indifferente, e poi arriviamo al piano terra e le porte si aprono.

“Addio.” Ti dico, quasi senza guardarti in faccia. Esco e me ne vado di corsa, lungo il corridoio, senza girarmi, e ti lascio con il portiere che ti chiede scusa, piegato a novanta gradi in una ridicola riverenza. Il taxi aspetta da più di un’ora, a lato dell’entrata. Mi rendo conto solo quando salgo che sono senza fiato e scalza.

Allora mi aggancio i sandali mentre il taxi parte e ti vedo uscire sul marciapiede davanti all’albergo.

Sospiro. Vabbè: è andata così.

Shannon si farà due risate di cuore con suo fratello quando gli racconterà della cretina-sposata-casalinga-disperata-innamoratacotta-di-lui-come-una-adolescente. Poi quando gli dirà che si era pure offerto per una compassionevole  scopata gratis e la cretina ha rifiutato, Jared cascherà per terra dal ridere e si riprenderà forse dopo mezz’ora. Per non parlare di quando gli dirà che mi atteggiavo ad esperta di musica… OK. Sarà il prezzo che ho pagato per conoscerti.

E comunque c’era da aspettarselo. Lo sapevo, dai… di cosa dovrei stupirmi? Ti ho avuto per un’ora, da solo. Ero pure vestita bene, tanto da sembrare carina, e per una volta nella vita potevo non vergognarmi del mio aspetto. Potevo anche fare finta di piacerti. Dopotutto avresti anche voluto scopare con me, tanto da chiedermelo. O forse scherzavi? Per mettermi in imbarazzo?

Poi mi hai detto che sono una stupida romantica. E’ vero, non ne ho dubbi. Non scriverei sdolcinate fanfiction su di te e sul mio amore per te, se non lo fossi. Non me ne vergogno, sai: mi vergognerei di più a non credere all’amore e a non sentire più nulla. Da buona romantica avrei voluto che mi cadessi ai piedi, ovviamente, con un fulminante amore a prima vista.

Poi ti ho baciato, mi hai baciato. Mi tocco le labbra. Oddio, mi hai baciato. Ho ancora la tua saliva in bocca.

Ho sentito il tuo sapore e il tuo odore.

Ho sentito le tue braccia stringermi e il tuo corpo contro il mio.

Ho sentito che non ho mai amato nessuno come amo te.

Ho sentito che non mi ami e non lo farai mai. E non posso costringerti ad amarmi. Non si può. Non è destino.

Ho avuto tutto come avrei desiderato? Forse no.

Ma ho avuto come non avrei mai pensato.

Certo.

Ma il mio cuore ora è spezzato.

Per sempre.

Perché non ho il tuo amore, ma solo la tua commiserazione.

Perché non ti avrò mai.

Perché ti vorrei più di prima.

 

 

 

Fine

 

 

 

Questa è una vecchia ff, una delle prime che ho scritto (e lo capite anche dalle descrizioni) e l’ultima che pubblico. Per tanto tempo l’ho tenuta nel cassetto, indecisa sul da farsi, ma oggi ho deciso di pubblicarla e solo ed esclusivamente per ringraziarvi e salutarvi. Ringraziare le tante persone che mi sono state vicine in questi tre lunghi anni in cui ho scritto ff sui 30 Seconds to Mars. E salutarvi con affetto: forse ci rivedremo ancora, magari non qui (dove scrivere ha ormai perso di senso, viste le tante scopiazzature tra ff che vedo). Magari non appena uscirò dal limbo in cui sono caduta, metterò davvero mano al mio primo vero libro.

Alcune persone voglio citarle, però, una per una, con il loro vero nome, perché sono persone assolutamente speciali, per me, ognuna a modo loro.

Sonia (Folleria) ed Alessandra (Tannaca): senza la vostra presenza e il vostro incoraggiamento non avrei mai iniziato. E senza i vostri sorrisi non sarei mai andata avanti. Senza la vostra carica non andrò avanti. Ma so che ci siete e mi basta. Vi voglio un mondo di bene, anche se non sempre sono brava a dimostrarlo.

Claudia (Aglaja): la nostra anima tormentata e dannata è stata suddivisa in due corpi distinti. Ma ci siamo trovate qui. Per favore, ti supplico, continua a scrivere. Devi farlo, anche se rende soli e fa male. Ma è il destino degli scrittori, cosa che tu sei.

Valentina (FallenAngel): questa ff ho deciso di pubblicarla solo perché so che ti fa piacere leggerla. Per cui è dedicata a te. E a te soltanto. E sai anche perché.

Sara (Artemide): guardarsi e capirsi in un baleno, con un gesto, una parola o un sms. Queste siamo io e te. Inesorabilmente lontane ma sempre assolutamente vicine.

Lori (Candidalametta): sorellina cara, so che ti ho delusa, ma non me ne avere. Niente intacca l’enorme affetto che ho per te, nemmeno il mio “brutto carattere”. Spero di rivederti presto, abbracciarti e stringerti.

Monica (PrincesMonica): socia. Sei tutto per me e lo sai. Non cambiare mai quello che sei. Non lasciarti intaccare da chi è cattivo e superficiale. Sei unica, sei una perla rara. E io ti voglio bene.

E poi tutte le ragazze (e sono state tante e tante) che hanno messo le mie ff tra le preferite e le seguite, che hanno recensito, commentato, complimentato, votato in tutti questi anni e ancora continuano a farlo e di cui non faccio l’elenco perché non sarebbe esaustivo. Siete tutte nel mio cuore. Nessuna esclusa.

E per ultimo vorrei spendere un pensiero anche per LUI, non dico nemmeno il  nome, tanto sapete di chi parlo, per il quale non trovo parole, ma uso quelle di Ligabue riadattandole. Tu e solo tu ‘ti sei preso il mio tempo, ti sei preso il mio spazio, ti sei preso il mio meglio…’ ma quando ho tentato di dirtelo non hai capito. E questa cosa e tante altre mi hanno distrutto, hanno distrutto Shanna e fatto crollare tutto il mio intero mondo, tutti i miei sogni, le mie speranze, la mia intera vita. Se questo è un bene, ancora non lo so, probabilmente sì, visto che nulla accade per caso, ma ora devo ricostruire tutto quanto. Senza di te.

Con affetto, un bacio a tutti.

Shanna.

 









   
 
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