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Autore: Anthy    03/10/2010    8 recensioni
Dicono che il suono del violoncello sia quanto di più vicino alla voce umana.
Dicono che la sua forma è simile al corpo di una donna, armoniosa e morbida. Elegante.
Dicono che per suonarlo ci vogliono mani abili.
Ma questo Sophie non lo sa... Fino a che nella sua vita non entra un violoncellista dall'aria tenebrosa e tormentata. Solitario.
O forse... E' lei che è entrata nella sua vita?
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cello 4
LE FANTAISIE DU VIOLONCELLE









I clichè sono talmente banali che non puoi non finirne vittima.

Non puoi.
E sono talmente infimi e sottili e... insulsi, che ti accorgi di esserci dentro – ad una situazione cliché, intendo – solo... solo quando la forza degli eventi di travolge.
Perché i cliché partono in maniera sciocca, scontata quasi, e poi si trasformano in un qualcosa di imprevisto ed imprevedibile. Ma sempre a senso unico – tornare indietro? Impossibile.
Sono come sabbie mobili, da cui più cerchi di risalire, più ti trovi a sprofondare.
Prendiamo una situazione qualsiasi: una ragazza che accetta un passaggio da uno sconosciuto.
Che cosa stupida che ha fatto, quella giovane: fin da piccoli, ai bambini viene detto che con gli sconosciuti non si parla, non ci si allontana, bisogna prestare attenzione. Anche nelle storie viene ribadito – “Pinocchio” è un esempio di cosa succede a chi segue i consigli di persone non conosciute, tanto per citarne una.
Ma c’è poco da dire, ora.
La ragazza ha accettato.
E per amore di cronaca, diciamo che lo sconosciuto è affascinante, misterioso, anche se un po’ scontroso e di certo non amichevole – giusto perché la banalità non ha mai fine.
Un uomo un po’ cupo, un violoncellista abbastanza famoso nell’ambiente, ma pur sempre sconosciuto. E scontroso ed arrogante e di certo non amichevole – l’ultima persona, quindi, da cui si accetterebbe un passaggio. Ma la fama di cui gode dovrebbe evitare qualsiasi risvolto spiacevole, si dice la giovane.
E probabilmente, qualcuno di più intelligente riderebbe di lei, dicendo che pure la nonna di Cappuccetto Rosso sembrava innocua pur avendo i dentoni aguzzi, il muso allungato e la voce arrochita dalla fame, ma che la piccola, nella sua ingenuità, non avrebbe potuto riconoscere il Lupo al di sotto dei vestiti; sempre qualcuno direbbe che invece arrivare a vent’anni passati e non saper riconoscere il Lupo cattivo è veramente grave.
E sosterrebbe che questa giovane altro non è che una stupida, che si è offerta come agnello sacrificale a quello che potrebbe essere un maniaco, uno stupratore o quant’altro, magari non conosciuto perché è abbastanza sveglio da non farsi scoprire nonostante la fama.
Sì, proprio una stupida, perché si è lasciata abbindolare come un’allocca dalla bella presenza dell’altro e da poche, blande rassicurazioni.
Perché questo esempio rientra nella categoria dei cliché?
Semplice, perché la giovane ha fatto una cosa che non doveva fare.
Le persone fanno sempre cose che non devono fare, seguono sempre strade che non devono percorrere, fanno scelte o compiono azioni che faranno sempre, in qualche modo, loro male.
O magari non faranno neppure male... solo non sono giuste – strade, azioni o scelte che siano.
Non sono sensate.
La gente è nata per seguire cliché, checché ne dica o voglia.
Ah, e mi raccomando: quello di prima era solo un esempio.
Poco importa che ogni esempio nasca dalla realtà.





Chapitre 4 - Conséquence

"Sai, molte scelte che facciamo nella nostra esistenza appaiono logiche
solo guardandole dopo, a fatto ormai compiuto.
Sembrano perfino far parte di un disegno dotato di senso."
Raul Montanari








Volevo scappare.

L’unico pensiero coerente era quello: volevo andarmene.
Anzi, se fosse stato possibile, avrei già voluto essere nel mio letto, al caldo, con un bicchiere d’acqua sul comodino e la luce della sveglia a spezzare il buio.
Mi strinsi le braccia attorno al corpo, mentre il fresco della sera spandeva brividi lungo il mio corpo. La temperatura dentro al “Croissant de Lune” era sempre abbastanza alta, giusta insomma; quando poi si usciva, tutto sembrava più freddo.
Ma non potevo negare che il disagio non giocasse una parte importante nel rendermi particolarmente sensibile e recettiva.
Come poteva essere altrimenti?
Non avevo fatto altro che ripensare alla sua voce, dopo che mi aveva lasciato.
Tono seccato, distante.
Profondo e cupo.
Era virile, incisiva sì, ma non... appariscente.
Sembrava parlare per pura necessità, non perché fosse realmente interessato a rivolgere la parola a qualcuno. E quando lo faceva, mi sembrava di assistere ad un incontro di fioretto: toccata e parata, difesa ed affondo. Parlava poco, ma aveva sempre le parola giuste.
Di tornare a casa con una persona del genere non se ne parlava; sentivo la tensione avvolgermi, il cielo solo sapeva come sarebbe stato andare a zonzo con lui.
Ma ormai ero là fuori.
E lui era là, poco più avanti, appoggiato ad una macchina sportiva, ma elegante.
Nera.
Che strano.
Non mi stava guardando: era appoggiato sul cofano della macchina e di spalle rispetto a me, dalla parte del guidatore, e sembrava assorto ad osservare il panorama di fronte a sé.
Fumava.
Nell’oscurità della notte, spezzata solo da lampioni circondati da nugoli di zanzare, ogni tanto era possibile vedere la brace che consumava il tabacco, una macchia rossa stagliata contro il nero.
E per un attimo, desiderai avere con me la macchinetta fotografica, per immortalare quell’attimo.
Non c’era nulla di speciale, in sé. Ma c’era qualcosa di sensuale e graffiante nell’insieme; mi immaginai di catturare il profilo di quell’uomo nell’atto di aspirare una boccata di fumo, le labbra di poco schiuse e le guance leggermente incavate, gli zigomi eleganti sfiorati da alcune ciocche scomposte, con il corvino dei capelli a contrastare con il rosato della sua pelle. E magari avrei zoomato sulle sue mani, quelle mani dalle dita lunghe e levigate – o forse... forse qualche callo induriva i suoi polpastrelli? – oppure avrei potuto allargare la panoramica e catturare la posa del suo corpo, naturale eppure rigida, posata eppure pronta a scattare. Elegante, ma pericolosa.
Distratta bellezza o curata attenzione dei particolari?
Mi ritrovai a trattenere bruscamente il fiato, riscoprendomi ad ammirare i suoi lineamenti.
Cercai di ritrovare un minimo contegno e di sbloccare il mio corpo, bloccato a metà sul marciapiede; per quella sera avevo collezionato abbastanza figuracce, farmi beccare a fissarlo per l’ennesima volta non sarebbe stata di certo piacevole.
Non per me, almeno.
Abbassai lo sguardo, osservando la punta delle mie scarpe da ginnastica: volevo andarmene, maledizione.
Sentivo un peso opprimente, il respiro era agitato.
Io ero agitata!
E mi sentii avvampare di vergogna, ricordando di quando prima aveva rimproverato la mia lentezza. Che mi avesse visto nuda? Che avesse parlato da fuori, accanto alla porta? Che fosse... che fosse entrato dentro, vedendomi contemplare il mio corpo come una stupida – come se ci fosse qualcosa da “contemplare” nel mio corpo.
Mi sfuggì una smorfia, a quel pensiero.
Ero una banale e comunissima ragazza.
Una ragazzina, paragonata a lui.
Okay, basta Sophie, basta pensare. O tentare di pensare.
Affondai i pugni nel bomber sportivo che indossavo – lui così elegante ed io... io con addosso un paio di jeans smunti, un bomber viola e le scarpe nere, usate. I capelli raccolti alla bene meglio.
Non osavo immaginare il volto!
Battere in ritirata, Sophi! Battere in ritirata.
No, un momento! È stato lui a proporsi, non ho nulla di cui vergognarmi.
Sì, come no.
Okay, dovevo smetterla: più stavo là a litigare con me stessa, più c’avrei messo ad arrivare a casa.
Se ci arrivavo, al mio appartamento.
Scacciando dalla mente quelle stupidaggini, avanzai verso Duvall, osservando a destra e sinistra prima di attraversare la strada. Ed una volta arrivatagli vicino, mi accorsi che la mia mente non gli aveva reso giustizia nell’immaginarlo: la pelle ispida era lievemente ispida, il profilo della mandibola era contratto, le labbra poi erano corrucciate in una smorfia...
Quando si voltò verso di me, portando la sigaretta quasi terminata alle labbra, il senso di fuga fu affiancato da una vertigine che rese le mie gambe gelatina: mi ero dimenticata degli occhi, di quei due pozzi profondi e scuri, ora socchiusi mentre espirava fuori il fumo, misera cortina che non copriva l’intensità di quello sguardo.
Non disse nulla, limitandosi a gettare il mozzicone ai suoi piedi; il respiro tornò solo quando René abbassò lo sguardo in basso, per guardare la sua scarpa – la sua elegantissima e lucidissima scarpa nera – appiattire il filtro, mentre una mano andava a frugare nella tasca del cappotto che indossava.
Volevo parlare, davvero.
Dirgli che potevo tornarmene a casa da sola, che avevo preso lezioni di autodifesa e che sapevo il fatto mio, che non serviva che si disturbasse a farmi da tassista.
Non ci riuscii; immobile, davanti al muso di quella macchina pronta a bruciare l’asfalto, lo guardai far scattare l’antifurto – le luci dell’auto che lampeggiano.
E quando l’aprirsi della portiera mi riscosse, facendomi credere di essere pronta a dire una misera frase di circostanza, la sua voce mise a tacere ogni mia possibilità – e volontà – di parola.
« Sei lenta».
La portiera si chiuse.
Brutto stronzo.
Se non avessi avuto il carattere che possedevo, probabilmente avrei fatto una scenata.
Avrei alzato il mento, l’avrei mandato a quel paese ed avrei girato i tacchi.
Sicuramente una persona normale l’avrebbe fatto.
Io no, non feci nulla di tutto ciò, troppo... allibita, sì allibita da quell’arrogante personaggio.
Salii in macchina a capo chino – checché ne dicessi, non era propriamente sicuro girare per le strade parigine da sola, corso di autodifesa o meno – inghiottendo ogni replica a quel commento poco cortese.
Lo feci velocemente, onde evitare che trovasse un altro pretesto per dirmi che ero lenta.
Vaffanculo.
Lasciai vagare lo sguardo fuori dal finestrino, ascoltando il motore dell’auto mettersi in moto: non disturbava, era un ronzare morbido, per nulla fastidioso.
E sempre guardando la strada, gli dissi il quartiere in cui stavo, sperando che lo conoscesse.
Ma a quanto sembrava aveva un navigatore con sé – tanto meglio.
Non mi rispose, né mi diede segno di avermi ascoltato.
A volte è proprio vero che la fama ed i soldi non fanno la simpatia...
Decisa a godermi il passaggio, mi rilassai contro il sedile della macchina, sospirando dalla stanchezza.
La musica – mi sembrava fosse jazz – non era molto alta, rilassava.
Era stata una giornata pesante oggi, non vedevo l’ora di essere a casa; grazie al cielo era venerdì, domani niente università. Certo, avevo il turno dalle dieci di mattina a mezzogiorno e mezzo, ma non era un problema. E poi la sera, per tutto il week end.
Sospirai, lasciando scorrere le immagine della città cercando di arginare i pensieri, di lasciarli da parte.
Però quel silenzio mi stava sinceramente stancando.
Sì, insomma, mi pesava.
Non ero propriamente una chiacchierona, però mi infastidivano i momenti morti; soprattutto, mi infastidiva essere consapevole della presenza di un’altra persona e non poter però parlare.
Era qualcosa di incoerente, a ben pensarci, perché quando ero io a non voler parlare, mi limitavo a mugugnare risposte tanto per accontentare i terzi; però se mi ritrovavo in presenza di qualcuno, sconosciuto o meno che fosse, sentivo il bisogno di parlare. Di parlare per stemprare il disagio del silenzio, del passare del tempo insieme senza dire una parola.
Eppure era una che amava la quiete, ma solo quando ero sola.
Ed ora certamente non lo ero.
Probabilmente, non ero neppure desiderata.
Potevo capirlo: insomma, prima aveva avuto la possibilità di avere quella splendida donna con sé, di concludere la serata in bellezza... ed era stato costretto a portare a casa me.
Mi rendevo conto da sola che fosse uno scambio beffardo e sicuramente non equivalente.
L’aveva voluto lui però!
Che soffrisse della sindrome del buon samaritano?
...
Arrischiai un’occhiata veloce, trovandolo intento a guidare con la sinistra sul volante, l’altra mano sul cambio. E poi la destra su, insieme all’altra...
Feci una smorfia, riportando lo sguardo sul finestrino: no, non mi sembrava proprio il tipo.
L’ipotesi che potesse far qualcosa di... non corretto non la escludevo.
Sentii la macchina decelerare, in prossimità di un semaforo. All’angolo dell’incrocio, un piccolo alimentari rimaneva aperto nonostante l’ora tarda, ma non c’era nessuno all’interno.
Anche i marciapiedi erano vuoti, poche erano le auto in giro.
« Ti dispiace se fumo?»
La voce di Duvall mi colse di sorpresa.
Intenta a guardare fuori, ormai rassegnata al silenzio, la sua domanda mi portò a voltare il capo di scatto verso di lui; mi fissava, la sigaretta già fra le labbra, il finestrino già abbassato.
Beh, perlomeno me l’ha chiesto.
Una domanda di cortesia, me ne rendevo conto da sola.
Mi limitai quindi a negare con il capo, osservandolo mentre faceva scattare l’accendino, la fiamma che illuminò di poco l’abitacolo.
Ogni tanto fumavo anch’io, non mi dava fastidio l’odore quindi.
Capitava raramente, certo: di solito quando ero particolarmente sotto tensione, poco prima del ciclo e quando il nervosismo era a livelli massimi.
Ma cercavo di limitarmi quando potevo, non ero una di quelle fumatrici incallite, né giudicavo chi fumava: ad ognuno i propri vizi.
Mi faceva strano, però, vederlo fumare.
Cioè, era un gesto che si sposava a pennello con la sua figura, sembrava essere nato per avere la sigaretta fra le dita. Mi rendevo conto di stare esagerando, che era la scenografa in me a parlare. Ma ero anche più che consapevole che esistevano al mondo persone dotate di carisma e fascino, anche nel compiere i gesti più banali o quotidiani.
Vedere come intrappolava la sigaretta fra le labbra, mentre la mano scattava sul cambio; vedere come poi quella stessa mano era finita sul volante, mentre la sinistra prendeva la bionda per permettere alla bocca di espirare il fumo, inclinando il volto verso il finestrino...
Cercai di deglutire, riportando lo sguardo fuori.
La calma era qualcosa che non mi apparteneva, in quel momento. Nonostante la musica strumentale e rilassante, non riuscivo a concentrarmi solo su di essa.
Mi sentivo a disagio.
Mi sentivo di troppo.
Non mi sentivo padrona di me.
Ed erano emozioni stupide, queste.
Stupide perché gli stavo permettendo di intimidirmi, pur non facendo nulla.
Sbuffai, affondando le mani nella tasca del giubbetto. La verità era che mi attraeva René, mi attraeva quella figura dai contorni ancora sfocati; non un colpo di fulmine, no. Semplicemente affascinava.
E gli occhi non erano stati creati per nulla, purtroppo.

« Non ti credevo in grado di rimanere in silenzio per più di dieci minuti».
Mi voltai di scatto verso di lui, fin troppo sorpresa da quel tentativo di conversazione; era concentrato sulla strada, una mano a reggere quello che si sarebbe presto trasformato in un mozzicone di sigaretta.
« Credevo ti dessero fastidio le chiacchiere», risposi con una smorfia, abbassando lo sguardo sul cambio.
Non avevo certo dimenticato come mi aveva trattata prima al Café, a cosa aveva insinuato.
Alzò le spalle noncurante, le dita che tamburellavano a tempo con la canzone sul volante.
Una nuvola di fumo espirata.
« Solitamente sì, mi danno fastidio».
« Ed allora perché hai parlato?»
Inarcò un sopracciglio, scrutandomi brevemente, quasi non fossi degna della sua attenzione.
Che snob.
Che snob affascinate.
« Ho constatato, è ben diverso».
Certo, come no.
Sbuffai, incrociando le braccia, fissandolo malamente.
« Nessuna avrebbe mai lasciato senza risposta una frase del genere».
« La mia non era una domanda, non necessitava quindi di risposta».
« Vuoi che ne discutiamo, su ciò che è implicito e ciò che è esplicito?», ironizzai, alzando gli occhi al cielo.
Ma alla mia di domanda, invece, non ci fu risposta.
Lo osservai sconcertata, attendendo una replica, ma quello che vidi sul suo volto catalizzò completamente la mia attenzione, facendomi dimenticare il precedente scambio di battute.
René sorrideva.
Non apertamente, non completamente, ma sorrideva; la piega della bocca, la piccola fossetta accanto all’angolo delle labbra, il leggero sbuffo. Un ghigno, forse. Più probabile. Certamente, fin troppo piacevole da fissare.
Piegò il braccio, aprendo lo scompartimento adibito a posacenere e lì vi schiacciò il mozzicone; lentamente, senza fretta, lo premette, un ultimo filo grigio che si sperdeva nell’aria, prima le dita richiudessero il tutto.
E quando lui parlò, il mio sguardo era ancora posato là dove le sue dita avevano sostato, a ripercorrere il pigro inarcarsi delle falangi – le stesse che avevano impugnato l’archetto, strette e tenaci.
Forti.
« Siamo quasi arrivati», mormorò, le labbra ancora tirate in quello strano sorriso sibillino, il tono di voce sfumato, quasi le sue parole volessero terminare e lasciare in sospeso un discorso intimo e pericoloso.
Solo allora… solo allora mi accorsi del mio sbaglio.
Solo allora mi accorsi che non avevo assolutamente prestato attenzione alla strada.
Solo allora mi accorsi che non eravamo nel mio quartiere.

***

Con occhi sbarrati, fissavo il succedersi di case dall’aspetto elegante e di classe, sicuramente differenti dall’aria sobria e popolana del mio quartiere.
Mi irrigidii completamente contro il sedile, serrando le mani sul rivestimento di pelle, in preda all’agitazione più totale. Mi ero rilassata, mi ero fidata, ed ecco, eccomi qua nella tana del lupo; troppo concentrata su di lui, sulla sua persona e sulla sua figura, mi ero dimenticata del dettaglio più importante: Duvall era uno sconosciuto.
Uno sconosciuto che mi stava portando, con tutta probabilità, a casa sua.
« Non è divertente», sussurrai, più a me stessa che a lui. Mi voltai lentamente verso Duvall, che guidava tranquillo e rilassato. « Non è divertente, monsieur. Aveva promesso di riportarmi a casa», mormorai, cercando di mostrarmi il meno intimorita possibile.
Per quello aveva cominciato a distrarmi; prima la richiesta di fumare, poi il tentativo di conversazione… voleva distrarmi, distrarmi dalla strada e dal suo obiettivo.
Improvvisamente, mi tornò alla mente la risposta che mi aveva dato al locale: forse avrebbe trovato un diversivo, forse…
Mio Dio, ero io il diversivo alla sua serata.
« Senta, se non desidera portarmi a casa mia, può benissimo lasciarmi qua. Tornerò… tornerò da sola».
Mi fissò brevemente, il sorriso irritante – sì, ora era assolutamente irritante – di nuovo sulle labbra.
« Siamo tornati a lei?»
La sua ironia mi urtava; il suo tono, in quel momento, mi urtava.
« Non so che idea si sia fatto di me», mormorai, vibrante di indignazione, paura e rabbia. Verso di lui, verso me stessa e la mia stupidità. « … ma io non sono… io non sono una delle solite donne che lei frequenta o che si lasciano irretire da un po’ di fascino. Io -».
« Ed io, signorina, ti ho già detto che non amo le persone che giudicano senza avere cognizione di causa». La macchina si spense, e mi accorsi solo in quell’istante che avevamo parcheggiato; ma fu una considerazione veloce, persa nel momento in cui il suo viso si voltò verso il mio, ora a sua volta irritato e di nuovo distante, arrogante. « Al locale, ho promesso che non ti avrei fatto nulla, dovrebbe bastarti».
« Scusa tanto, sai, se non mi fido della parola di chi non conosco», ribattei, già dimentica del mio tentativo di mantenere le distanze.
« Ed allora la prossima volta non accettare il passaggio da uno sconosciuto. O accetti tutte le conseguenze delle tue scelte, o non scegli».
Boccheggiai, colpita dalle sue parole e dalla loro verità.
Lo fissai senza dire nulla, il suo profilo illuminato dalla luce dei lampioni, la mascella contratta ed una mano ancora poggiata attorno al volante.
« Avevi anche promesso di portarmi a casa, allora», risposi cautamente.
Le sue labbra si tesero verso l’alto, insieme ad un sopracciglio. « Ed a casa ti ho portato. La mia. La tua è troppo distante ed io sono stanco, sinceramente. E lo sono ancora, stanco; quindi decidi in fretta cosa fare: io alla mia abitazione ti ho portato, vedi te se rimanere rinchiusa dentro la macchina, scendere ed andare dove vuoi, o seguirmi e passare la notte sotto un tetto».
E per “decidere in fretta”, intendeva proprio alla lettera; come finì di parlare, mi diede le spalle per scendere dall’auto. Era chiaro che, se non mi fossi mossa per scendere a mia volta, non avrebbe esitato a chiudermi dentro.
Indignata ed ancora arrabbiata, mi affrettai ad uscire, fissandolo trucemente mentre faceva il giro della vettura diretto verso un portone di ferro, elegantemente intarsiato.
« Ehi!», sbottai andandogli dietro, afferrandolo per un braccio.
« Silenzio, è un quartiere per bene, questo, non abituato agli schiamazzi notturni», sibilò, aprendo il portone e scostandosi per farmi passare.
Cielo, quanto era arrogante.
Quanto era…
« Stronzo», lo insultai, godendo della sua espressione per un attimo perplessa.
Potevo non essere una persona da scenate plateali, potevo essere una ragazza che preferiva starsene per le sue, ma c’era un limite a tutto. A tutto.
E per quanto mi ritenessi beneducata, il più delle volte, in quel momento non ero in disposizione d’animo per mantenere un certo savoirfaire alle sue provocazioni.
Mi fermai dopo qualche passo, di fronte ad un ascensore, la guardiola alla mia sinistra vuota.
I passi di Duvall, delle sue scarpe nere lucide e costose, risuonarono per l’ambiente mentre si avvicinava.
« Conosci le parolacce, eh?», mi schernì, nello stesso istante in cui le porte dell’ascensore si aprirono.
Ma stavolta, non gli avrei lasciato avere l’ultima parola.
« Quando voglio, sì», risposi, alzando il mento.
Poco importava se sembravo una bambina in vena di ripicche.
Volevo la mia soddisfazione, in questa serata così strana e diversa.
Ed in quel momento, la mia soddisfazione me l’ero presa.
Di questo, dovevo solo ringraziare Bennie ed il suo turpiloquio.

***

 L’appartamento di Duvall si trovava all’ultimo piano; tuttavia, una volta all’interno, non prestai molta attenzione all’ambiente: un po’ per non fare la figura della persona invadente, un po’ perché ero abbastanza stanca, lo fissai, in attesa che mi indicasse dove dormire.
Mi aveva voluto portare da lui?
Bene, che mi sistemasse ora.
« Seguimi», mi disse, quando glielo domandai.
Accendendo un’altra luce, ci lasciammo alle spalle l’ampio spazio della cucina e del soggiorno, per dirigerci verso il corridoio, occultato da una porta scorrevole in vetro satinato.
Superammo alcune porte, prima che ne aprisse una; si rivelò essere una stanza con due letti singoli, arredata in maniera sobria e distaccata. Sicuramente la camera per gli ospiti.
« Le lenzuola sono pulite, così come la camera», mormorò, prima di entrare ed aprire una porta sulla sinistra. « Qua c’è il bagno, se hai bisogno. Mentre qui», aprì un cassetto dell’armadio in legno scuro. « ci sono alcune mie maglie che puoi utilizzare come pigiama, se desideri».
Si raddrizzò, avvicinandosi, le braccia incrociate; ora che la luce artificiale illuminava il suo volto, potevo chiaramente notare le linee marcate delle occhiaie, così come l’ombra di barba che gli scuriva le guance.
Non ero l’unica di stanca, a quanto sembrava.
« Spero che la sistemazione la soddisfi, principessa».
Ma nonostante la stanchezza, evidentemente quel suo lato irritante non andava a riposo.
Annuii, scostandomi dalla porta per lasciargli lo spazio per uscire.
Ero già pronta a congedarlo ed augurargli una buona – non troppo – notte, quando di nuovo la sua voce interruppe i miei propositi.
« Ah, di solito sono abbastanza mattiniero. Ma se dovessi svegliarti prima, non c’è bisogno che mi aspetti se desideri andartene. Quando scendi al portone, vai a sinistra e dopo qualche metro troverai il sottopassaggio per il metrò. Anche se il mio consiglio è quello di chiamare un taxi». Si strinse nelle spalle. « Credo sia tutto. Buona notte, Sophie», sussurrò, chiudendo la porta senza darmi il tempo di rispondere.
Un attimo prima era qua.
L’attimo dopo non c’era più.
Mi chiesi se, sbattendo gli occhi, lo avrei trovato di nuovo di fronte a me, con lo sguardo cupo e la piega irrisoria delle sue labbra.
Ma sentii chiaramente al di là della porta un’altra chiudersi, i passi soffocati dalle pareti.
No, se n’era andato.
Così com’era venuto – irruentemente, pur nella pacatezza dei suoi modi – era sparito.
Sbuffai, cominciando a spogliarmi dal giubbotto e tirandomi via le scarpe, lasciandole disordinatamente sul pavimento. Ero troppo stanca per ragionare, troppo stanca per fermarmi a riflettere.
Avevo fatto più di uno sbaglio, stanotte.
Ero stata incoerente più di una volta, stanotte.
Ora avrei dormito un po’, cancellando ogni pensiero fino al mattino.
Solo per un attimo, prima di pormi sotto le coperte con addosso una sua maglietta – che non sapeva assolutamente da lui, ma di lavanderia e pulito – il mio sguardo si fissò sulla serratura, dove la chiave sostava invitante.
Un attimo, solo un attimo.
O accetti tutte le conseguenze delle tue scelte, o non scegli.
Spensi la luce, rintanandomi sotto le coperte.
Avevo fatto una scelta?
Benissimo, l’avrei rispettata.
Avrei avuto tutto il tempo per pentirmene in seguito…




***





Note: chi non muore si rivede, vero?
Chissà se qualcuno si ricorda ancora di questa storia. ^^
Beh, per chi qualcosina si ricorda, potrà constatare che il rating si è abbassato; arancione, invece che rosso.
Al momento, non vedo nel futuro scene da rating superiore, ma SE ve ne fossero, ovviamente vi avvertirei per tempo, indicando dove poter continuare a leggere la storia.

Mi dispiace aver fatto aspettare così tanto tempo, e non è neppure detto – sicuramente, non lo è – che dopo questo capitolo vi troverete uno nuovo giusto fra una settimana. Ho titubato un po’ se pubblicarlo o no – è stato cominciato già diverso tempo fa, questo – perché non volevo darvi speranze per poi illudervi, però neanche volendo riesco ad avere un capitolo da pubblicare ed un altro in caldo, così da non far attendere.
Per cui, eccovi qua questo… questo obbrobrio.
Mi piace solo la prima parte, a dir la verità, ma vabbè. Del resto è colpa mia; maturo io, cambio io, e cambia pure un po’ la storia – ed i suoi personaggi.
Qualcuno potrebbe essere rimasto deluso dalla mancanza di “intimità” o ammiccamenti nel finale; la verità è che loro due si sono appena conosciuti e già il fatto che lei sia a casa sua è tanto.

Per quanto riguarda Duvall, come avrete visto dall’immagine Orlando Bloom dovrebbe essere il modello di riferimento per immaginarlo, anche se niente vieta che abbiate altri gusti u.u
Lui diciamo che, nella mia mente, è l’uomo che più si avvicina a René; anche per Sophie ho trovato delle immagini che mi soddisfano, che vedrete nel prossimo capitolo ;)

Non saprei neppure io cosa dire, di più -.-
Non è tanto, non è molto, è un piccolo passo, che spero possa esservi piaciuto.

Risposta alle recensioni (anche se è passato un po’ di tempo -.-“)

la_Vespa: ti ringrazio per i complimenti. ^^
Spero che, nonostante il tempo, il capitolo sia degno dei precedenti!
Un bacione!!!

MsEllie: e così conosci un René, eh? ^^
Spero non sia come questo qua, che a volte – molte volte – è solo da prendere a sberle.
Mi dispiace di non averla continuata presto, ma... eccomi qua!
Sperando ti sia piaciuto, un bacione!!!

Himechan: sì, i caratteri dei personaggi sono accennati ed in continua evoluzione. ^^
Nulla di troppo diverso, ma più passa il tempo, più cambia un po’ anche il mio stile ed i miei pensieri.
E tratteggiare questi due non è certo semplice: cadere nel banale con uno come René non è difficile, e finché non vado a fondo, finché non lo scopro, questi cenni risultano complessi perché al minimo passo falso rischio di cadere in contraddizione. Mentre Sophie... Sophie prende parte di me, parte delle mie incoerenze e parte del mio carattere. Un po’ come tutti i personaggi che portano un po’ dell’autore in sé. ^^
Per ora c’è distacco, c’è diffidenza, ma pian piano arriveranno al loro punto di incontro!
E per lo stile impeccabile... ne ho di strada da fare, ma ti ringrazio per la fiducia!
Un bacione e grazie!!!

BlueSmoke: credo che quella frase possa essere presa da tante altre ragazze – e, perché no, anche ragazzi.
La verità è che mai riusciremo a mostrarci per quel che siamo veramente.
Sophie pian piano esce fuori, anche con le sue incoerenze ed i suoi sbagli.
Ed il fatto che è una grande osservatrice si è visto in questo capitolo – anche se a volte mi è sembrato di esagerare xD
Non so se il tuo periodo sia passato, ma di uomini del genere è bello leggerne, non incontrarli ;)
O, se proprio bisogna incontrali, che almeno siano imbavagliati e legati!
Ti ringrazio dei complimenti, un bacione!!!

BAMBOLOTTA: Tu hai dovuto pazientare un po’ meno, un’abbondante anteprima l’hai avuta xD
Musa mi sa che rimarrà incompleta per un altro po’ ed Ossessione è una delle storie – oddio, storia è un po’ troppo – che più mi è piaciuta scrivere!
Spero che il finale non ti abbia delusa!
Un bacione!!!

mividam: carissima! Innanzitutto, ti ringrazio per i commenti; quando a suo tempo li lessi, mi diedero molto a cui pensare. Non ho ancora uno stile definito e posso dire che, probabilmente, i momenti di stacco sono semplicemente miei tentativi di staccare da attimi che mi vedrebbero o senza via d’uscita, o che mi porterebbero a scrivere più di quanto necessiti il momento.
Le righe iniziali sono quelle che più sento mie, in cui più si può notare quanto ci sia di me.
Per ora, i tempi anche fra di loro sono lenti,  forse perché la trama non è ancora definita, forse perché io ancora non sono capace di gestirli al meglio, ma spero pian piano di riuscire migliorarmi. ^^
Ultima cosa: il mio tempo libero si è drasticamente ridotto, ma ho visto che hai postato una nuova storia, che spero di riuscire a leggerla, visto che mi è molto piaciuta anche l’altra scritta sui vampiri nel tuo sito!
Sperando che questo capitolo ti sia piaciuto, ti mando un bacione!!!

Cip93: grazie mille, troppo gentile!
Non ti biasimo se hai paura di lui, scostante com’è :|
Però, come dice Sophie, purtroppo gli occhi ci sono e da parte sua c’è il bell’aspetto.
Mix pericoloso -.-
Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto!
Un bacione!!!

Bellatrix_Indomita: è da un bel pezzo che non ci sentiamo!
Spero tu stia bene. ^^
Ti ringrazio per i complimenti, gentilissima come sempre!
Sophie ha parte di me, ma posso notare che anche voi lettrici vi trovate in lei e non può che farmi piacere!
Mentre lui... lui è una causa persa, che respinge ed attrae insieme.
Meglio legato ed imbavagliato, mi sa u.u
E spero che il lui che è stato coinvolto in queste situazioni simili non fosse stato indisponente come Duvall :|
Un bacione e di nuovo grazie!!!

lollyna: non hai nulla da farti perdonare, anzi, sono io che devo cospargermi il capo di cenere -.-
È ancora presto per dire cosa accadrà tra i due, ma sicuramente troveranno un punto di incontro per i loro caratteri non troppo simili. ^^
Sono felice che Sophie ti piaccia, e spero che il capitolo non abbia deluso le aspettative!
Un bacione e grazie!!!

Fullmoon_Darkangel: eh già, purtroppo hanno altri gusti. ^^
Spero ti sia piaciuto,
un bacione!!!

aurelia94: eccomi qua. ^^



Grazie anche a chi segue questa storia, in tutte le forme che Efp concede. ^^
Un bacione,
Anthea
   
 
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