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Autore: Yoshiko    11/10/2010    3 recensioni
"Uno scalpiccio di passi affrettati che si avvicinavano e i due si volsero all’unisono verso l’ingresso in penombra. Una sagoma si stagliò contro la porta, poi piombò a terra come un sacco di patate. La pietra che Tom aveva scagliato rimbalzò sull’impiantito e si fermò in un angolo.
-Che hai fatto?- Evelyn crollò in ginocchio accanto al corpo privo di sensi.
-È Benji!-
-Certo che è Benji!-
-Non l’avevo riconosciuto! Questa me la farà pagare cara! Non mi perdonerà mai!-"
In un mondo virtuale e nelle situazioni più improbabili, un pericoloso inseguimento, un rapimento e una tempesta creeranno situazioni impreviste e imprevedibili.
Genere: Avventura, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Hikaru Matsuyama/Philip Callaghan, Jun Misugi/Julian Ross, Kojiro Hyuga/Mark, Tsubasa Ozora/Holly
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Virtual Story'
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L’oceano distava una ventina di chilometri ma il vento che soffiava verso terra portava con sé le grida stridule dei gabbiani. Dal porto entravano e uscivano imbarcazioni a motore e a vela, minuscoli tocchi di colore che si muovevano al rallentatore su quell’immensa distesa piatta. Dal suo punto di osservazione, in cima alla collina del quartiere elegante che sovrastava la città, vedeva l’acqua azzurra che sfumava a largo in un blu profondo e impenetrabile. Era uscito di casa non appena il caldo di quell’afosa e umida giornata estiva aveva cominciato a ritrarsi e a lasciare il posto alla brezza più fresca e gradevole del pomeriggio. Dopo essersi chiuso la porta alle spalle, aveva saltellato giù per le tre rampe di scale esterne al palazzo, aveva varcato il cancello del giardino condominiale e aveva cominciato a correre lungo la pista ciclabile.
Il consueto e quotidiano percorso di allenamento prevedeva una corsa di circa cinque chilometri in pianura, uno sprint in salita fin sulla cima della collina e poi, dopo una pausa di quindici minuti per riprendere fiato, tutta discesa a passo svelto tra le strade e le stradine del quartiere fin giù al supermercato, dove avrebbe comprato la cena di quella sera.
Adesso era in piena pausa, sedeva sul muretto e si chiedeva che ore fossero. Forse le sei, o magari anche le sette.
Non lo sapeva con certezza perché quando si era frugato nelle tasche in cerca del telefonino, si era accorto di averlo dimenticato a casa. Saltò giù dal muretto e scelse uno dei viottoli a caso. Cambiava sempre percorso perché lo affrontava camminando quindi non era necessario che ricordasse la presenza di eventuali buche o disconnessioni del selciato. Gli piaceva osservare le case dei ricchi, ammirare l’eleganza dei muri di cinta, scorgere tra piante costose e rare, spicchi di giardini artistici, curati fin nel più piccolo dettaglio. Gli piaceva leggere i nomi sui cancelli, godere del silenzio interrotto solo a tratti dall’abbaiare di un cane disturbato dal suo passaggio. Ogni tanto qualche gatto pasciuto e dal pelo lucido e pulito faceva silenziosamente capolino da un angolo della strada e saltava con agilità sulle recinzioni, sparendo all’interno dei giardini senza fare rumore.  
Stavolta scelse il sentiero che l’avrebbe portato a costeggiare il muro di cinta della villa più grande. Era parecchio che non passava lì davanti. In realtà la recinzione era lunga e monotona nel suo grigio spento, tanto da rendere il percorso così noioso da sceglierlo solo di rado.
Il cielo era terso, color pervinca verso oriente, e la foschia umidiccia caratteristica delle grandi città si stava finalmente diradando grazie alla preannunciata frescura della sera proveniente dal mare. Il sole era ancora alto nel cielo e gli uccelli cinguettavano, indaffarati nel chiacchiericcio che intervallava la loro quotidiana ricerca di cibo fino al tramonto. La strada che percorreva seguendo il marciapiede era tranquilla. Da quelle parti non c’era mai confusione, tutti i rumori erano sempre soffusi, pure il rombo dei motori delle macchine giungeva attutito tra quelle strade ricche che assorbivano come per magia ogni suono fastidioso. Non aveva mai sentito una voce gridare, anche solo per chiamare, mai le risate di bambini provenire dall’interno dei parchi. A volte l’unico rumore che udiva per svariati minuti era il calpestio che produceva lui stesso.
Anche quel giorno era così immerso nel silenzio tranquillo del quartiere che il grido improvviso che squarciò l’aria lo fece saltare di un metro e gli entrò dritto nel cervello.
-Le ho detto di lasciarmi in pace! Non si avvicini! Non mi tocchi!-
Una mano sul cuore che batteva a velocità supersonica, si volse. Le grida provenivano dal lungo muro che aveva appena finito di costeggiare, quello della villa più grande. Tornò indietro e si accostò alla parete grigia, che lo sovrastava di circa un metro. Oltre il cemento tirato grezzo, fitte siepi di lauroceraso nascondevano alla vista tutto ciò che si trovava all’interno della recinzione.
-Mi lasci! Mi lasci!-
Erano senza ombra di dubbio delle grida femminili che si facevano sempre più insistenti e pressanti. Grida che gli sconvolsero lo stomaco per la loro urgenza e che lo indussero ad aggrapparsi alla parete grigia e issarsi con la forza delle braccia per poter lanciare un’occhiata al di là delle foglie verde scuro che impedivano la visuale. C’era una ragazza, la vedeva appena. E qualcuno la teneva.
Si volse indietro, verso la strada, verso le case vicine. Tutto continuava ad essere silenzioso, nessuno nei paraggi ad osservarlo e a chiedersi cosa stesse facendo lì, aggrappato ad un muretto, a spiare l’interno di una proprietà privata, a impicciarsi degli affari degli altri. Nessuno che avesse udito le urla disperate della giovane. L’unico rumore che giungeva alle sue orecchie dai dintorni era il fruscio del vento e lo stormire delle fronde degli alberi dei giardini. Persino gli uccelli avevano smesso di cantare. D’un tratto una porta cigolò sinistramente, procurandogli brividi sulle braccia e lungo la schiena.
-Non mi tocchi! Mi lasci stare!-
Ficcando la punta delle scarpe tra le fenditure del cemento, riuscì a tirarsi più su e a guardar meglio, oltre gli arbusti. La ragazza che gridava stava tentando di liberarsi dalla presa salda e forte di un possente uomo in nero. Le due figure si trovavano proprio sulla veranda della villa ma l’ombra proiettata dall’edificio rendeva impossibile distinguere i loro volti. Cavolo però, che accidenti di casa!
Non aveva mai visto niente di così lussuoso e allo stesso tempo pacchiano. L’edificio su due piani era di un chiassoso rosa shocking con rifiniture, colonne e bordini barocchi bianchi come la neve. Dal suo punto di osservazione la planimetria della villa era indefinibile. Dietro la facciata animata da complementi di dubbio gusto, tutto quel fucsia proseguiva ancora parecchio, continuando forse per decine di metri sul retro. Al centro del tetto terrazzato sorgeva una specie di tempietto rotondo circondato da colonne; scendendo con lo sguardo verso il basso ci si scontrava con l’alcova del secondo piano che si protendeva a semicerchio verso l’esterno e verso la doppia scalinata che scendeva a terra in un tripudio di colonnine bianche, così numerose da costituire una fatica non da poco contarle tutte. Uno spazio triangolare si apriva nel muro sotto la scalinata e sulla parete erano state tracciate strisce orizzontali e verticali ad imitare un’improponibile sequenza di mattoni rosa. Quella specie di ballatoio triangolare era separato dall’esterno da un’ampia cancellata bianca a quattro ante, ciascuna fregiata di un grande fiore di ferro battuto. Oltre di essa un piccolo ballatoio introduceva all’abitazione vera e propria attraverso una porta in legno anch’essa verniciata di bianco.
La ragazza che gridava era proprio lì, in quell’ingresso, nel tripudio di bianco e rosa che faceva male agli occhi. E a parte la conturbante e prepotente tonalità che si insinuava nel cervello in lievi stilettate, il problema più grande era rappresentato dalla siepe di lauroceraso in piena fioritura. Il profumo di quelle corolle era così intenso da stordirlo e fargli prudere il naso. Soffocò il primo starnuto contro il braccio, riuscì a mandare indietro il secondo e inghiottire il terzo. A quel punto i suoi occhi erano diventati un lago di lacrime e non riusciva più a mettere a fuoco la ragazza. Si passò un lembo della maglia sulla faccia e tornò a guardare. La giovane adesso era riversa a terra, il sole illuminava finalmente il suo volto e riuscì a riconoscerla.
Sussultò e soffocò un grido.
-Evelyn!-
Si aggrappò al muro e saltò dall’altra parte, finendo in un tripudio di foglie e i fiori. Un attacco inarrestabile di starnuti lo investì ma Evelyn continuava a gridare, impedendo all’uomo di udirlo e prendere atto della sua presenza. Costeggiò il giardino piegato in due, il naso che gli prudeva da impazzire, quell’energumeno che strattonava Evelyn con forza e lei che cercava in tutti i modi di impedirgli di trascinarla in casa, avvinghiandosi come una scimmia alla cancellata.
E quando fu ad un passo da loro vide chiaramente la lama di un coltello a serramanico emanare sinistri bagliori alla luce del sole. Allora si chinò, scalzò una pietra dal terreno, si avvicinò di soppiatto ancora per un bel tratto e prese bene la mira. Tirò indietro il braccio e lanciò.
La pietra si schiantò sulla tempia dell’uomo con uno schiocco secco. Lui per pochi istanti si bloccò, spostò gli occhi dalla ragazza al giardino senza riuscire a metterlo a fuoco, perché si rivoltò all’indietro e crollò a terra con un tonfo.
-Caspita che mira!-
-Non mi ci far pensare! Temevo di sbagliare e colpire te!- tese una mano e l’aiutò a tirarsi in piedi. Poi starnutì un paio di volte.
-L’avrai mica ammazzato?-
Tom non volle riflettere su una tale eventualità.
-Che voleva da te?-
-Ecco, veramente...-
Uno scalpiccio di passi affrettati li spinse a voltarsi all’unisono verso l’ingresso in penombra. Una sagoma si stagliò contro la porta, poi piombò a terra come un sacco di patate. La pietra che Tom aveva recuperato e scagliato per la seconda volta, rimbalzò sull’impiantito e giacque in un angolo.
Evelyn si portò le mani al viso sgomenta, poi crollò in ginocchio accanto al corpo privo di sensi.
-Che hai fatto?-
Tom si accostò, in preda a brividi di terrore.
-È Benji!-
-Certo che è Benji!-
-Non l’avevo riconosciuto! Ommioddio! Questa me la farà pagare cara! Non mi perdonerà mai!-
-Sempre che sia ancora vivo!-
-Non dirlo neppure per scherzo!- Tom si inginocchio dall’altro lato e allungò una mano. Le dita trovarono sul collo la vena pulsante di vita -Respira ancora…- il sollievo gli provocò un paio di starnuti, poi raddrizzò la schiena e si guardò intorno. L’uomo colpito in precedenza era ancora steso a terra.
Un cane abbaiò dal giardino di una delle case del vicinato, riscuotendoli dallo sgomento. Era arrivato il momento di sparire.
-Aiutami.- Tom agguantò il corpo esanime di Benji e se lo caricò sulle spalle con uno sforzo madornale. Il compagno non era decisamente un peso piuma.
-Cosa vuoi fare?-
-Filarcela e portarlo con noi.- la fissò negli occhi -O preferisci rimanere qui? Che poi qui… che posto sarebbe?-
-Dopo, Tom.-
Evelyn corse verso il cancello pedonale, mentre il ragazzo la seguiva arrancando piegato dall’insostenibile peso dell’amico svenuto. Quando lei premette il pulsante sulla colonna in laterizio, la serratura scattò con un rumoroso schiocco. Afferrò le sbarre e aprì. Non appena anche Tom lo ebbe varcato, sbuffando di fatica, lo richiuse dietro di loro.
-Jack!- gridò una voce dalla casa -Ma che diavolo…!-
Soltanto la ragazza si volse a guardare cosa stesse avvenendo dietro di loro. Tom proseguì caparbio, accelerando il più possibile l’andatura. Li avevano scoperti.
-Evelyn, muoviti!- la incitò, non sentendo più dietro di sé il rumore dei suoi passi.
L’ingresso della casa vomitò all’esterno altri uomini in nero che si ammassarono sullo stretto ballatoio, urtandosi l’uno con l’altro mentre cercavano di capire cosa stesse accadendo. Qualcuno li individuò.
-Ehi! Voi due! Fermi!-
-Tom, sono armati!- il terrore ruppe la voce di Evelyn.
-Bob! Taylor! La macchina!- sentirono gridare -La ragazza sta scappando! Bisogna riprenderla a tutti i costi!-
Tom si orientava alla perfezione tra le stradine che costellavano il declivio della collina. Conosceva ogni svolta come le sue tasche. E stavano procedendo in discesa. Ma Benji gli gravava addosso in modo insopportabile. Bastarono poche centinaia di metri e le sue gambe cominciarono a rifiutarsi di procedere. Si fermò e appoggiò la schiena del portiere contro il muro, lasciandoselo poi scivolar giù dalle spalle. Il cuore gli stava scoppiando per lo sforzo.
-È troppo pesante, ci riprenderanno!-
-Ti aiuto! Portiamolo insieme!-
Evelyn si passò un braccio esanime dietro al collo, Tom fece altrettanto e ripresero ad allontanarsi con tutta la fretta che il peso del compagno svenuto consentiva loro.
Le strade che percorrevano seguitavano ad essere silenziose e desolate. Se Tom non fosse stato sicuro del contrario avrebbe creduto di trovarsi catapultato di colpo in una città fantasma. Si introdussero in un viottolo tra i muretti di cinta dei villini, percorsero a zig-zag le stradine, sperando di far perdere le loro tracce.
Si fermarono a riprendere fiato al riparo di una siepe verde e rigogliosa che ricadeva oltre un muro, occupando con i suoi tralci verdi pieni di foglie e di fiori bianchi la maggior parte del marciapiede. Appoggiarono Benji alla parete di mattoni grezzi e lui gemette debolmente. Il sangue gli tingeva di rosso una tempia, lì dove la pietra scagliata da Tom lo aveva colpito. Un rivoletto scarlatto gli solcava la guancia, attraversandogli il viso per tutta la lunghezza e andando ad imbrattare il colletto della camicia a scacchi nerazzurra che indossava.
-Una clematide.-
Tom la guardò stravolto raccogliere delle piccole sfere arancioni.
-Una che?-
-Una clematide. La pianta.-
-Cosa stai facendo?-
-Prendo i frutti.-
-Ti sembra il momento?-
-Non so che altro fare.- ne colse altri due e poi, quando non ebbe più spazio nelle tasche, lo guardò piena di speranza -E adesso?-
-Sento il rumore di una macchina. Se passa da qui fermala.-
-Dobbiamo andare in ospedale. Forse Benji ha qualcosa di rotto e ha bisogno di cure.-
-Qualsiasi posto va bene purché riusciamo ad allontanarci da quella casa e dai suoi inquilini.-
-Tom, se quell’uomo è morto…? Cosa facciamo?-
-Non pensarci adesso. Non è il momento. Troviamo qualcuno che ci dia un passaggio e su tutto il resto ci angustieremo più tardi.-
Una macchina si stava effettivamente avvicinando. Dovevano solo sperare che tra tutti i vicoli e vicoletti imboccasse proprio quello in cui si trovavano loro. 
   
 
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