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Autore: RubyChubb    12/10/2010    1 recensioni
Un giorno in più o in meno dentro a quel carcere non faceva ormai molta differenza per lei, che ormai vi aveva passato tre anni e mezzo della sua vita per un fatto che aveva commesso con piena e riconosciuta colpa. Non si era mai dichiarata innocente, la coscienza e l’evidenza dei fatti non glielo avevano permesso. Un mese in più o in meno, invece, cominciava a fare sentire il suo peso. Se poi pensava a quattro anni tagliati tutti d’un colpo, Meg poteva mettersi a piangere dalla felicità. E fu infatti quello che fece. Camminava e piangeva, con le mani bloccate all’altezza del bacino non poteva asciugare le lacrime, ma non le importava. Una volta tornata in istituto avrebbe chiamato i suoi, a casa, per riferire la notizia. Non erano venuti: papà si era fatto prendere dalla febbre stagionale ed il tribunale scatenava in mamma dei violenti attacchi di panico. Diciotto mesi e tutto sarebbe finito.
Genere: Drammatico, Generale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO CINQUE
 
Daisy li scrutò a lungo, programmando la sua mente per ciò che aveva promesso. Ognuno aveva alcune piccole buste di carta con dei nomi impressi a specificare la natura del loro contenuto: erano semi, dovevano essere piantati per permettere loro di attecchire nel terreno caldo di luglio e crescere durante l’inverno dentro la serra. Non sapeva spiegarselo, ma Meg si sentiva contenta: avrebbe avuto delle piante personali da coltivare e curare in proprio, senza l’interferenza di nessuno. Le era capitato spesso di lavorare dei fiori in una determinata maniera per poi scoprire che, il giorno dopo, Daisy aveva ritoccato il suo operato. Lo trovava piuttosto frustrante, un tentativo di dimostrarle quanto la riteneva incapace di imparare i concetti fondamentali del lavoro.
Osservò la bustina tra le sue dita, leggendovi ‘viola del pensiero’. Quella pianta produceva fiori molto grandi e dai colori sgargianti che andavano dal bianco al nero puro, ma erano privi di profumo, a cinque petali, con il centro scuro oppure giallo, in contrasto con il resto del fiore. Le piaceva, per quello l’aveva scelta.
“Allora, avete capito cosa dovete fare?”, chiese Daisy al gruppo, che rispose con un lamentoso sì.
Si armarono di vasi, di terriccio e di pazienza.
“Letto il libro?”, le chiese Carlos, sistematosi accanto a lei.
“Certamente!”, rispose, “L'ho finito il giorno stesso.”
“E cosa ne dici?”
Meg affondò le dita nel suo sacco. La sensazione intensa le tolse le parole per qualche attimo. La terra era scura, morbidissima e l'odore era forte ma inaspettatamente gradevole. Le sembrò di trovarsi nel mezzo di un bosco vergine, dove la pioggia aveva bagnato il terreno sotto ai suoi piedi e le piante le restituivano il loro vero profumo.
Intanto il chiacchiericcio degli altri detenuti si levò attorno ai due.
“Beh... Non lo so.”, disse, una volta ripresa, “Interessante come tematica, ma non l'ho gradita.”
“Dici sul serio?”, fece l'altro stupito.
“Sì... Gli animali, il fattore, la rivoluzione e la dittatura...”, elencò monotona, “E poi?”
“E' il significato politico che deve farti riflettere!”
“Ho riflettuto abbastanza da capire che non mi è piaciuto.”, ripeté, “In se stessa la storia è... Retorica!”
Afferrò con decisione una buona manciata di terriccio e la sistemò nel suo vaso. Carlos la imitò.
“La politica è sempre retorica. Forse sarebbe più corretto da parte tua dire che è la politica a non piacerti, invece del romanzo.”
“Può darsi... Ma di Orwell preferisco '1984'.”
“In sostanza, ci sono molti punti in comune tra i due libri.”, ribatté Carlos, “'1984' parla del controllo sulle masse, della manipolazione dell'uomo e del suo pensiero attraverso la selezione dell'informazione. Il Grande Fratello non è altro che una struttura centralizzata e mistificata che ha la capacità di incutere timore ed evitare che l'idea possa svilupparsi apertamente. I maiali della fattoria si comportano in una maniera analoga. Sottomettono gli animali con l'idealizzazione del lavoro...”
La sensazione di essere osservata punse la nuca di Meg ma non vi prestò molta attenzione. Si accorse di aver riempito il vaso a sufficienza.
“Sono pienamente d'accordo con te.”, disse ancora, “E' solo che trovo 'La fattoria degli animali' una novella quasi fine a se stessa, mentre '1984' ha colto totalmente il mio interesse. Non sono stata a riflettere sul vero significato dei simboli, ma l'ho davvero gradito.”
“Per anni sono stato appassionato del filone fantapolitico, ho esplorato tutta la letteratura in merito. Forse è il mito che è stato costruito attorno allo scritto, ma non posso negare che '1984' non perda mai il suo fascino. Vedi, diventa ogni giorno sempre più attuale.”, Carlos si prese una pausa, anche il livello della terra nel suo vaso era soddisfacente, “Se ci pensi bene, in un modo o nell'altro l'informazione è costantemente manipolata.”
Meg ebbe modo di soppesare le parole. Nel frattempo inserì tre dita nel terriccio compattato in punti egualmente distanti tra loro.
“In che senso?”, chiese, incuriosita.
“Riportare un fatto è manipolarlo. Io ti racconto cosa ho fatto oggi e tu passi il messaggio ad un altro. Lo riduci, non userai mai le stesse parole che ho detto e inevitabilmente lo manipoli, anche se non lo fai con cattive intenzioni. Io stesso, parlandone a te, do una mia interpretazione del fatto...”
Gli occhi di Meg si fecero due fessure.
“Dare una brutta notizia in veste buona, raccontare una bugia bianca, ovviare sul fatto che il nostro stile di vita stia distruggendo il mondo... E' manipolazione.”, continuò Carlos.
“Intendi dire che, alla luce di ciò che ha scritto Orwell sul controllo della massa attraverso la manipolazione dell'informazione... Si può distorcere la verità e avere il potere sul mondo?”
Carlos venne interrotto da una voce estranea.
“Hai scoperto l'acqua calda!”
I due si voltarono alla loro destra.
L'agente Jones sorrideva con soddisfazione.
Meg lanciò un'occhiata stranita al suo compagno di discussione letteraria.
E' scemo?
Volle ignorarlo ma riprese a parlare.
“Intendevo dire...”, aggiunse ancora Jones, “E' logico che l'informazione veicoli il potere da una parte all'altra della politica. Regolandone il flusso, puoi scatenare le folle oppure ammansirle.”
E' scemo.
Meg ne ebbe l'infinita certezza. Doveva starsene fuori dalla loro conversazione, non era saggio che partecipasse.
“Vedi, questa è quella che chiamo coscienza politica!”, esclamò Carlos ridendo.
Meg scosse la testa, inserì due semi per ognuno dei buchi e li ricoprì. Improvvisamente non aveva più alcun interesse per la conversazione. Certamente quell'individuo li aveva ascoltati da cima a fondo, spiando le loro parole come se fossero state pericolose. Era ovvio che dentro le mura del carcere la privacy era il bene più prezioso di cui nessuno poteva disporre a piacimento, ma lei e Carlos non avevano niente da nascondere. Stavano semplicemente scambiandosi opinioni.
Era straziante non avere il beneficio del dubbio.
“Agente Jones.”, lo chiamò Carlos, “Lei dovrebbe starsene dietro ad una cattedra!”
“Preoccupatevi di fare bene il vostro lavoro.”, li riprese Daisy, apparsa dal niente nelle loro vicinanze, “E parlate con la bocca, non con le mani!”
Li guardò con aria infastidita per un lunghissimo attimo, per poi tornarsene dalle sue preferite.
“Non ho capito cosa ci ha detto.”, fece Carlos.
“Lavorate, è meglio.”, aggiunse l'agente Jones.
“Ok.”, borbottò Meg, innervosita fino all'ennesima potenza.
Prima o poi avrebbe avuto l'occasione per dirgli qualcosa di così acido da farlo zittire, e se fosse uscita senza averlo fatto non se lo sarebbe mai perdonata. Non era quello il momento, le sue violette del pensiero avevano bisogno di tutta la cura possibile.
“Hey, una domanda.”, la interruppe Carlos, “Se non erro, prima di mettere il terriccio dentro al vaso è necessario utilizzare dell'argilla espansa... E sarebbe addirittura meglio se mescolassimo i due componenti.”
Un fulmine a ciel sereno la sconvolse. Era vero, Carlos aveva ragione, e lei si era dimenticata uno dei primi insegnamenti di Daisy. Si doveva permettere alla pianta di crescere in un terreno ben areato, era quello lo scopo di mescolarlo con le palline di argilla espansa. Il suo lavoro era tutto da rifare.
“Cazzo...”, sibilò, “E adesso? Ho già piantato i semi!”
Il suo compagno di corso assunse una strana espressione intellettuale, si grattò i capelli neri e lunghi e scrollò le spalle.
“Prendi un altro vaso e inizi da capo.”, disse ridendo, “Semplice, non credi?”
Nient'affatto, aveva sprecato un sacco di semi e nella sua bustina non ne rimanevano molti altri. Non poteva sprecare quelli che aveva già piantato ma non sarebbe stato facile recuperarli. Dio, quanto voleva sapere che cosa aveva nel cervello da renderla così idiota. Avrebbe voluto gettare tutto a terra e imprecare contro tutto e tutti finché non l'avrebbero rinchiusa in isolamento per una settimana.
“Dai, non avercela con te stessa.”, le fece Carlos, “Anch'io devo rifare tutto.”
“Perché?”, gli chiese sbuffando, senza alcun interesse.
“Medesimo errore. Sbrighiamoci, prima che Daisy se ne accorga e ce ne faccia vergognare.”
Meg non ebbe idea di cosa Carlos aveva in mente quando mosse rapidamente la mano, ma vedere entrambi i loro vasi cadere a terra e frantumarsi le chiarificò ogni dubbio. Tutti gli studenti si voltarono, spaventati dal rumore stridente dei cocci rotti. Daisy accorse da loro piena di preoccupazione.
“Cosa avete combinato!”, sbraitò con voce stridula, “Siete i peggiori del gruppo!”
Memore della sua prima disavventura, Meg non si chinò a raccogliere i frammenti di vaso rotto e, non appena si accorse che Carlos stava per farlo, gli fece capire di starsene immobile con un rapido cenno della testa. Non seppe spiegarselo, né fu capace di impedirlo, ma i suoi occhi caddero sull'agente venuto dal freddo del Nord. Era un sorriso quello sulle sue labbra? Sì, lo era. Li aveva tenuti d'occhio, sapeva che cosa avevano fatto, era a pochi passi da loro, ma non mosse un dito per fermarli, né per aiutare Daisy nel ripulire il pavimento.
“Siete dei disgraziati!”, si lamentò la donna, “Non metterò una buona parola su di te, quando il direttore mi convocherà a fine corso!”
“Beh, non credo di uscire da qui molto presto!”, rise Carlos.
“Mi riferivo alla signorina Megan!”, tagliò subito Daisy,
Non poteva dichiarare l'odio per lei in un modo migliore, pensò Meg, che scosse la testa e si limitò a sbuffare, come al suo solito.
“Vado a prendere dei nuovi vasi.”, disse.
“Saggia decisione!”, ribatté subito Daisy, “L'unica nella tua vita!”
Il silenzio divenne tombale, neanche Carlos ebbe il coraggio di fiatare. Quel commento cadde nel vuoto per Meg, le rimbalzò addosso e si dissolse senza scalfirla minimamente. Daisy doveva avere sempre l'ultima parola, era sfiancante starle accanto. Sotto gli occhi di tutti, si allontanò dal luogo dell'incidente; pochi attimi dopo il gruppo accorse a dare una mano all'insegnante, rendendosi utile nel portare via i cocci, il terriccio caduto e ripristinando la situazione al tranquillo status quo. Nessuno dei due agenti si preoccupò di controllarli o di perquisirli, come invece era successo a lei, ma non ci fece troppo caso. Molto probabilmente quello zoticone avrebbe avuto qualcosa da ridire, ma doveva essere stata la sua collega a fargli cambiare idea.
Oppure se n'era fregato.
I vasi nuovi se ne stavano al loro solito posto, dentro ad un armadietto stracolmo di materiale di ogni genere. Non appena lo aprì, si rese conto che avrebbe dovuto spostare almeno un paio di sacchi di terra, tre o quattro palette e due dozzine di guanti da lavoro. Ne aveva voglia? Assolutamente no. Valutò la situazione, la posizione degli oggetti e il loro peso, poteva farcela a prendersi i vasi senza dover perdere tempo a togliere il fastidio e poi riporlo.
Si inginocchiò ed afferrò i vasi per il bordo esterno, tentando di tirarli a sé e farli uscire. Se ne rimasero perfettamente al loro posto, senza spostarsi di un solo millimetro. Convinta di potercela fare, Meg non demorse, testarda fino in fondo. Forse doveva prendergli meglio. Allungò le mani, nascondendole nel buio dell'armadietto.
Un dolore acuto e profondo, pieno e caldo.
Meg gridò, ritrasse la mano in un attimo e la sensazione si fece ancora più intensa.
Guardò la sua mano, ricoperta di rosso cupo, di sangue.
Chiuse gli occhi e si accasciò a terra.
 
 
 
Il grido della ragazza aveva risvegliato l'attenzione di tutti, catturata dalle operazioni di pulitura del piccolo danno causato da lei stessa e dal suo compagno di giochi preferito. Danny per primo accorse da lei, era il più vicino, e vide subito la macchia rossa che si espandeva sul pavimento. Meg era svenuta.
Afferrò subito la sua ricetrasmittente.
“Centrale, è l'agente Jones. Una detenuta si è ferita alla mano, non so quanto è grave ma dobbiamo portarla in infermeria al più presto. E' svenuta. Passo.”
Uno sfrigolio.
Rimani in attesa, agente.”
Gli altri accorsero, chiudendosi attorno a loro. Anche Daisy ebbe un mancamento, la sentì iperventilare alle sue spalle e la sua collega Morris dovette soccorrerla, aiutata dalle pupille dell'insegnante.
“Sì è tagliata.”, disse Carlos accucciandosi, e le prese la mano, “E non sembra affatto una sciocchezza. Trovate degli stracci puliti! E anche l'acqua!”
“Non credo che sia saggio medicarla.”, si oppose Danny, “C'è il rischio che si infetti. Ho chiamato la centrale, devono darci l'autorizzazione per uscire da qui, arriverà a momenti.”
Il detenuto lo ignorò completamente. Le altre donne, alla ricerca frenetica di qualcosa di pulito, portarono un asciugamano raccolto nei pressi del lavabo della serra, tutt'altro che fresco di lavanderia, mentre una di loro offrì una bacinella d'acqua, che certamente non aveva mai visitato gli ingranaggi dell'impianto di depurazione.
Carlos tamponò la ferita e sciacquò via il sangue.
“Fermati!”, Danny lo bloccò di nuovo, “Ti ho detto che dobbiamo attendere il via per uscire di qua! Non medicarla!”
Il detenuto si innervosì.
“Mi ascoltami.”, rispose, “Finora i suoi amici della centrale non si sono fatti sentire e il taglio è così profondo che può vedere le ossa della sua mano... Che cosa vuole fare? Mettersi a fischiare l'inno nazionale o aiutarla?”
Avrebbe potuto alzarsi, intimargli di allontanarsi e, se si fosse opposto, estrarre la pistola dalla fondina e minacciarlo, non aveva alcuna paura di lui. Ma non lo fece. Se ne rimase a guardarlo mentre si prendeva cura della mano di Meg con una delicatezza che non sembrava appartenergli.
“Annelise, portami altra acqua.”
“Subito.”
Non appena ebbe finito di lavare via il sangue in eccesso, fasciò l'arto con la stoffa, stringendo più che poté.
“Questo dovrebbe servire a fermare temporaneamente l'emorragia.”, disse Carlos, “E quest'altro dovrebbe anche farla risvegliare.”
Prese una manciata d'acqua pulita e gliela versò sul viso. Gli occhi di Meg si aprirono, sbattendo velocemente per un'infinità di volte.
La ricetrasmittente si mise a parlare.
Agente Jones, portate la detenuta in infermeria. Il dottore sta arrivando. Passo e chiudo.”
Finalmente, si disse Danny tirando un sospiro di sollievo.
“Avanti, mettiti seduta...”, le disse Carlos, invitandola ad alzarsi.
Era stordita, sembrava non comprendere cosa le fosse successo. Non appena tentò di drizzare la schiena, aiutandosi con la mano ferita, il ricordo dovette guizzarle in testa e, senza alcun preavviso, svenne di nuovo.
“Mi aiuti.”, gli ordinò ancora il detenuto, “Non ce la farà mai a portarla in infermeria da solo.”
 
 
 
Le palpebre scattarono, si aprirono e la inondarono di luce bianca. Sapeva di trovarsi su uno dei lettini dell'infermeria, lo aveva sospettato fin dal primo momento di conoscenza, e guardò di sbieco la mano per controllarne lo stato. Era pronta a svenire di nuovo. La fasciatura era spessa ed ampia, così stretta da non permetterle di muovere le dita, né di percepire il calore del sangue dentro di esse. Se doveva essere sincera il suo intero braccio destro aveva perso ogni collegamento con il resto del suo corpo, non soltanto la mano, e sembrava essere morto.
E' l'anestesia, idiota.
Si era tagliata e non sapeva come era successo. Si ricordava di Carlos, dei cocci rotti a terra, del tentativo di estrarre i vasi dall'armadietto, e poi era venuto il dolore, il rosso cupo ed aveva perso conoscenza. E pensare che fino ai diciotto anni era stata in grado di guardarsi le scene più truculente dell'ultimi film di paura in circolazione.
Ma tutti cambiano.
Puntò l'unico gomito sano sul materasso del lettino e si fece forza, voleva sedersi e uscire da lì al più presto. Non fu facile, si sentiva debole e l'anestesia non la aiutava; stava lentamente dissolvendo il suo effetto e il dolore iniziava a farsi sentire. Le altre dita andarono a esplorare la superficie grezza della benda.
“Hey, come stai?”
Scattò sull'attenti e fissò davanti a sé.
L'agente Jones se ne stava al di là di una scrivania bianca ed attendeva una risposta.
“Bene...”, disse incerta.
“Non ti sforzare troppo.”, le consigliò, prima di chinare il capo.
Meg lo osservò scrivere, era concentrato sul suo lavoro. Le venne una curiosità impossibile da ignorare.
“Posso sapere cosa sta facendo?”, gli domandò.
La risposta giusta di una qualsiasi altra guardia sarebbe stata 'i cazzi miei',
“Devo stilare un rapporto su ciò che è accaduto nella serra.”, spiegò l'agente, “E consegnarlo ai miei superiori.”
“Non parlerà male di me, spero.”, ricambiò subito, un attimo prima che un giramento di testa la costringesse a sdraiarsi di nuovo.
La schiena cadde con un tonfo sul materasso, senza alcuna grazia, e Meg emise un gridolino di dolore soffocato. La testa era un vortice, immersa in un turbinio di pessime sensazioni che si stavano velocemente trasferendo verso il suo addome.
In uno schiocco di dita l'agente accorse da lei.
“Cos'è stato?”, le chiese, “Ti senti bene?”
Più che la sua colazione spingeva sulle pareti dello stomaco, più che Meg si sforzava di ricacciarla giù, prendendo profondi respiri e stringendo i denti.
“Ti chiamo un dottore.”
Afferrò l'agente per un braccio, stringendolo con tutta la forza che possedeva. Lo guardò dritto negli occhi, ignorò la sua espressione quasi spaventata, non si curò di una sua possibile reazione violenta.
“No... Dammi un...”
Un conato più forte di tutti gli altri, lo trattenne con le dita sane premute sulla bocca. Libero dalla sua stretta, l'agente si guardò intorno, doveva aver capito il pericolo imminente.
 
 
 
Localizzato il target, corse verso il cestino della carta straccia e, appena un attimo prima dell'esplosione, lo dette alla detenuta. Un secondo di ritardo e uno spettacolo raccapricciante avrebbe illuminato la sua giornata. Anzi, l'imminente fine del suo turno. Si voltò, le dette la poca privacy di cui poteva disporre, e sopportò i suoi lamenti.
Con l'aiuto di Carlos, poi di uno dei suoi colleghi, l'aveva portata di peso in infermeria, dove l'aveva lasciata alle mani del dottore e della sua infermiera. La ragazza era rimasta incosciente per tutta la durata della piccola operazione e si era risvegliata circa un'ora dopo la conclusione; era stata anestetizzata localmente e, con aghi e filo chirurgici, la sua ferita era stata chiusa. Non era così grave come aveva preannunciato Carlos, nonostante i sei punti che la suturavano da una parte all'altra, e il dottore aveva assicurato che, in capo a tre settimane, sarebbe rimasta soltanto una piccola cicatrice.
Una in più a segnarla per sempre.
“Posso andare in bagno o devi seguirmi fin lì?”
Le tolse le spalle.
La trovò con il cestino in mano, le labbra coperte e lo sguardo basso.
“Vai pure.”, le fece.
Tornò a sedersi dietro la scrivania, aveva il rapporto da concludere e consegnare nel più breve tempo possibile. Ne aveva scritti molti prima di quello, redatti in pochi minuti e recapitati senza una minima rilettura, ma mai aveva dovuto fermarsi, prendere in mano le fila dell'accaduto e riportare tutto in maniera sensata e reale. Era stato a lungo a pensare, seduto su quella scomoda sedia con la penna immobile tra le dita. Descrivere gli attimi precedenti era stato semplice: dopo aver concluso il turno di sorveglianza si era recato alla lezione, insieme al detenuto Barreiro. Con l'aiuto dell'agente Morris aveva tenuto sotto controllo la serra. Non aveva aggiunto altro, si era fermato al momento di riportare le generalità della detenuta ferita. Si chiamava Megan, e poi? Non ne aveva idea, non ricordava.  E non era quello il suo problema.
C'era stato qualcosa che non era andato per il verso giusto, qualcosa che lo stava facendo riflettere a fondo.
Meg lasciò il bagno e tornò a sedersi sul letto, le braccia se ne stavano sistemate sul grembo e la faccia era di un pallore preoccupante. La osservò attentamente prima di parlarle.
“Ehm... Potresti dirmi come ti chiami?”, le chiese.
“Meg...”, rispose mestamente, “Megan Sarah Howard.”
“Grazie.”
Scrisse le tre parole, Megan Sarah Howard. E di nuovo la penna si bloccò. Stropicciò gli occhi, era stanco e avrebbe voluto chiudersi nel suo appartamento in compagnia dei suoi pensieri. Aveva bisogno di trovare una ragione alle incertezze che si stavano velocemente solidificando nella sua testa come mai prima di qualche tempo a quella parte.
“Tutto ok?”, gli chiese Meg.
Alzò il viso dal foglio.
“Sì.”, le fece.
Doveva terminare quel rapporto e soltanto allora avrebbe potuto lasciare il carcere. Era il caso di sbrigarsi.
“Potresti aiutarmi con il letto?”, domandò ancora Meg, “Vorrei... Alzare la testata, non riesco a stare seduta.”
“Certo.”
La aiutò, con quella mano fasciata non sarebbe stata in grado di farlo da sola. La accontentò con poco sforzo e, una volta accomodati i cuscini, le permise di accomodarsi come meglio voleva, semi seduta. La relazione fu di nuovo nelle sue mani di lì a poco. Rilesse l'ultima frase, o meglio, il troncone incompiuto.
La detenuta Megan Sarah Howard
 “Grazie, agente.”
“Come sta la mano?”
“Credo che presto avrò bisogno di un antidolorifico. Sta iniziando a farmi molto male.”
“Ne hai bisogno adesso?”
La ragazza si fece titubante.
“No... Tra un po'.”
Le abbozzò un sorriso e le parole del suo rapporto tornarono davanti ai suoi occhi.
“Non scherzavo prima quando le ho chiesto se avrebbe parlato male di me.”, lo interruppe di nuovo.
Danny si vide costretto ad accantonare momentaneamente le sue speranze di fare presto un buon ritorno a casa.
“Non ti preoccupare. Sto soltanto scrivendo cosa è  successo nella serra.”, la rassicurò.
“Ok...”, e tentennò, “Ometterà che... Lo abbiamo fatto di proposito?”
Aggrottò la fronte e cercò la risposta giusta. Non poteva dirle che lui stesso aveva coscientemente evitato di riportare che i due detenuti avevano tenuto un comportamento poco consono allo svolgersi delle lezioni, chiacchierando di politica e letteratura e gettando a a terra i loro vasi, per rifare un lavoro partito male sin dall'inizio.
“Vedremo.”, le fece.
“La prego, agente, non lo scriva...”, insistette Meg.
“A che scopo?”, ebbe la curiosità di domandarle.
“Perché... Non vogliamo fare una... Brutta figura con la signorina Daisy.”
Era la scusa più rattoppata e piena di falle del mondo, Meg se ne accorse di lì a poco. Lo stava pregando perché voleva evitare provvedimenti disciplinari, per non macchiare la condotta degli ultimi mesi di condanna. Era necessario spenderli senza compiere cazzate, o il direttore non avrebbe mai scritto la sua lettera di raccomandazioni, se così si poteva chiamare il foglio di buona uscita che veniva dato in mano al detenuto, prima di lasciarsi le sbarre alle spalle.
“Ok, non lo scriverò.”, le disse, “Ma in cambio devi raccontarmi come hai fatto a ridurti la mano in quello stato.”
Meg sospirò.
“Non lo so... E' successo e basta.”, spiegò, “Prendevo i vasi e mi sono tagliata.”
Era la verità, ma c'era qualcosa che spuntava tra i pensieri di Danny. Un dubbio insensato e fuori luogo, ma doveva sfatarlo.
“Non hai cercato... Di farlo di proposito?”
“Certo che no!”, esplose subito Megan, “Non sono così... Così idiota.”
Lo strano movimento dei suoi occhi, l'esitazione, il marcare poco convincente della sua voce. Danny ebbe qualcosa in più su cui fermarsi e pensare a lungo.
“Ok.”, si accontentò.
Ma le parole arrivarono.
La detenuta Megan Sarah Howard si è  accidentalmente procurata una ferita da taglio sulla mano destra nell'atto di prelevare dei nuovi vasi dall'armadietto, situato nella zona sinistra (rispetto all'entrata) della serra. Ha perso conoscenza in seguito alla vista del suo stesso sangue. L'atto non è stato intenzionale.
Danny mordicchiò la penna. Sottolineò la frase.
L'atto non è stato intenzionale.
Non ne era certo, ma sentiva di farlo.
E c'era comunque qualcosa di sbagliato anche in quello, così come nel non aver dichiarato il falso incidente inscenato dai due.
“Sei sicuro di star bene?”, domandò di nuovo Meg.
“Sì... Sì, sto bene.”, le fece, distrattamente.
“So che non sono fatti miei...”, la sua voce era scocciata, “Ma...”
Danny sbuffò sonoramente. Appoggiò la penna, scostò i fogli, si tolse il capello e passò le dita tra i capelli.
“E lo sai piuttosto bene.”, le rispose altrettanto alterato, “Ti sto facendo un grosso favore, quindi per cortesia lasciami finire questa relazione!”
Meg lo fissava con occhi spalancati ed era spaventata. Danny non sapeva cosa fare.
Aveva alzato la voce, quasi gridato, ed era arrabbiato, fottutamente incazzato per colpa di tutta quella fottuta situazione, di quella giornata che non avrebbe mai e poi mai dovuto vivere.
Afferrò di nuovo la sua biro, firmò la relazione e si alzò.
La sedia stridette sul pavimento, la porta sbatté.
Quindici minuti dopo era sulla via di casa.
Guidava e non sapeva dove stava andando, la strada non gli era mai sembrata così sconosciuta. I suoi gesti erano meccanici, le marce si ingranavano da sole e i piedi sapevano esattamente quando premere la frizione, poi l'acceleratore. I suoi pensieri, invece, erano del tutto impulsivi, si inseguivano l'uno con l'altro senza sosta, senza alcun freno. Non venivano gestiti, selezionati o catalogati tra sensati e non, erano una pioggia insistente che lo offuscavano.
Aveva sbagliato tutto, o forse niente. Non avrebbe mai dovuto fare quel lavoro, oppure era giusto per lui.
Tutto per uno stupido incidente, per un taglio sulla mano di una detenuta, una giovane ragazza rinchiusa lì dentro per aver tolto la vita ad un'altra o ad un altro, Danny non sapeva. Tutto per aver permesso ad un carcerato come lei di aiutarla, mentre lui, attenendosi alle regole, non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione. Quel taglio non era mai stato mortale, né avrebbe avuto ripercussioni troppo gravi, ma era il principio a disturbarlo.
Il principio derivato dal fatto che lui, una guardia, aveva saputo cosa e come farlo, e Carlos, il detenuto, aveva ignorato il suo ordine e si era comportato come una qualsiasi altra persona avrebbe fatto.
Ma non come l'agente Jones.
Si rese conto che, allo stesso modo, l'agente Jones rompeva a suo piacere le regole imposte al suo corpo di polizia. Si teneva ligio al dovere quando la situazione glielo imponeva ma se voleva era capace di fregarsene, di voltarsi dall'altra parte e far finta di non aver visto. Avrebbe potuto segnalare il comportamento scorretto dei detenuti posti sotto la sua sorveglianza, ma il rapporto consegnato al suo superiore non menzionava l'accaduto.
E senza accorgersene in un attimo quella divisa si fece soffocante.
Gli piaceva il suo lavoro, credeva in ciò che faceva ed era soddisfazione ciò che provava quando andava a letto ogni sera. Cosa stava realmente accadendo? Perché? Perché si era piegato davanti ad un detenuto? Perché si sentiva in colpa con Megan per essersi rivolto a lei con rabbia ingiustificata? Perché a volte riusciva ad essere gentile con chi aveva fatto del male agli altri e non si meritava nient'altro che il suo disprezzo?
Non si era mai posto quegli interrogativi.
Adesso sì.
Parcheggiò la sua auto ma le mani non lasciarono il volante. Vi appoggiò la testa. Era la stanchezza a causargli tutti quei problemi. Era chiaro che il giorno seguente avrebbe cancellato il ricordo e le sensazioni negative. I colleghi avevano i suoi stessi atteggiamenti, misti tra l'essere permissivo e fortemente severo, ma non avevano alcune conseguenze sulla vita privata. Doveva esserci stato qualcosa, un frammento dell'accaduto a disturbarlo nel profondo, ed essendo appunto un particolare infinitamente piccolo, sarebbe svanito presto.
Scese dall'auto e la chiuse, pronto ad entrare nel suo condominio. Salì i piani, infilò le chiavi nella toppa della serratura. Aprì la porta.
“Sorpresa!”
Trasalì per lo spavento. Sophie lo attendeva con un paio di birre in mano.
Come aveva fatto ad entrare?
“Come... Come hai...”
“La tua vicina di casa.”, spiegò lei, interrompendolo, “Mi ha riconosciuto e si è fidata di me. Le ho detto che avevo dimenticato le chiavi!”
Il piccolo mistero venne prontamente svelato ma la confusione creata dalla sorpresa era difficile da smaltire.
“Perché hai ritardato?”, chiese Sophie, “Hai trovato traffico? Ti hanno trattenuto al lavoro?”
Una serie di note mentali gli misero in bocca la risposta giusta da darle.
“Sì, sono rimasto... Imbottigliato a qualche isolato da qui.”, le disse.
La sua ragazza gli si avvicinò e, prima di dargli la birra, lo salutò con un bacio.
“Perché sei entrata senza aspettarmi?”, le domandò.
Non poteva negarle il fastidio. Avrebbe preferito trovarla seduta sugli scalini, come spesso era accaduto. Sophie era una gran curiosa, qualità che non riusciva ad apprezzare a pieno, nonostante fosse stato l'ingrediente fondamentale del suo lavoro di sociologa ricercatrice. L'avrebbe portata lontano, non era da tutti passare ore ed ore in una biblioteca, in un archivio, oppure sommersa da dati statistici e demografici per spolverare un vecchio indizio utile per il suo progetto universitario. Ma Danny, che poteva amare altrettanto la lettura, non era allo stesso modo felice di vedere il naso d'altri infilarsi tra i suoi fatti.
Fermo nell'ingresso, poteva già notare un paio di stupidi soprammobili posizionati diversamente da come se li ricordava. Era la sua mente a ingannarlo, ne era certo, ma dopo quella giornata così complicata, l'apparizione felice di Sophie  sarebbe degenerata in un litigio.
Lo sapeva.
“Perché... Ho un regalo per te! Anzi, due!”, cinguettò la ragazza dopo aver bevuto un sorso dalla bottiglia, “Ora chiudi gli occhi.”
“Ti prego, So-...”
“Chiudi gli occhi!”, esclamò lei.
“Ho avuto una giornataccia...”
“Chiudi gli occhi!!!”, insistette con forza.
Contraddirla non era saggio e Danny si adeguò. Abbassò le palpebre.
“Allora?”, le fece.
Sophie lo prese per mano e lo accompagnò in soggiorno, preoccupandosi di non farlo sbattere contro gli stipiti della porta. Danny avrebbe potuto percorrere quel tragitto nella medesima maniera ogni santo giorno della sua vita, non avrebbe avuto bisogno delle sue istruzioni, ma volle accontentarla fino in fondo.
“Ora apri...”, disse Sophie, emozionata, “Ta-dah!”
Le sue mani piccole indicavano un portatile bianco con lo schermo illuminato. Se ne stava al posto del suo vecchio computer fisso, quel macinatore di kilobite a cui si era affezionato come un cucciolo di cane.
Ebbe paura.
“Ho pensato che fosse stata davvero l'ora di rottamare quel coso.”, disse.
Quel coso.
“Questo è un vero computer!”, aggiunse sorridendo, “Ultima generazione, processore nuovo di pacca, il massimo della memoria fissa e temporanea... Ne capisco poco di dettagli tecnici, ma questo è il meglio che puoi trovare sul mercato!”
E' il meglio.
“Un mio amico mi ha aiutato a prendere il vecchietto, ha detto che non si può riutilizzare in alcun modo.”
Danny fissava quel minuscolo affare bianco senza distogliere lo sguardo o sbattere le palpebre.
“Ho fatto un back up di tutti i tuoi files, li ho trasferiti nell'altro.”, continuò Sophie.
Sentì le sue guance perdere tutto il loro colore.
“E mi sono messa a curiosare... Volevo trovare qualcosa di compromettente con cui ricattarti!”, e scoppiò a ridere.
Dannyh stava perdendo la pazienza.
“Sai che alcune delle cose che ho trovato sono davvero interessanti?”
Volle sedersi sul suo divano ma non ebbe la forza di raggiungerlo. Era troppo lontano.
“Se avessi saputo che ti piaceva leggere racconti e libri scaricati dalla rete, ti avrei comprato anche una stampante.”, notò intelligentemente, “Alcuni dei testi sono incompiuti, come riesci a leggerli? Io non avrei la pazienza di aspettare la conclusione dell'autore!”
Sophie aveva visto. Sophie aveva letto.
Il divano sembrò improvvisamente più vicino che mai e lo accolse in silenzio. Danny osservò l'espressione della sua ragazza mutare troppo velocemente.
“Non dici niente?”, gli chiese Sophie.“Non ti piace?”
“E' il miglior regalo che potevi farmi.”, le rispose in automatico, “Ti ringrazio di cuore.”
Gli occhi di Sophie si illuminarono e le se labbra lo baciarono più volte.
“Dillo che sono la ragazza migliore del mondo!”
Lo ripeté senza alcun entusiasmo, tentando disperatamente di essere convincente. La sorpresa non gli permetteva di essere se stesso.
“Ho un'altra bellissima notizia per te.”
La seduta del divano scomparve, si aprì un varco ultradimensionale tra la vita reale e quella parallela, un artefatto costruito ad arte dalla sua magnifica ragazza americana.
“L'unica cosa che devi fare è prenderti qualche giorno di ferie...”
“Mi vuoi portare in vacanza?”, le domandò.
Ogni atomo di sé pregò che la risposta sarebbe stata un sì.
“No, scemo!”, esclamò.
Gli dette una pacca sul braccio.
“La società finanziaria creata da mio nonno sta per aprire una filiale proprio qui, in Inghilterra. In questi giorni stanno portando a termine gli ultimi accordi contrattuali, nonostante gli uffici siano già stati popolati da gran parte degli impiegati, neoassunti o importati direttamente dagli States.”
Danny sapeva già quale sarebbe stata la conclusione di tutta quella gran bella introduzione. Sophie lo conosceva, aveva imparato a farcire di mille parole tutte le notizie più o meno spiacevoli, certa che avrebbe ottenuto tutto quello che voleva. Era così che l'avevano cresciuta i suoi genitori: una famiglia tanto benestante come la sua era stata in grado di darle tutto quello che voleva, accontentandola ogni qual volta era stato necessario. I loro insegnamenti avevano creato una persona intelligente, generosa e altruista, insieme ad una ben lunga lista di pregi.
A quella si aggiungevano l'ambizione, la testardaggine, l'incapacità di incassare un no, grazie.
“Stanno cercando il personale per il servizio di sorveglianza, ma ancora non hanno assunto il responsabile. Qualcuno che abbia le capacità giuste.”
E, si dava il caso, quella persona sembrava essere proprio lui.
“Ti ricordi la cena a casa di mia sorella? Beh, in parte è servita anche a questo, a dare una buona immagine di te... Per facilitarti le cose. Sei stato ben raccomandato a mio zio, che è il direttore della filiale.”
Bene, una semplice cena dai parenti era stata trasformata in un colloquio lavorativo.
A sua insaputa.
“Te la sentiresti di fare questo salto?”, chiese infine Sophie.
Danny non rispose, rimase a fissare il posto vuoto lasciato dal suo vecchio computer, rimpiazzato da un minuscolo aggeggio biancastro, il cui desktop era completamente diverso dall'altro. La scrivania era sgombra, il vecchio schermo catodico e l'unità centrale non la occupavano più.
Uno schiocco di dita e il custode dei suoi segreti se n'era andato. I suoi scritti erano stati violati, il solo pensiero lo faceva rabbrividire. Un altro schiocco di dita e il suo lavoro poteva essere sostituito senza alcun problema. Il messaggio era chiaro, Sophie si sentiva sicura abbastanza da poterlo manipolare. Un nuovo computer, un nuovo impiego, li aveva trovati entrambi perché gli voleva bene e si voleva prendere cura di lui. Sicuramente quel posto di responsabile del servizio di sicurezza gli avrebbe fruttato un sacco di soldi al mese, oltre che ad una carriera in rapidissima crescita. Da poliziotto a guardia giurata, un salto nel vuoto che sarebbe terminato con una comoda caduta, secondo i piani prestabiliti di Sophie.
“Nessun contatto con detenuti, soltanto un facile lavoro di coordinamento.”, aggiunse la sua ragazza, “Non dovrai fare altro che occuparti di gestire i tuoi uomini... Tutto qui.”
Tutto qui.
Nessun turno, nessun superiore, nessuna gerarchia esplicita o implicita.
Nessun detenuto, nessuna pena, nessuna colpa.
Nessuna attenzione, nessun guardarsi le spalle, nessun parlare-non-parlare con gli altri.
Nessuna sezione maschile o femminile, nessuna riabilitazione, nessuna serra.
Nessun Carlos, nessuna Megan.
Nessuna disobbedienza agli ordini da lui impartiti, nessuna ferita, nessun rapporto da scrivere.
Nessuna riflessione.
Il suo nuovo lavoro avrebbe cancellato facilmente tutte le complicazioni e le conseguenze, regalandogli un impiego “semplice”. Un posto che, in quel particolare momento, gli faceva salire l'acquolina in bocca. Danny si disse che avrebbe potuto provare, congedarsi per un paio di settimane e sperimentare. Solo un assaggio, un tentativo che non gli avrebbe nuociuto, ma non era certo della risposta.
Mentre i suoi pensieri continuavano ad aggrovigliarsi, inciampare su se stessi, morire e rinascere, Sophie parlava e parlava. La sua voce melodica gli faceva notare tutti gli aspetti positivi di un suo sì. Era ipnotizzante come soltanto lei sapeva esserlo.
“Ok.”, le fece, stremato, “Mi congederò per tre settimane.”
Sophie tentennò.
“Vediamo come si metteranno le cose.”, Danny continuò “E prenderò una decisione definitiva.”
La contentezza esplose sul viso abbronzato della sua fidanzata.
“Non tornerai dentro la tua vecchia divisa.”, disse, “Non la indosserai mai più.”
 
 
***


Le gambe di Rachel penzolavano fuori dal lettino, la loro padrona ignorava lo scricchiolio odioso delle vecchie giunture metalliche. Se ne stava ad osservarla senza distogliere gli occhi dalla sua figura: era un'altra delle sue mille tattiche utili a farla impazzire, e poi parlare.
Se Meg aveva un problema era solita nasconderlo in se stessa, trattenendo le brutte sensazioni e metabolizzandole lentamente. La spiacevole conseguenza del suo comportamento, come Rachel ben sapeva, era un sostanziale mutismo, rotto raramente da qualche monosillabo ripetitivo. In cambio, la sua compagna di cella si impegnava a disturbarla per tirare fuori, o letteralmente estrarre, dalla sua bocca tutto ciò che Meg nascondeva. Non era capace di resisterle, né di ritorcerle contro le sue tattiche.
“Rachel, per cortesia.”, le fece, “Lasciami in pace.”
L'altra non rispose.
Meg aveva speso tutto il suo fine settimana nel pensare alla brutta razione dell'agente Jones. Non era in grado di affermare con certezza se fosse risentita, addirittura incazzata nera, oppure se fosse impaurita. L'agente era, per appunto, un agente e, in linea di principio, si era comportato esattamente come ci si aspettava, ma Meg no lo digeriva.
Lo odiava, ma c'era qualcosa di diverso.
Meg, per un solo attimo, si era sentita al suo stesso pari. In quella dannata infermeria lo aveva visto chino sulla sua relazione, immerso in quelli che sembravano tutt'altro che pensieri piacevoli. Le era venuto naturale e spontaneo chiedergli come si fosse sentito. Meg, la detenuta, aveva chiesto a Jones, l'agente, cosa avesse avuto, come si fosse sentito, se bene o male. Da persona a persona, da donna a uomo, da esseri umani del tutto uguali.
Lo recitava Orwell, nella fattoria tutti gli animali erano uguali agli altri animali, ma qualcuno era sempre più uguale degli altri.
E loro non sarebbero mai stati uguali, Meg lo sapeva benissimo.
“Credo che con questa mano non mi sarà semplice seguire il corso.”, disse.
“Cosa ti ha detto il dottore?”, domandò allora Rachel, lasciando il letto.
“Dovrò tenere le bende per un po', poi toglieranno i punti e vedranno se sarà il caso di fare riabilitazione.”
“Addirittura?”, esclamò l'altra, “Non pensavo che fosse così grave.”
Meg scrollò le spalle.
Forse era il caso di sdraiarsi sul suo lettino, chiudere gli occhi ed attendere che l'orologio scoccasse la mezzanotte, trasformando la domenica in un lunedì. Il weekend era scorso in modo pessimo, sperò che la nuova settimana davanti a lei sarebbe stata lievemente migliore di quella in conclusione. Soprattutto sperò di avere la giusta occasione per prendere quell'idiota di un agente da una parte e riempirlo di calci.
Si trovò di nuovo nel mondo dell'utopia.
 
 
***
 
Il lunedì arrivò con tutto il suo carico di malumore. La ferita le doleva, le bende le rendevano impossibile utilizzare le dita e, essendo tutt'altro che mancina, Meg fu costretta a sforzarsi in ogni piccola azione quotidiana. Spazzolarsi i capelli, lavarsi i denti, vestirsi, fare colazione, tutto con la mano sinistra, goffa e inutile. Le gengive presero a sanguinarle, i bottoni non entravano dentro alle asole, il cibo slittava via dalle posate. Aveva bisogno di un aiuto e Rachel fu estremamente contenta di darglielo. Più che altro, fu estremamente divertita, lei come tutte le altre detenute.
La presero in giro, la chiamarono con migliaia di soprannomi.
Per la prima volta fu contenta di andarsene al corso, lasciandosi alle spalle un pollaio in piena attività.
Meg entrò nella serra in compagnia di Annelise e delle altre detenute, nonché dell'agente Morris. Tutte sembravano preoccuparsi per lei, per la sua mano, e vollero sapere tutto ciò che il dottore le aveva consigliato per una pronta guarigione.
“Niente di che, devo soltanto tenere le bende.”, rispose.
“E poi?”, domandò Annelise.
“E poi mi toglieranno i punti.”
“Come farai con le lezioni?”, insistette la donna, “Non puoi lavorare, infetterai la ferita.”
“Potrei stare ad ascoltare. Prometto che sarò una studentessa migliore.”, disse, ponendo la mano infortunata al cuore e alzando la sinistra in aria, “E che starò più attenta.”
Annelise alzò le sopracciglia e sorrise.
Falso.
L'agente Morris intervenne.
“Potrei aiutarti nell'impresa.”
Meg ebbe un attimo di smarrimento.
“No... Grazie.”, le rispose, quasi intimorita.
Anche l'agente notò la strana inflessione della sua voce. Morris la conosceva, sapeva che, quando Meg voleva, era una detenuta dalla lingua lunga, e si era aspettata una controbattuta sarcastica. Le due si guardarono, come se il vuoto creatosi dovesse essere riempito in qualsiasi modo, da una parola o da una risata, da un gesto.
La stasi del momento venne interrotta dall'entrata di Daisy, seguita da Carlos.
Meg prese un profondo respiro e abbassò gli occhi al pavimento, pronta a ignorare totalmente l'agente Jones. Non che  le dovesse delle scuse per ciò che aveva fatto, era fuori dal mondo che accadesse. Lo faceva per principio.
La porta della serra venne chiusa con un tonfo, i presenti sussultarono in gruppo.
“Cominciate pure.”
La voce non era quella dell'agente Jones, era bensì totalmente diversa, di una tonalità più alta ed aveva un accento completamente diverso. Perfetto, si disse Meg: tolto il dente, tolto il dolore. Prese un profondo respiro e si liberò della tensione.
“Megan, come va la mano?”, le domandò Daisy, avvicinatasi.
“Beh, fa un po' male.”, le rispose, “Posso seguire senza problemi, ma non mi è possibile lavorare.”
“Perfetto, starai in coppia con chi vuoi.”, propose l'insegnante, “Scegli.”
Senza spendere troppo tempo, Megan puntò subito il suo dito su Carlos. Le lezioni sarebbero passate molto più velocemente in sua compagnia, ne era certa. Daisy non ne fu contenta.
“Ok.”, disse, roteando gli occhi, “Stai con Carlos.”
“E' meglio farle scegliere un'altra persona.”
Meg si voltò e fissò gli occhi in quelli del nuovo agente. Mai visto prima di quella volta. E aveva un'emerita faccia da stronzo.
“Barreiro non dovrebbe avere contatti con le detenute.”, continuò la guardia.
“Andiamo, Penn.”, lo riprese la sua collega Morris, “Non ha mai dato fastidio durante le precedenti lezioni.”
“Ci sono delle regole. Perché non rispettarle?”, ribatté l'altro.
“Non è saggio creare tensione in queste situazioni.”
“Non è saggio creare rapporti in queste situazioni.”
Morris si vide costretta a lasciare la corda e dargli la vittoria. L'agente Penn si sistemò nelle vicinanze di Carlos, che per tutta la lezione dovette starsene ad almeno un metro dalle altre, in solitario. Meg ripiegò su Annelise, che era ben contenta di averla con sé.



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Note dell'autrice.
Vi ringrazio per l'attenzione e per le recensioni :) Spero che continuerete a seguire questa storia!
Tutte le citazioni di questo capitolo, di qualsiasi tipo, non sono state riportate a scopo di lucro.

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