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Autore: HOPE87    13/10/2010    4 recensioni
STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA. MI SCUSO INFINITAMENTE PER IL DISAGIO, MA QUANDO LA VITA PRECIPITA LE SI DEVE DARE NECESSARIAMENTE LA PRECEDENZA. A PRESTO! ;)
Dedicata a YamaMaxwell.
"Prima di rendersene conto aveva salutato professionalmente tutti gli uomini del gruppo d’indagine che avevano deciso di lavorare al suo fianco, leggendo negli sguardi di ognuno di essi il riflesso degli occhi vitrei di Light.
Poi s’era condotto – quasi inconsciamente – una mano al petto, avvertendo il cuore battere, incredulo.
Era stato allora che era avvenuto qualcosa.
Assorto nei suoi pensieri, non si era accorto dell’arrivo di Watari. Gli si era messo di fronte e quando lui aveva sollevato la testa per guardarlo, gli aveva sorriso.
Ma lui non aveva ricambiato."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri personaggi, L, Watari
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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IV

IV.

[ Skeletons ]

 

 

 

 

 

 

Avrebbe voluto tanto risvegliarsi con l’odore di caffè che era solito ritemprarle i sensi prima ancora di essere sorseggiato, l’odore di lavanda che emanavano i capelli della madre a pochi centimetri dal viso e dolci e vellutate mani a carezzarle il volto.

Invece, quando riaprì gli occhi, desiderò ardentemente sprofondare nuovamente nel cinico sogno che l’aveva accompagnata durante la notte.

Mosse il braccio, riscoprendolo fastidiosamente pesante, e quando provò a piegarlo fu dissuasa da qualcosa di freddo che sembrava esserle stato legato all’altezza del gomito.

Nonostante la stanchezza fisica e psicologica, che ancora perpetravano, non ci mise molto ad accorgersi di avere una flebo ad alimentarla. Con cosa, non ne aveva idea, ma per essere ancora viva non doveva essere nulla di letale.

Decise di far vagare lo sguardo per la stanza buia nella quale si trovava ma, a parte la parete di fronte a lei, completamente spoglia, non riuscì ad individuare nessun altro particolare.

Richiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal silenzio che regnava nella stanza e dalla luce artificiale dei lampioni che filtrava dalla finestra lasciata socchiusa.

Dischiuse gli occhi, ricordandosi tutto a un tratto ciò che le era accaduto nelle ultime ore.

Gli occhi di quell’uomo, quel Quillsh, ritornarono a farle visita nuovamente, seppur incorporei.

Incredibile.

Avrebbe dovuto immaginarlo? Avrebbe mai potuto immaginarlo?

Non si somigliavano per niente… non almeno per quanto ricordava.

Lei doveva avergli posto qualche domanda, se riusciva a ricordare la risposta…

Padri diversi.

Giusto.

Così poteva quadrare.

Ma poteva credergli?

Beh… come avrebbe fatto altrimenti a trovarla?

Ma allora perché non l’aveva cercata prima?

Sua madre era a conoscenza dell’esistenza di un ipotetico fratello dell’uomo che amava? Se sì, allora perché, considerando la persona che questi era, non si era rivolta a lui… ?

No, evidentemente non lo sapeva.

Si morse un labbro, trattenendo l’impulso di urlare.

La porta della camera venne aperta delicatamente, attirando la sua attenzione. Un’ombra si mosse silenziosa per l’ambiente, avvicinandosi cautamente a lei, in direzione della flebo che l’alimentava.

Non ebbe grandi difficoltà a riconoscerne il profilo, sebbene l’avesse visto una sola volta.

 

 

Quillsh si ritrovò a fare nuovamente i conti con quegli occhi che tanto l’avevano turbato.

Voltò il capo lentamente, poggiando il proprio sguardo sulla donna con cautela, come se questa da un momento all’altro potesse ritrasformarsi nella furia che aveva aggredito Lawliet... invece scorse solo un paio d’occhi grandi, lucidi e spaventati, spalancati in un viso pallido tanto piccolo da ricordargli quello di una bambina.

-          Siete ancora nell’albergo dove vi ho fatta condurre in precedenza. – le sussurrò, avvicinandosele appena per non dover alzare la voce. – Gli uomini che vi hanno inseguita sono ancora in libertà… qui sarete al sicuro. Ve lo garantisco. – concluse, rivolgendole un tenue sorriso di circostanza per poi riprendere ad armeggiare con la flebo che alimentava la donna. Accertatosi che il processo di alimentazione stesse procedendo bene, fece per allontanarsi con lo stesso silenzioso rispetto con cui aveva fatto accesso nella camera, ma se ne trovò impedito.

-          Per favore… - .

Quillsh volse nuovamente il capo verso di lei, sorpreso – e allo stesso tempo angosciato – dall’urgenza che aveva accompagnato la richiesta della donna. Le fece un cenno di assenso col capo, incoraggiandola a parlare.

-          Per favore… - . Un’altra interruzione.

Immaginando perché incontrasse tanta difficoltà nell’esprimersi, decise di andarle incontro, avvicinando al letto una delle sedie che componevano l’arredamento semplice della camera, in modo da farle intendere di offrirle completa disponibilità.

Vide le sue labbra tremare leggermente e gli occhi riempirsi nuovamente di lacrime. Si ritrovò a sospirare nello stesso momento in cui lo fece lei, sentendosi sollevato nel vederla finalmente prendere coraggio e parlargli.

-          Me lo ripeta… me lo dica ancora una volta… -.

Chiuse gli occhi, accusando il colpo che la richiesta della donna seppe sortirgli. Poi annuì, donandole un accenno di sorriso, comprensivo, iniziando a raccontarle tutto da capo.

 

 

 

***

 

 

 

James Lorraine, nativo britannico, aveva vissuto fino all’età di diciassette anni in Francia, presso un fratello della madre, mentre questa rimaneva a Londra a tentare di racimolare un po’ di soldi che in un futuro non molto lontano – si sperava - avrebbero potuto consentire una vita più dignitosa a lei e suo figlio, dal momento che il padre del bambino s’era premurato di sparire dalla circolazione non appena aveva saputo che la donna era al terzo mese di gravidanza.

O almeno era questo ciò che avevano rifilato a James.

Era vero che non v’era più stata traccia di suo padre non appena aveva scoperto della sua esistenza, quanto era vera la circostanza che vedeva sua madre a lavorare duramente per potersi permettere uno stile di vita sufficientemente dignitoso.

In fin dei conti – si era ritrovato a pensare James – la persona che gli aveva parlato di sua madre non gli aveva mentito. L’omissione d’informazioni, dopotutto, non poteva considerarsi alla pari di una menzogna, fu per questo motivo che James si ritrovò impossibilitato ad accanirsi nei confronti dello zio, che si era premurato di allevarlo fino alla maggiore età alla stregua di un figlio. Sostanzialmente, ciò che lo legava a quel suo parente doveva essere riconoscenza. La rabbia andava riservata solo alla madre.

Quando, concretizzatasi l’opportunità, decise d’imbarcarsi e raggiungere il luogo natio, James non immaginava che ad attenderlo vi fosse la sconcertante rivelazione di avere un fratello. Un fratello maggiore per giunta, che, al contrario di lui, aveva sempre vissuto con la madre, e a cui quest’ultima – per quel che allora gli parve uno strano motivo – aveva sempre finanziato gli studi, lavorando duramente.

Solo molto più tardi James venne a conoscenza dell’abissale differenza di Q.I. che lo differenziava dal fratello, precludendogli l’opportunità di avere una vita simile alla sua. E saperlo non fece altro che procurargli un moto di stizza e disgusto, peggiore di quello che l’aveva colto alla scoperta della verità a lungo taciuta dalla donna che l’aveva messo al mondo.

Ad ogni modo, non fu molto chiaro come si evolsero le cose da quel momento.

Quillsh aveva raccontato di averlo visto solo due volte nel corso della propria vita. Quella volta e un giorno di vent’anni più tardi.

Evidentemente James aveva dovuto abbandonare il luogo natio il giorno stesso che vi aveva rimesso piede, convinto a lasciarsi il passato alle spalle e a cercare l’identità che così tanto a lungo gli era stata negata. Evidentemente era ritornato in Francia, seppur non più sotto la tutela di quel suo parente, ed evidentemente era stato lì che si era avvicinato al mondo ecclesiastico, sebbene – per quanto l’immaginazione potesse galoppare in svariati modi – non si sapesse esattamente come fossero andati i fatti.

Fatto sta che, a giudicare dal calcolo approssimativo che si poteva fare sui fatti svoltisi nel corso del tempo, James doveva indossare già gli abiti sacerdotali quando aveva incontrato per la prima volta Evelyne Brown.

E non v’era bisogno, a quel punto, di molta fantasia per capire come si fossero susseguite le cose. Un giorno di luglio di ventiquattro anni prima, Catherine era venuta alla luce, sotto un cielo che non prometteva nulla di buono.

James, inutile dirlo, aveva rifiutato fino allo sfinimento la realtà dei fatti, che lo vedeva padre di una creatura che da lui, vicario di Cristo, non sarebbe mai dovuta nascere.

Evelyne, dal canto suo, era pienamente consapevole delle difficoltà a cui sarebbe andata in contro decidendo di mettere al mondo la creatura che la legava all’uomo di cui si era irrimediabilmente innamorata. E l’amore, in quanto irrazionale, l’aveva convinta del fatto che tutto si potesse affrontare e superare. Ma le cose non erano andate per il verso giusto.

Samir Kunz, il maggior narcotrafficante dell’est Europa a cui era sposata prima ancora d’incontrare James, non aveva avuto bisogno d’impiegare alcuna forma di spionaggio e investigazione per capire che la creatura che portava in grembo non gli apparteneva. Evelyne allora, temendo le sorti di sua figlia e dell’uomo che amava, lo aveva ucciso, avvelenandolo a tradimento una sera di ottobre di vent’anni prima, facendo poi ricadere le colpe su uno dei membri della servitù che era solito occuparsi dei pasti dell’uomo.

Era corsa da James di nascosto, in preda al panico, riponendo fiducia nell’infinita misericordia che avrebbe dovuto caratterizzare la strada che aveva deciso di seguire, raccontandogli tutto e chiedendogli di prendersi cura di Catherine.

Ma James aveva negato nuovamente la paternità nei confronti della bambina, esigendo una prova del DNA che attestasse la veridicità della versione della donna. Evelyne, tenacemente, non si era persa d’animo e gliel’aveva fornita, vedendosi chiudere nuovamente una porta in faccia, a dimostrazione del fatto che l’uomo che aveva tanto amato non avrebbe fatto altro, nel corso del tempo, che lavarsene le mani.

Non sapeva che James, dopo l’ultima volta che aveva visto Evelyne e la piccola Kate, si era messo sulle tracce del fratello, di cui aveva sentito a lungo parlare a riprova del fatto dire che i frutti dei sacrifici della madre erano serviti. Quillsh vantava di essere uno dei più grandi inventori dell’ultimo decennio.

Una volta risalito al cognome – che gli aveva fatto chiedere se, a differenza sua, suo padre lo aveva invece riconosciuto, rendendolo ancora una volta irrimediabilmente più fortunato – era venuto automaticamente a conoscenza dell’orfanotrofio che aveva fondato a Winchester. Il che, a rigor di logica, doveva fare di Quillsh una persona presumibilmente benestante, nonché sufficientemente adatto a potergli venire in aiuto concretamente.

Una settimana dopo la sconcertante confessione di Catherine, si era presentato ai cancelli della Wammy’s House, venendo ricevuto più velocemente di quanto immaginasse. Si era seduto alla scrivania di Quillsh e, contrariamente a quanto si potesse immaginare, aveva preteso senza mezzi termini aiuto materiale.

Che Quillsh, senza mezzi termini, gli aveva rifiutato.

Non perché non riconoscesse in quell’uomo il fratello minore che aveva visto quell’unica volta, vent’anni prima. Benché le loro strade si fossero separate, al contrario di James, Quillsh si era tenuto costantemente informato sulla vita del fratello, forse – riflettè anni dopo – perché inconsciamente dispiaciuto per l’epilogo che gli era toccato.

Ma lui, che da poco aveva idealizzato il progetto di provare a rendere il mondo un posto migliore grazie a quelle piccole, geniali menti che accoglieva nel suo orfanotrofio, non poteva accettare la condizione di aiutare qualcuno che si fosse macchiato d’omicidio, anche se quel qualcuno era una donna che – stando al racconto del fratello – si era macchiata di quel crimine per preservare le persone che amava.

Allora gli aveva suggerito di contattarla per convincerla a rivolgersi alla polizia, e a quel punto sarebbe intervenuto lui, offrendole avvocati e protezione, nonché tutte le garanzie che solamente con un bel gruzzolo di soldi avrebbe potuto permettersi.

James, chiaramente, dopo la lunga e dettagliata descrizione che gli aveva fornito in merito alla famiglia Kunz e alla relativa conseguente impossibilità da parte della donna ad effettuare una cosa simile senza incorrere in probabili ritorsioni, non riuscì a non perdere le staffe.

Quando abbandonò lo studio di Quillsh, quest’ultimo dovette ricorrere a degli inservienti per rimettere a posto la stanza lasciata completamente a soqquadro dal fratello.

Anni più tardi - forse perché richiamato da quel legame di sangue che sembrava aver rinnegato, col suo rifiuto – Quillsh gli aveva fatto recapitare una lettera presso la curia nella quale amministrava il suo sacerdozio, informandolo del fatto che, qualora si fosse trovato seriamente in difficoltà, non avrebbe dovuto fare altro che rivolgersi ad L, senza però dilungarsi nello specificare di che diavolo stesse parlando.

James aveva bruciato la lettera, così come aveva bruciato, dentro di sé, l’idea di avere e di avere avuto, un tempo, un fratello.

Aveva continuato ad esercitare la sua devozione, trovandosi a pregare il doppio per quelle due anime di cui non aveva avuto più notizie da quella lontana sera.

Finchè non aveva ricevuto quella telefonata.

Una voce gracchiante – evidentemente camuffata – lo aveva informato del ritrovamento di un risultato corrispondente ad un test del DNA effettuato anni prima, che lo avrebbe visto morto nel giro di poco tempo.

James non immaginava che il “poco tempo” concessogli sarebbe scaduto esattamente il giorno dopo, e che in quel “poco tempo” rimastogli avrebbe rivisto la creatura che vent’anni prima aveva rifiutato di accettare come sua. Così come non immaginava quanto avesse potuto somigliare alla donna che – nonostante tutto – si era ritrovato a pensare e ad amare durante tutto quel tempo.

che l’assassino inviatogli a stroncargli la vita corrispondesse a quello che immaginava essere un fedele curioso che giorni prima gli aveva posto delle domande sul proprio percorso sacerdotale.

che si sarebbe ritrovato a seguire il consiglio del fratello in extremis, scrivendo col proprio sangue la lettera che sperava, ormai, potesse ritornare utile perlomeno a Kate.

 

 

 

***

 

 

 

Lawliet si massaggiò la fronte con la punta delle dita, continuando a piluccare svogliatamente una fetta di torta alle fragole che non riusciva in alcun modo ad attirare la sua attenzione.

Perché Quillsh gli aveva taciuto tutta quella storia fino ad allora? Se prima o poi si sarebbe palesata l’eventualità di dover necessariamente intervenire in un caso simile, perché non gliel’aveva reso noto?

Chiaramente la faccenda dei Death Note doveva averlo distratto parecchio, senza dubbio. Ma vi era una scarsissima probabilità che anche i casi precedenti dovessero averlo distratto a tal punto da fargli ignorare un particolare di quella portata.

Sollevò gli occhi sul monitor che gli consentiva d’inquadrare la camera in cui aveva fatto sistemare la ragazza. Chiaramente, coi Kunz ancora in libertà, era assolutamente fuori discussione tenerla in una comune struttura ospedaliera.

Avrebbe dovuto pensarci prima di prenotare una camera nella migliore clinica privata della zona, che Quillsh aveva prontamente provveduto a disdire.

Era l’ennesimo errore che compieva da quando erano atterrati sul suolo parigino. Cosa diavolo gli stava prendendo? Perché non riusciva a ragionare e calcolare tutto come suo solito?

Rivolse nuovamente lo sguardo all’immagine che intrappolava Quillsh e Catherine nello spazio esiguo del monitor, prima che i suoi pensieri venissero interrotti dallo squillo del cellulare.

-          L - .

-          Qui, Aiber. Sono sul posto. Attendo istruzioni. - .

Quando mise giù, si ritrovò a sospirare profondamente.

Era ormai questione di ore.

Gli occhi si spostarono nuovamente sui soggetti del monitor.

Quillsh stava carezzando i capelli di Catherine, che aveva il volto nascosto tra le mani, in lacrime.

Trattenne il respiro, stringendo la forchetta nella mano.

Prima Aiber avrebbe portato a termine l’incarico, prima tutto sarebbe tornato alla normalità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Delucidazioni:

 

-          Il passato di Quillsh Wammy, meglio conosciuto come Watari ^  ^, come quello di L è inventato di sana pianta ^  ^’ Sono consapevole che non piacerà a tutti… d’altronde siamo (mi ci ficco anch’io in mezzo xD) abituati a vedere il caro Watari come l’uomo senza macchia che ha cresciuto nientepocodimenoche L! Come potrebbe una persona simile avere un passato ambiguo, pieno di zone d’ombra? Ta-dan! Il Watari della mia storia ha un trascorso turbolento, non a caso il titolo del capitolo èSkeletons”, ossia “Scheletri”. Ho voluto implicitamente riferirmi ai cosiddetti “scheletri nell’armadio” che ognuno di noi ha, compreso lui J

 

 

 

Ringraziamenti:

 

 

-          Fe85: Non vi ho fatto aspettare molto stavolta =) Il trascorrere periodi non troppo felici ha il suo lato positivo xD come al solito: occhio, se noti qualche errore fammelo notare! Anche perché stavolta mi sono cimentata in una spiegazione lunga e abbastanza dettagliata in cui, quasi sicuramente, deve essermi sfuggito qualche errorino >__< e grazie per la recensione J spero alla prossima;

-          Kiriku: No J non mi offendo se non vorrai condividere con me le tue congetture J però sappi che mi farai morire di curiosità! xD ma è una tua scelta questa, che io rispetto in pieno J quindi don’t worry! =D qui cominciamo ad addentrarci nei meandri del labirinto mentale di L… chissà che ne verrà fuori xD un bacio;

-          LirinLawliet: Sono assolutamente d’accordo, mia cara. In qualunque modo lo si decida di chiamare, L resta sempre L *___* Non credo che Catherine sappia di questa peculiarità di L J e credo che anche qualora ne venisse a conoscenza, non se ne curerebbe troppo J Catherine è una donna a pezzi a cui è stato portato via tutto, senza che lei abbia avuto modo di aprire bocca per contestare, dissentire. La storia che ho fornito sta proprio a sottolineare questo: lei, tra tutti i fatti brutti e tristi compiuti dalle persone che aveva attorno – consapevolmente o meno – ha avuto la semplice “colpa” di essere nata. E qui mi fermo altrimenti ti anticipo troppo U__U (sì, perché inevitabilmente ti ho dato un piccolo spoiler ^  ^’). Concludo ringraziandoti per la recensione articolata che mi hai lasciato nell’ultimo capitolo e per il fatto di seguirmi ovunque! Mi hai beccata anche nel fandom di Dragon Ball! xD Questa storia ha dell’incredibile davvero!

 

 

Ringrazio inoltre tutte le persone che hanno aggiunto la storia tra le seguite, le preferite e le ricordate J nonché tutti coloro che decidono di perdere un po’ del loro tempo per leggere (e ne siete tanti, eh! Fatevi sentire *___*) .

*inchino*

 

 

HOPE87

 

 

Ps: Ad un occhio attento non sarà certamente sfuggita la dedica che ho inserito in cima alla presentazione della storia. YamaMaxwell è una fanwriter (a mio avviso, bravissima) che ama Death Note ma che non bazzica molto nel fandom dedicato a questo capolavoro. Mi è stata concessa (da lei stessa, chiaramente) l’opportunità di sapere chi vi fosse dietro a questo nickname, scoprendo così l’esistenza di una persona non solo estremamente fantasiosa, quanto estremamente umana, sotto svariati punti di vista, e con la quale ho scoperto di avere più cose in comune di quanto potessi mai immaginare.

Sì, evidentemente avrei dovuto inserire la dedica dall’inizio, ma inizialmente questa idea era lontana da me. Poi, riflettendo sulla direzione che voglio far prendere alla storia, mi è venuto da pensare: non posso non dedicargliela.

Ordunque, ecco sciolti eventuali dubbi che avrebbero potuto cogliervi J

 

Pps: Ah, visto che ci sono ^  ^’ semmai amaste Saiyuki e foste interessati a leggere qualcosa di carino, ecco a voi la pagina della folle geniale: YamaMaxwell.

   
 
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