IV.
[ Skeletons ]
Avrebbe voluto tanto risvegliarsi con
l’odore di caffè che era solito ritemprarle i sensi
prima ancora di essere sorseggiato, l’odore di lavanda che emanavano
i capelli della madre a pochi centimetri dal viso e dolci e vellutate mani a
carezzarle il volto.
Invece, quando riaprì gli
occhi, desiderò ardentemente sprofondare nuovamente nel cinico sogno che
l’aveva accompagnata durante la notte.
Mosse il braccio, riscoprendolo
fastidiosamente pesante, e quando provò a piegarlo fu dissuasa da qualcosa di
freddo che sembrava esserle stato legato all’altezza del gomito.
Nonostante la stanchezza fisica e
psicologica, che ancora perpetravano, non ci mise molto ad accorgersi di avere una flebo ad alimentarla. Con cosa, non ne
aveva idea, ma per essere ancora viva non doveva essere nulla di letale.
Decise di far vagare lo sguardo per la
stanza buia nella quale si trovava ma, a parte la
parete di fronte a lei, completamente spoglia, non riuscì ad individuare nessun
altro particolare.
Richiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal
silenzio che regnava nella stanza e dalla luce artificiale dei lampioni che
filtrava dalla finestra lasciata socchiusa.
Dischiuse gli occhi, ricordandosi tutto a un tratto ciò che le era accaduto nelle ultime ore.
Gli occhi di quell’uomo,
quel Quillsh, ritornarono a
farle visita nuovamente, seppur incorporei.
Incredibile.
Avrebbe dovuto immaginarlo? Avrebbe mai potuto immaginarlo?
Non si somigliavano per niente… non almeno
per quanto ricordava.
Lei doveva avergli posto qualche domanda,
se riusciva a ricordare la risposta…
Padri
diversi.
Giusto.
Così poteva quadrare.
Ma poteva credergli?
Beh… come avrebbe fatto altrimenti a
trovarla?
Ma allora perché non
l’aveva cercata prima?
Sua madre era a conoscenza dell’esistenza
di un ipotetico fratello dell’uomo che amava? Se sì,
allora perché, considerando la persona che questi era, non si era rivolta a
lui… ?
No, evidentemente non lo sapeva.
Si morse un labbro, trattenendo l’impulso
di urlare.
La porta della camera venne
aperta delicatamente, attirando la sua attenzione. Un’ombra si mosse silenziosa
per l’ambiente, avvicinandosi cautamente a lei, in direzione della
flebo che l’alimentava.
Non ebbe grandi difficoltà a riconoscerne
il profilo, sebbene l’avesse visto una sola volta.
Quillsh si ritrovò a fare
nuovamente i conti con quegli occhi che tanto l’avevano turbato.
Voltò il capo lentamente, poggiando il
proprio sguardo sulla donna con cautela, come se questa da un momento all’altro
potesse ritrasformarsi nella furia che aveva aggredito Lawliet...
invece scorse solo un paio d’occhi grandi, lucidi e spaventati, spalancati in
un viso pallido tanto piccolo da ricordargli quello di una bambina.
-
Siete
ancora nell’albergo dove vi ho fatta condurre in precedenza. – le sussurrò,
avvicinandosele appena per non dover alzare la voce. – Gli uomini che vi hanno inseguita sono ancora in libertà… qui sarete al sicuro. Ve
lo garantisco. – concluse, rivolgendole un tenue sorriso di circostanza per poi
riprendere ad armeggiare con la flebo che alimentava
la donna. Accertatosi che il processo di alimentazione
stesse procedendo bene, fece per allontanarsi con lo stesso silenzioso rispetto
con cui aveva fatto accesso nella camera, ma se ne trovò impedito.
-
Per
favore… - .
Quillsh volse nuovamente
il capo verso di lei, sorpreso – e allo stesso tempo angosciato – dall’urgenza
che aveva accompagnato la richiesta della donna. Le fece un cenno di assenso col capo, incoraggiandola a parlare.
-
Per
favore… - . Un’altra interruzione.
Immaginando perché incontrasse tanta
difficoltà nell’esprimersi, decise di andarle incontro, avvicinando al letto
una delle sedie che componevano l’arredamento semplice della camera, in modo da
farle intendere di offrirle completa disponibilità.
Vide le sue labbra
tremare leggermente e gli occhi riempirsi nuovamente di lacrime. Si ritrovò a
sospirare nello stesso momento in cui lo fece lei, sentendosi sollevato nel vederla
finalmente prendere coraggio e parlargli.
-
Me
lo ripeta… me lo dica ancora una volta… -.
Chiuse gli occhi, accusando il colpo che la
richiesta della donna seppe sortirgli. Poi annuì, donandole un accenno di
sorriso, comprensivo, iniziando a raccontarle tutto da capo.
***
James Lorraine, nativo britannico, aveva vissuto fino all’età di
diciassette anni in Francia, presso un fratello della madre, mentre questa
rimaneva a Londra a tentare di racimolare un po’ di soldi che in un futuro non
molto lontano – si sperava - avrebbero potuto consentire una vita più dignitosa
a lei e suo figlio, dal momento che il padre del bambino
s’era premurato di sparire dalla circolazione non appena aveva saputo che la
donna era al terzo mese di gravidanza.
O almeno era questo
ciò che avevano rifilato a James.
Era vero che non v’era più stata traccia di
suo padre non appena aveva scoperto della sua esistenza, quanto era vera la
circostanza che vedeva sua madre a lavorare duramente per potersi permettere
uno stile di vita sufficientemente dignitoso.
In fin dei conti – si era ritrovato a
pensare James – la persona che gli aveva parlato di
sua madre non gli aveva mentito. L’omissione d’informazioni, dopotutto, non
poteva considerarsi alla pari di una menzogna, fu per questo motivo che James si ritrovò impossibilitato ad accanirsi nei confronti
dello zio, che si era premurato di allevarlo fino alla maggiore età alla
stregua di un figlio. Sostanzialmente, ciò che lo legava a quel suo parente doveva essere riconoscenza. La rabbia andava
riservata solo alla madre.
Quando, concretizzatasi
l’opportunità, decise d’imbarcarsi e raggiungere il luogo natio, James non immaginava che ad attenderlo vi fosse la
sconcertante rivelazione di avere un fratello. Un fratello maggiore per giunta,
che, al contrario di lui, aveva sempre vissuto con la
madre, e a cui quest’ultima – per quel che allora gli
parve uno strano motivo – aveva sempre finanziato gli studi, lavorando
duramente.
Solo molto più tardi James
venne a conoscenza dell’abissale differenza di Q.I.
che lo differenziava dal fratello, precludendogli l’opportunità di avere una vita
simile alla sua. E saperlo non fece altro che
procurargli un moto di stizza e disgusto, peggiore di quello che l’aveva colto
alla scoperta della verità a lungo taciuta dalla donna che l’aveva messo al
mondo.
Ad ogni modo, non fu molto chiaro come si
evolsero le cose da quel momento.
Quillsh aveva raccontato
di averlo visto solo due volte nel corso della propria vita. Quella
volta e un giorno di vent’anni più tardi.
Evidentemente James
aveva dovuto abbandonare il luogo natio il giorno stesso che vi aveva rimesso
piede, convinto a lasciarsi il passato alle spalle e a cercare l’identità che così tanto a lungo gli era stata negata. Evidentemente era
ritornato in Francia, seppur non più sotto la tutela di quel suo parente, ed
evidentemente era stato lì che si era avvicinato al mondo ecclesiastico,
sebbene – per quanto l’immaginazione potesse galoppare in svariati modi – non
si sapesse esattamente come fossero andati i fatti.
Fatto sta che, a giudicare dal calcolo
approssimativo che si poteva fare sui fatti svoltisi nel corso del tempo, James doveva indossare già gli abiti sacerdotali
quando aveva incontrato per la prima volta Evelyne
Brown.
E non v’era bisogno, a quel punto, di molta
fantasia per capire come si fossero susseguite le
cose. Un giorno di luglio di ventiquattro anni prima, Catherine
era venuta alla luce, sotto un cielo che non
prometteva nulla di buono.
James, inutile dirlo,
aveva rifiutato fino allo sfinimento la realtà dei fatti, che lo vedeva padre
di una creatura che da lui, vicario di Cristo, non sarebbe mai dovuta nascere.
Evelyne, dal canto suo,
era pienamente consapevole delle difficoltà a cui sarebbe andata in contro
decidendo di mettere al mondo la creatura che la legava all’uomo di cui si era
irrimediabilmente innamorata. E l’amore, in quanto
irrazionale, l’aveva convinta del fatto che tutto si potesse affrontare e
superare. Ma le cose non erano andate per il verso
giusto.
Samir Kunz, il maggior narcotrafficante
dell’est Europa a cui era sposata prima ancora d’incontrare James, non aveva avuto bisogno d’impiegare alcuna forma di
spionaggio e investigazione per capire che la creatura che portava in grembo
non gli apparteneva. Evelyne allora, temendo le sorti
di sua figlia e dell’uomo che amava, lo aveva ucciso, avvelenandolo a
tradimento una sera di ottobre di vent’anni
prima, facendo poi ricadere le colpe su uno dei membri della servitù che era
solito occuparsi dei pasti dell’uomo.
Era corsa da James
di nascosto, in preda al panico, riponendo fiducia
nell’infinita misericordia che avrebbe dovuto caratterizzare la strada che
aveva deciso di seguire, raccontandogli tutto e chiedendogli di prendersi cura
di Catherine.
Ma James aveva negato nuovamente la paternità nei confronti
della bambina, esigendo una prova del DNA che attestasse la veridicità della
versione della donna. Evelyne, tenacemente, non si
era persa d’animo e gliel’aveva fornita, vedendosi
chiudere nuovamente una porta in faccia, a dimostrazione del fatto che l’uomo
che aveva tanto amato non avrebbe fatto altro, nel corso del tempo, che
lavarsene le mani.
Non sapeva che James,
dopo l’ultima volta che aveva visto Evelyne e la
piccola Kate, si era messo sulle tracce del fratello,
di cui aveva sentito a lungo parlare a riprova del fatto dire
che i frutti dei sacrifici della madre erano serviti. Quillsh
vantava di essere uno dei più grandi inventori dell’ultimo decennio.
Una volta risalito al cognome – che
gli aveva fatto chiedere se, a differenza sua, suo padre lo aveva invece
riconosciuto, rendendolo ancora una volta irrimediabilmente più fortunato – era
venuto automaticamente a conoscenza dell’orfanotrofio che aveva fondato a Winchester.
Il che, a rigor di logica, doveva fare di Quillsh una
persona presumibilmente benestante, nonché
sufficientemente adatto a potergli venire in aiuto concretamente.
Una settimana dopo la sconcertante
confessione di Catherine, si era presentato ai cancelli
della Wammy’s House, venendo
ricevuto più velocemente di quanto immaginasse. Si era seduto alla scrivania di
Quillsh e, contrariamente a quanto si potesse immaginare,
aveva preteso senza mezzi termini aiuto materiale.
Che Quillsh, senza mezzi termini, gli aveva rifiutato.
Non perché non
riconoscesse in quell’uomo il fratello minore che
aveva visto quell’unica volta, vent’anni
prima.
Benché le loro strade si fossero separate, al contrario
di James, Quillsh si era
tenuto costantemente informato sulla vita del fratello, forse – riflettè anni dopo – perché inconsciamente dispiaciuto per
l’epilogo che gli era toccato.
Ma lui, che da poco aveva idealizzato il
progetto di provare a rendere il mondo un posto migliore grazie a quelle
piccole, geniali menti che accoglieva nel suo orfanotrofio, non poteva
accettare la condizione di aiutare qualcuno che si fosse
macchiato d’omicidio, anche se quel qualcuno era una donna che – stando
al racconto del fratello – si era macchiata di quel crimine per preservare le
persone che amava.
Allora gli aveva suggerito di contattarla per
convincerla a rivolgersi alla polizia, e a quel punto sarebbe intervenuto lui,
offrendole avvocati e protezione, nonché tutte le garanzie
che solamente con un bel gruzzolo di soldi avrebbe potuto permettersi.
James, chiaramente, dopo
la lunga e dettagliata descrizione che gli aveva fornito in merito alla
famiglia Kunz e alla relativa conseguente
impossibilità da parte della donna ad effettuare una
cosa simile senza incorrere in probabili ritorsioni, non riuscì a non perdere
le staffe.
Quando abbandonò lo
studio di Quillsh, quest’ultimo
dovette ricorrere a degli inservienti per rimettere a posto la stanza lasciata
completamente a soqquadro dal fratello.
Anni più tardi - forse perché richiamato da
quel legame di sangue che sembrava aver rinnegato, col suo rifiuto – Quillsh gli aveva fatto recapitare una lettera presso la
curia nella quale amministrava il suo sacerdozio, informandolo del fatto che,
qualora si fosse trovato seriamente in difficoltà, non avrebbe dovuto fare
altro che rivolgersi ad L, senza però dilungarsi nello specificare di che diavolo stesse
parlando.
James aveva
bruciato la lettera, così come aveva bruciato, dentro di sé, l’idea di
avere e di avere avuto, un tempo, un fratello.
Aveva continuato ad esercitare la sua
devozione, trovandosi a pregare il doppio per quelle due anime di cui non aveva
avuto più notizie da quella lontana sera.
Finchè non aveva ricevuto
quella telefonata.
Una voce gracchiante – evidentemente
camuffata – lo aveva informato del ritrovamento di un risultato corrispondente
ad un test del DNA effettuato anni prima, che lo avrebbe
visto morto nel giro di poco tempo.
James non immaginava che
il “poco tempo” concessogli sarebbe scaduto esattamente il giorno dopo, e che
in quel “poco tempo” rimastogli avrebbe rivisto la creatura che vent’anni prima aveva rifiutato di accettare come sua. Così
come non immaginava quanto avesse potuto somigliare
alla donna che – nonostante tutto – si era ritrovato a pensare e ad amare
durante tutto quel tempo.
Nè che l’assassino
inviatogli a stroncargli la vita corrispondesse a quello che immaginava essere
un fedele curioso che giorni prima gli aveva posto delle domande sul proprio
percorso sacerdotale.
Né che si sarebbe
ritrovato a seguire il consiglio del fratello in extremis, scrivendo col
proprio sangue la lettera che sperava, ormai, potesse ritornare utile perlomeno
a Kate.
***
Lawliet si massaggiò la
fronte con la punta delle dita, continuando a piluccare svogliatamente una
fetta di torta alle fragole che non riusciva in alcun modo ad attirare la sua
attenzione.
Perché Quillsh
gli aveva taciuto tutta quella storia fino ad allora?
Se prima o poi si sarebbe palesata l’eventualità di
dover necessariamente intervenire in un caso simile, perché non gliel’aveva
reso noto?
Chiaramente la faccenda
dei Death Note doveva averlo distratto parecchio, senza dubbio. Ma vi
era una scarsissima probabilità che anche i casi precedenti dovessero
averlo distratto a tal punto da fargli ignorare un particolare di quella
portata.
Sollevò gli occhi sul monitor che gli
consentiva d’inquadrare la camera in cui aveva fatto sistemare la ragazza.
Chiaramente, coi Kunz ancora
in libertà, era assolutamente fuori discussione tenerla in una comune struttura
ospedaliera.
Avrebbe dovuto pensarci prima di prenotare
una camera nella migliore clinica privata della zona, che Quillsh
aveva prontamente provveduto a disdire.
Era l’ennesimo errore che compieva da quando erano atterrati sul suolo parigino. Cosa diavolo gli stava prendendo? Perché
non riusciva a ragionare e calcolare tutto come suo solito?
Rivolse nuovamente lo sguardo all’immagine
che intrappolava Quillsh e Catherine
nello spazio esiguo del monitor, prima che i suoi pensieri venissero
interrotti dallo squillo del cellulare.
-
L
- .
-
Qui,
Aiber. Sono sul posto. Attendo istruzioni. - .
Quando mise giù, si
ritrovò a sospirare profondamente.
Era ormai questione di ore.
Gli occhi si spostarono nuovamente sui
soggetti del monitor.
Quillsh stava carezzando i
capelli di Catherine, che aveva il volto nascosto tra
le mani, in lacrime.
Trattenne il respiro, stringendo la
forchetta nella mano.
Prima Aiber avrebbe portato a termine l’incarico, prima tutto sarebbe tornato
alla normalità.
Delucidazioni:
-
Il
passato di Quillsh Wammy,
meglio conosciuto come Watari ^ ^, come quello di L è inventato di
sana pianta ^ ^’ Sono consapevole che
non piacerà a tutti… d’altronde siamo (mi ci ficco anch’io in mezzo xD) abituati a vedere il caro Watari
come l’uomo senza macchia che ha cresciuto nientepocodimenoche
L! Come potrebbe una persona simile avere un passato ambiguo, pieno di zone
d’ombra? Ta-dan! Il Watari
della mia storia ha un trascorso turbolento, non a caso il
titolo del capitolo è “Skeletons”, ossia
“Scheletri”. Ho voluto implicitamente riferirmi ai cosiddetti “scheletri
nell’armadio” che ognuno di noi ha, compreso lui J
Ringraziamenti:
-
Fe85: Non vi ho fatto
aspettare molto stavolta =) Il trascorrere periodi non troppo felici ha il suo
lato positivo xD come al
solito: occhio, se noti qualche errore fammelo notare! Anche
perché stavolta mi sono cimentata in una spiegazione lunga e abbastanza
dettagliata in cui, quasi sicuramente, deve essermi sfuggito qualche errorino >__< e grazie per la recensione J spero alla
prossima;
-
Kiriku: No J non mi offendo se
non vorrai condividere con me le tue congetture J però sappi che mi
farai morire di curiosità! xD
ma è una tua scelta questa, che io rispetto in pieno J quindi don’t worry! =D qui cominciamo ad addentrarci nei meandri del labirinto mentale di L…
chissà che ne verrà fuori xD un bacio;
-
LirinLawliet: Sono assolutamente d’accordo, mia cara. In qualunque
modo lo si decida di chiamare, L resta sempre L *___*
Non credo che Catherine sappia di questa peculiarità
di L J e credo che anche qualora ne venisse a
conoscenza, non se ne curerebbe troppo J Catherine è una donna a pezzi a cui è stato portato via
tutto, senza che lei abbia avuto modo di aprire bocca per contestare, dissentire.
La storia che ho fornito sta proprio a sottolineare
questo: lei, tra tutti i fatti brutti e tristi compiuti dalle persone che aveva
attorno – consapevolmente o meno – ha avuto la semplice “colpa” di essere nata.
E qui mi fermo altrimenti ti anticipo troppo U__U (sì, perché inevitabilmente
ti ho dato un piccolo spoiler ^ ^’). Concludo
ringraziandoti per la recensione articolata che mi hai lasciato nell’ultimo
capitolo e per il fatto di seguirmi ovunque! Mi hai beccata anche nel fandom di Dragon Ball! xD Questa storia ha
dell’incredibile davvero!
Ringrazio inoltre tutte le persone che
hanno aggiunto la storia tra le seguite, le preferite e le ricordate J nonché
tutti coloro che decidono di perdere un po’ del loro tempo per leggere (e ne
siete tanti, eh! Fatevi sentire *___*) .
*inchino*
HOPE87
Ps: Ad un occhio
attento non sarà certamente sfuggita la dedica che ho
inserito in cima alla presentazione della storia. YamaMaxwell
è una fanwriter (a mio avviso, bravissima) che ama Death
Note ma che non bazzica molto nel fandom dedicato a
questo capolavoro. Mi è stata concessa (da lei stessa, chiaramente)
l’opportunità di sapere chi vi fosse dietro a questo nickname, scoprendo così l’esistenza di una persona non
solo estremamente fantasiosa, quanto estremamente umana, sotto svariati punti di vista, e con la quale ho scoperto di
avere più cose in comune di quanto potessi mai immaginare.
Sì, evidentemente avrei dovuto inserire la
dedica dall’inizio, ma inizialmente questa idea era
lontana da me. Poi, riflettendo sulla direzione che voglio far prendere alla storia,
mi è venuto da pensare: non posso non dedicargliela.
Ordunque,
ecco sciolti eventuali dubbi che avrebbero potuto cogliervi J
Pps: Ah, visto che ci
sono ^ ^’
semmai amaste Saiyuki e foste interessati a leggere
qualcosa di carino, ecco a voi la pagina della folle geniale: YamaMaxwell.