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Autore: Onigiri    14/10/2010    1 recensioni
Un rumore improvviso di passi le provocò un sussulto troppo forte, il foglio le sfuggì dalle mani e due ragni che si trovavano sul tavolo scapparono spaventati nascondendosi dietro le loro ragnatele trasparenti. Lo sguardo scivolò dalla lettera che stava rileggendo fino alla parete, in basso, dove una sottile striscia di luce tagliava il buio della stanza rendendo la polvere del pavimento simile a una nuvola di granelli di cristallo.
Sentì voci, voci lontane, voci di uomini che ridevano per una qualche divertente battuta.
Si affrettò ad arrotolare di nuovo il foglio, sebbene la tentazione di ristenderlo sul tavolo e aggiungere quella firma che aveva dimenticato (quell'Annabelle che lui tanto scriveva di adorare) le fece tremare le dita per l'incertezza.
Non importa, decise.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Ehi! Che ci fai lì dentro?"

Ti prego, non dire a mio padre che hai visto questo buco.

"Chi è tuo padre? E poi perché mi scrivi le cose?"

Perché non so parlare. Se anche apro la bocca non mi esce mai la voce.

"Che strano... ma anche tu sei un bambino? O un fantasma?"

Non so che cosa siano.

"Come ti chiami?"

Annabelle.









 

* * *

 

 

Mio caro Albert,

la vostra ultima lettera mi ha reso il cuore gonfio per la gioia. Dovevate vedermi, quando l’ho avuta tra le mani: ero tanto ansiosa di aprirla che ho quasi rischiato di strappare tutta la carta. Vi sarei sembrata una sciocca, senza dubbio.

Eppure, quando l’ho letta, mi è venuto da farlo molto lentamente, di assaporare con attenzione le vostre parole d’inchiostro come fossero frutti prelibati. Ho immaginato che voi foste con me, seduto al mio fianco mentre il materasso del letto accoglieva anche il vostro peso, e che ci foste voi a leggerla al mio posto. La vostra voce era bassa, di velluto, soffocata appena dal fiato bollente contro la pelle delle guancia, ed era così soave, come la più dolce delle ninnananne, da farmi sorridere e piangere.

Potrei apparire spudorata ai vostri occhi nel pensare certe cose, ma non passerò per falsa tenendovele nascoste. Se potessi, anzi, le urlerei fino a consumarmi il fiato, e se queste parole fossero aghi le infilzerei dritte nelle orecchie del mondo, e se fossero baci le affiderei al vento affinché raggiungano le vostre labbra. 

Oh, non stupitevi, Albert, se mi vedete così euforica oggi.

Ho avuto in dono un nuovo libro, dalla copertina morbida come la schiena di un gatto, con dentro delle figure meravigliose di donne ricoperte di fiori o uomini buffi con zampe di capra.

C’è scritta una storia, in quel libro, che mi ha tanto colpito da commuovermi. Ve la posso raccontare? E’ la favola del bellissimo dio del sole, Apollo, dagli occhi ardenti di fuoco e il sorriso di luce, che s’innamorò della dolce luna Selene.

Ahimè, Albert, quanto avrei voluto piangere nel leggere quelle righe, pensando ai due amanti che non possono vedersi, o toccarsi, che senza volerlo sfuggono l’uno dall’altra come la notte si ritira al sorgere del giorno. 

Ho continuato a leggere con le lacrime agli occhi, le ho trattenute finché non mi è più importato di stare attenta a non bagnare le pagine. Guardavo il disegno del povero Apollo alzare una mano verso il cielo stellato, ed era una figura così triste e pietosa che nel vederlo in quello stato avrei voluto essere la luna, e tendere il braccio verso la terra per sfiorare le sue dita e vedergli sciogliere dal viso quell’aria tanto sconsolata.

E la luna a cui lui si rivolge, Albert, è così bella in quella figura che se la potessi vedere sicuramente anch’io mi inginocchierei al suolo per dichiararle il mio amore. E’ rotonda, bianca come le ali di un angelo. Ho letto da qualche parte che risplende di luce buona, che a volte per invitare il mondo a dormire prende la dolcissima forma di una culla, e che se la si guarda troppo ci si perde nel suo meraviglioso candore. E vorrei tanto vedere anche il sole. Pare che sia una bollente palla di fuoco, e che i suoi raggi siano così belli da bruciare gli occhi fino a renderli ciechi. Voi, Albert, mi ricordate tanto il sole, perché quando leggo le vostre lettere illuminate le mie giornate e mi riscaldate il cuore fino a sentirmi bruciare il petto. E la favola di Apollo e Selene mi rammenta molto la nostra condizione.

Oh, ma non vi ho detto come finisce la storia.

Voi sapete cosa accade con l’eclisse di luna? La terra si sovrappone fra i due astri, e si oscura. E quando le tenebre calano come fanno le tende di un sipario, il dio del sole e la dea della luna si incontrano in segreto, possono parlarsi e toccarsi e scambiarsi baci fino a consumarsi come cera sul fuoco.  E oggi mi sono svegliata così leggera nel pensare a quel finale che non mi sarebbe sorpreso se nello scostare le coperte avessi spiccato il volo all’improvviso.

Ora più che mai, adorato Albert, ho la speranza di potervi abbracciare un giorno, che arriverà il momento in cui tutto il mondo si oscurerà mentre a brillare saremo solo noi due, uno di fronte all’altra.

Lo vorrei davvero, lo desidero con tutta me stessa, fosse anche solo per meno di una notte.

 




Un rumore improvviso di passi le provocò un sussulto troppo forte, il foglio le sfuggì dalle mani e due ragni che si trovavano sul tavolo scapparono spaventati nascondendosi dietro le loro ragnatele trasparenti. Lo sguardo scivolò dalla lettera che stava rileggendo fino alla parete, in basso, dove una sottile striscia di luce tagliava il buio della stanza rendendo la polvere del pavimento simile a una nuvola di granelli di cristallo.

Sentì voci, voci lontane, voci di uomini che ridevano per una qualche divertente battuta.

Si affrettò ad arrotolare di nuovo il foglio, sebbene la tentazione di ristenderlo sul tavolo e aggiungere quella firma che aveva dimenticato (quell’Annabelle che lui tanto scriveva di adorare) le fece tremare le dita per l’incertezza.

Non importa, decise.

Soffiò sulla candela, la fiamma si spense diventando una grigiastra striscia di fumo profumato, la stanza si oscurò e la penombra le coprì la vista come una benda avvolta sugli occhi.

Raggiunse il buco sulla parete, così piccolo da non poter contenere più di due dita, si stese a terra scostando dalla faccia qualche ciuffo biondo che avrebbe potuto coprirle la visuale.

 La polvere la circondò accarezzandole le guance e impigliandosi tra i capelli, e lei la respirò, la sentì appiccicarsi fra i denti e rotolare sopra la lingua, grattandole il palato quasi stesse ingoiando briciole di vetro.

Gli uomini si avvicinarono. Annabelle poteva scorgere il riflesso delle scarpe lucide contro la lastra di marmo del pavimento, e se anche sentì la luce appuntita e accecante del buco infilzarsi nell’occhio come uno spillo invisibile, si sforzò di non distogliere lo sguardo. 

“Non ci giurerei, Richard”

La voce rauca di un vecchio che fumava troppo tabacco. Padre.

“Con la fortuna che ho nelle corse dei cavalli? No, le puntate sarebbe meglio lasciarle a te.”

Risate. Passi.

Annabelle si portò una mano sulla bocca, imponendosi di non emettere alcun suono, fosse anche stato quello di un respiro troppo forte.

“Ma se sono bravo come dici, e scommettiamo sullo stesso cavallo, non sarebbe forse una convenienza per te?”

Una risata grossolana. La erre un po’ moscia. Richard: Fratello-di-Padre.

“Ma certo, quant’è vero che se il cavallo dovesse arrivare ultimo finiremo sul lastrico entrambi e non potremo concederci nemmeno un prestito a vicenda.”  “Quanto sei melodrammatico, Tom! E anche noioso. Ancora mi chiedo perché alla fine veniamo a trovarti tanto spesso.” 

Le scarpe si fermarono. La punta di un bastone da passeggio sfiorò e colpì il pavimento bianchissimo provocando un toc toc che parve quasi il bussare ad una porta.

Annabelle graffiò impaziente le unghie contro la pietra scura sotto di lei, e poi si stese di più a terra per cercare di vederci meglio. Quella posizione le provocò una fastidiosa fitta al seno, ma riuscì a ignorare anche quel dolore mentre fremeva per l’attesa e la paura.

“Per darmi fastidio, immagino… “ Padre ridacchiò, sputò fuori un piccolo colpo di tosse, poi ricominciò a parlare. “Per fortuna mio nipote non mi tormenta con queste sciocchezze.”

Annabelle riuscì quasi a scorgere le larghe gambe di Richard dondolare l’una sull’altra, vicino a quelle secche e immobili di Padre.

“Certo, voi due e le vostre conversazioni filosofiche. A furia di stare sui libri quel povero ragazzo è già diventato più vecchio di me. Albert?! Ma sei ancora lì?” 

“Sì, padre.”

La nuova voce era giovane, timida, meravigliosa, e anche se Annabelle non vide nessuno capì che chi aveva pronunciato quelle parole doveva essere molto più vicino di quanto potesse sembrare.

Trattenne il fiato, e portando velocemente una mano sul petto implorò il suo cuore di non fare tanto baccano. “Do un saluto al bisnonno, sperando che dorma in pace nelle terre dov’è caduto in battaglia.”

Qualcuno ridacchiò, ma lei lo sentì appena, con le orecchie ancora piene della dolcissima voce che aveva appena parlato. Mordendosi il labbro e fremendo d’emozione, raccolse il suo rotolo di carta e con mani tremanti lo infilò nel buco, spingendolo in fondo con l’indice e il medio. I suoni si fecero subito più bassi, più difficili da ascoltare, e lei tese le orecchie quanto poté per non perdersi una sola sillaba del discorso.

“Ti piace davvero molto quella statua, eh? Non fai che osservarla da ogni angolatura.”  “E’ così, zio Thomas. Ammiro le imprese del bisnonno quanto apprezzo il lavoro d’artista che ha dato vita a questa bellissima scultura. Devo dire però che anche la nicchia è molto ben fatta.” 

“…la nicchia, hai detto?”  “Uff… ma lo senti Tom? E’ come mia moglie, si esalta per le più grosse sciocchezze invece di pensare alle cose davvero belle. Loda dei quadri le cornici e dei libri le copertine.” 

Le voci si fecero più lontane, sfocate, senza più farle capire chi stesse parlando e chi no, e per sentire almeno le parole Annabelle dovette portarsi ancora più in basso, fino a farsi male al collo. “Anzi, se l’ottava meraviglia del mondo gli apparisse di fronte l’unica cosa che ammirerebbe sarebbe il paesaggio dietro di lei. Come farà a sopportarlo la donna che dovrà sposare non lo so ancora. Le corteggiatrici non gli mancano nemmeno –Tutto suo padre, d'altronde!-, ma per quel che mi risulta nessuna lo vede ancora matto come lo vedo io.”

“Lascialo stare, Richard, è ancora giovane per pensare al matrimonio.” 

Ci fu una risposta, poi altre parole, ma ormai erano tanto lontane che lei non riuscì più a coglierne il significato. Rimase immobile, con le labbra strette tra i denti e due dita ancora infilate nel buco, strusciò le vesti contro il pavimento sporcando la stoffa azzurra fino a renderla di un brutto color cenere. Poi il contatto con la carta scivolò via dalla punta delle unghie, e il forte rumore di scarpe che corrono sul marmo la fece sussultare fin quasi ad alzarsi in ginocchio. Trattenendo il fiato, allontanò frettolosamente la mano dal buco e ci guardò dentro, facendo in tempo a sentire qualcuno pronunciare il nome di Albert e scorgere la figura sfocata di due piedi sparire dalla sua vista.

Il respiro di Annabelle si bloccò nella gola, soffocante come una spina di pesce, sciogliendosi pian piano in un lungo sospiro sollevato. Non abbandonò subito quella dolorosa posizione, con gli occhi immersi nel buco colmi di speranza che i tre uomini decidessero per un qualche motivo di tornare indietro -se non per sapere vicina a lei la presenza di Albert, almeno per allietarsi nell’ascoltare una banale conversazione tra due persone e capire che cosa mai fosse il ca.val.lo. di cui parlavano. E aspettò, lo fece anche quando fu conscia del tempo che doveva essere trascorso e che di certo non sarebbero più tornati, rimase immobile in quella scomoda posizione fino a quando il suo collo dolorante non implorò pietà. Coprì il buco con un libro, si alzò in piedi e allargò le braccia per stiracchiarsi e fare una goffa giravolta. Felice, si portò le mani sulle guance, e ancora tentò una piroetta nel buio colta dall’improvviso desiderio di ballare. Gli occhi si abituarono presto al buio e l’aiutarono a distinguere almeno il contorno dei mobili e di evitare di sbatterci contro per sbaglio. Quando il fiato le mancò dai polmoni per il troppo volteggiare, col respiro spezzato raggiunse la sedia e cercò a tastoni la scatola dei fiammiferi, riaccendendo la candela e beandosi della sua luce pallida e del suo buon odore di cera calda. Un cumulo di lettere già lette giaceva ordinato in un angolo del tavolo, e lei allungò la mano per raccoglierne qualche foglio, assaggiando la consistenza ruvida della carta con le dita.


Mia cara Annabelle,

iniziava una, e le venne da sorridere ancora.

 


Trovo un po’ di tempo per scrivervi, da sotto le coperte pesanti del mio letto, facendo credere ai miei genitori di voler dormire e ordinando ai domestici di non disturbarmi per alcuna ragione. Sono un poco ammalato, con gli occhi e il naso fastidiosamente gonfi, e se ora vi parlassi con la mia vera voce e non con la carta e l’inchiostro di certo mi trovereste tanto ridicolo da farmi vergognare di me stesso.  

Spero di non farvi preoccupare troppo, Annabelle, se scrivo così spesso che sono malato e cagionevole. Il nostro dottore è venuto a farci visita e ha detto che non è nulla di grave. Sicuramente guarirò presto. Di certo è abbastanza per impedirmi di concentrarmi nello studio, ma non per smettere di pensare a voi e a bearmi ancora della vostra lettera, sperando che la mia risposta vi giunga più presto dell’ultima volta.


Annabelle smise di leggere e passò a un foglio sorretto con l’altra mano.

E’ impossibile vedere il mare con una sola occhiata, Annabelle.

E' troppo immenso, e troppo bello, per poterlo guardare con leggerezza o superba sufficienza. Il mare ha la magica capacità di paralizzarvi lo sguardo, e sembra disposto a qualunque cosa per raggiungere questo scopo.

Per chiamare a sé gli uomini, Annabelle, a volte ruba al sole i suoi raggi d’oro e li stende sull’acqua brillando come un immenso tappeto di diamanti, e altre volte muove le onde in un dondolio che pare più ipnotico dello sguardo di un serpente, e altre ancora assume un blu tale da far impallidire il cielo d’invidia e lo mischia armoniosamente con rivoli di bianco purissimo facendo sospirare il cuore di delizia.

E vi chiama, il mare, con la sua voce che si spezza contro gli scogli e si solleva nel vento, e vi invita a raggiungerlo fra le sue braccia gelate. Venite, vi dice, venite da me: non desiderate forse scoprire quali tesori racchiudo nei miei scrigni di sabbia? Non siete curiosa di cavalcare le mie onde reggendovi per le loro criniere spumeggianti? Non vorreste volare su di me a vele spiegate  per scorgere il volto di chi vi sta salutando da oltre il mio orizzonte azzurro?

Venite Annabelle, vi direbbe il mare: venite da me, e io vi accoglierò per non lasciarvi mai più.


Un altro foglio.

Dolce Annabelle,

l’inverno è arrivato, e io, preso dal mio mondo fatto di poeti latini e delle vostre lettere, non me ne ero ancora accorto. Invece stamattina è venuto a bussare alla mia finestra e ha coperto il balcone della mia stanza con la sua soffice neve fresca: tutto il paesaggio, da casa mia, si è colorato di un bianco meraviglioso, e guardandolo dall’alto della mia camera sembra proprio di stare sopra una nuvola.  Avrei voluto avervi qui con me, Annabelle, per ascoltare insieme la quiete dolcissima di questa stagione, e lasciare le nostre impronte sulla strada come due ragazzini che ancora vedono la meraviglia nell’ombra delle più piccole cose. Se potessi, Annabelle, metterei la neve in un bicchiere di vetro e lo porterei alle vostre labbra.

Non si può dire d’aver vissuto senza aver mai assaggiato il sapore della neve.


 

Un altro.

 Sapevo che zia Rachele aspettava un figlio l’anno dopo la mia nascita, ma ho sempre creduto allo zio Thomas quando diceva che lei era morta insieme al bambino che aveva messo al mondo.

Vorrei davvero potergli chiedere il perché tanta crudeltà nel rinchiudervi così e tentare di nascondervi al mondo come se voi non foste nemmeno sua figlia. Vorrei costringerlo a liberarvi, o almeno a permettermi di parlarvi da dietro le sbarre della vostra prigione.

E vi assicuro, Annabelle, che nonostante il bene che nutro nei suoi confronti come se fosse un secondo padre, se potessi prenderei lo zio Thomas per il bavero della giacca e gli urlerei contro la mia rabbia nel pensare alla vostra inspiegabile condizione. Non immaginate quanto mi faccia male  sapervi prigioniera in casa vostra senza che nessuno di noi due ne comprenda il motivo.

Ma ho paura di non risolvere niente. Ho paura che zio Thomas mi cacci via e non mi faccia più avvicinare alla statua del nostro bisnonno per vedere se dal buco della nicchia sbuca fuori una vostra lettera arrotolata. Ho paura di non potervi più scrivere, Annabelle. Ho paura di perdervi, come un viandante teme di smarrire la strada di casa. Cosa farei, mia Annabelle, se dovessi perdervi?


 Un altro.

Non sapete cos’è la marmellata di rose? E’ così dolce, e profumata, che basta aprirne un barattolo per vedersi immersi nel più odoroso dei giardini rossi.


Un altro.

Mi avete confessato che i vostri capelli hanno un colore che ricorda i campi di grano disegnati nei vostri libri. Non sapete, mia amata Annabelle, quante volte svegliandomi ho immaginato di scorgerli sparsi sul mio cuscino, o quanto spesso mi sono seduto su un prato e mi è sembrato di vedere lo zefiro attorcigliarli tra le sue dita in disordinate ciocche bionde. Non avete idea, Annabelle, quanto vorrei accarezzarli e assaporarne la fragranza almeno il tempo di tutta una notte, in quanti dei miei sogni sono rimasto immobile con voi tra le mie braccia baciando ogni vostro filo biondo come farebbe il contadino con le sue adorate spighe di grano.


Un altro.

Un altro.

E ancora un altro, e ancora e ancora…

Annabelle non smise fino a quando non sentì gli occhi bruciarle per la stanchezza, e non si accorse che la candela era diventata un corto mozzicone biancastro. Allora riordinò le lettere, piegandole con cura una sull’altra e riponendole nell’angolo del tavolo, e raggiunse il letto stendendo le braccia sulle coperte in una posizione di arresa.

Pensò ancora ad Albert, alle sua parole, alla sua voce, e un calore piacevole le accarezzò le gote fino a renderle bollenti. Pensò a quando lui era solo un ragazzino, e nel farsi mostrare da un adulto la statua del loro antenato aveva scorto qualcosa in basso che pareva lo scintillio di uno sguardo curioso. Si coprì le palpebre col braccio, lasciandosi cullare da un sonno improvviso che le fece sfuggire uno sbadiglio stanco, e le tornò in mente la storia che tanto le era piaciuta, quella di Apollo e Selene e dell’eclisse di luna.  

Pensò alla luna, e stiracchiò le labbra in un sorriso, prima di cadere in un sonno senza sogni.

 






 Pensò sempre alla luna.

Come tante cose che non aveva neanche mai visto in vita sua -come prima era stato col mare, la neve, o l’odorosa marmellata di rose- , infine arrivò anche il suo chiodo fisso per la luna. 

Avrebbe tanto voluto implorare suo padre di toglierla dal cielo e di portarla nella sua stanza, così da appenderla alla parete e bearsi del suo tocco bianco di luce per tutto il tempo che le sarebbe aggradato.  O almeno vederla, se il mondo non avesse concesso di prestargliela: aveva chiesto il permesso di uscire solamente per una sera, solo un breve istante per poterla scorgere da una finestra e capire cosa mai avesse provato il bellissimo Apollo nel guardarla per la prima volta e giurarle tutto il suo amore.  

Prevedibilmente, nessuno dei due permessi le era stato concesso.

Annabelle si era messa a piangere, ma non aveva insistito.

Suo padre andava a trovarla ogni giorno, stendendo la schiena lungo la parete oltre quella della sua stanza, giusto il tempo che bastava per assicurarsi che stesse bene e recitare insieme il rosario per chiedere perdono a Dio dei loro peccati. Quando lui le domandava qualcosa, lei, che non sapeva parlare, rispondeva porgendogli dei fogli da una piccola porticina in basso, quella che una vecchia domestica sordomuta aveva sempre usato per portarle da mangiare e la brocca con l’acqua per lavarsi.

Non le permetteva di uscire, o di parlare con qualcuno: Annabelle non poteva nemmeno vederlo in volto, accontentandosi  di ascoltare la sua voce rugosa da dietro la parete di pietra e quella odiosa porticina di legno poco sopra il pavimento. Neppure sapere il motivo della sua eterna prigionia le era concesso. Per qualsiasi altra richiesta, invece, suo padre assai raramente sapeva dirle di no: e quando la figlia domandò se poteva avere almeno dei libri nuovi che le parlassero della luna, lui cominciò a fargliene ricevere uno al giorno accanto al vassoio del pranzo. 

Così Annabelle passò le sue giornate a leggere, con una tale passione incisa nel suo sguardo che pareva potesse vivere solamente di quelle storie. Studiò le forme e i movimenti lunari con le sue complicate parole scientifiche, assaporò le dolcissime frasi d’amore delle poesie, rimase incantata da quelle favole e misteriose leggende che lei credeva reali quanto sapeva veri i passi della Bibbia.

La luna, la luna: solo un nome e una pietra d’argento nei suoi pensieri, quando non erano rivolti al suo amato Albert. 

La disegnava, coi suoi gessetti e i suoi pennelli, arrotolava fogli vuoti dandogli una forma sferica e sdraiata sul letto si divertiva a lanciarli contro il soffitto scuro, sperando si fermassero a mezz’aria e diventassero piccole lune di carta. La sognava, la luna, accanto al volto immaginario del suo amante, e si svegliava sorridendo nel pensare sicura che anche per loro sarebbe arrivata l’eclisse che li avrebbe fatti incontrare. 

Tuttavia, quella nuova e ardente passione non durò che poco: forse una settimana, o qualche giorno in più, prima di incappare in uno dei suoi nuovi libri e scoprire con orrore che cosa terribile aveva fatto la luna ai poveri figli del sole. 

La luna, recitava la storia, era terribilmente gelosa di loro, perché più belli e splendenti delle sue piccole stelle dalla luce troppo pallida per reggere il più misero dei confronti. L’invidia dell’astro notturno divenne tanta da cominciare a dirsi che una volta cresciuti gli uomini sarebbero di certo morti per il troppo caldo, e alla fine, convintasi di agire nel giusto, decise di sbarazzarsene.

Fece credere al sole che uccidere i loro rispettivi figli sarebbe stata la scelta più giusta, perché erano troppi, e troppo vivaci, e in breve tempo nel cielo non ci sarebbe nemmeno stato abbastanza spazio per tutti. Propose di procurarsi ognuno un piccolo sacco, d’infilarli dentro e di gettarli nel profondo dell’oceano, così che se anche fossero sopravvissuti non sarebbero più potuti tornare indietro.

La luna però, che non aveva alcuna intenzione di far del male alle sue adorate stelle, dalla spiaggia si procurò tanti sassolini e con quelli riempì il suo sacco fino all’orlo: quando il sole la raggiunse, lei, affatto esitante e con un vittorioso sorriso malcelato, lo gettò nell’acqua del mare e lo guardò sparire nel fondo scuro senza scomporsi.

Il sole, nel vedere quel gesto compiuto con tanta decisione, fattosi coraggio e con le lacrime agli occhi imitò la luna e lanciò il sacco dall’alto, guardando pieno di dolore i suoi amati figli per l’ultima volta, mentre annegavano nel mare.

 


E’ una storia così terribile, Albert, che nel pensare a tanta crudeltà stavo davvero per urlare dalla rabbia.


 Annabelle aspettava sempre con pazienza che le giungesse la lettera del suo amato cugino prima di preparare la risposta da dargli: ma quel giorno la delusione e l’amarezza era stata tanta nel suo cuore da voler cercare subito qualcuno con cui sfogare quei brutti sentimenti che l’avevano fatta piangere per tutto il giorno. 


 Io non ho mai visto un bambino, nemmeno una figura disegnata in uno dei miei libri: ho letto che sbucano fuori dalle foglie di cavolo, e che sono piccoli, e morbidi, e che non esiste acqua limpida quanto i loro occhi e nulla di più splendente del loro primo sorriso. Se mai dovessi avere un bambino tra le braccia, come potrei pensare di fargli qualcosa di male? E come possono gli uomini che scrivono tante poesie d’amore per la luna lodare qualcosa di così ingannevolmente puro? Oh, Albert, che tristezza mi ha sommerso quando ho letto quella storia. Non credo di voler mai più vedere la luna. E se dovesse accadere, mi alzerei sulle punte dei piedi e le darei uno schiaffo, quant’è vero che vi amo.

 



Non confidò a suo padre d’aver cominciato a odiare la luna, perché ebbe paura di apparire frivola ai suoi occhi nell’aver cambiato drasticamente opinione dopo solo così poco tempo. E così lui, ignaro, continuò a mandarle libri che lei prontamente gettava da qualche parte senza nemmeno sfogliarli, diventando malinconica e lanciando sguardo annoiati al buio mentre attendeva con sempre più impazienza una nuova lettera di Albert.

 

Ma il tempo passava, e ogni volta che provava a scoprire il buco della nicchia non si affacciava mai nulla nella sua stanza, se non il solito raggio di luce che a volte pareva un’antipatica linguaccia di scherno. Annabelle non sapeva contare le ore, i giorni o le settimane: intuiva solamente quando il tempo trascorso era tanto o poco.

Ne passò molto.

Si fece sempre più impaziente, e i suoi occhi diventarono colmi di amarezza fino a sciogliersi in lacrime tutto il giorno. Passatempi come disegnare o leggere si fecero terribilmente noiosi, la voce stanca e roca di suo padre le incuteva terrore al pensiero che lui avesse scoperto il loro segreto e cacciato Albert da casa sua. Dormire divenne un’agonia quando il suo sonno fu invaso da incubi tremendi.

La solita donna che mai aveva visto e con cui mai aveva conversato continuava a portarle vassoi colmi di cibo dal profumo delizioso, e accanto sempre un libro nuovo e pronto da sfogliare. Annabelle non aveva più il solito appetito, con lo stomaco attorcigliato in un nodo che le faceva passare tutta la voglia di mangiare, ma alla fine riprese, pur senza entusiasmo, a leggere qualche pagina di storie lusinghiere sulla luna che le sembravano così false da darle i brividi sulle braccia.

La luna ha le macchie, lesse un giorno, e la cosa la sorprese.

Lei sapeva di crateri, dal difficile trattato di un qualche famoso astronomo, ma mai, in nessuna favola o poesia, aveva sentito parlare di “macchie”. Allora aveva continuato, scoprendo che anche quella era una fiaba, e che anche lì c’era il sole. E parlavano, nella storia, come fossero amici, senza alcun rancore: forse –pensò- questo fatto successe prima che la luna cospirasse contro i suoi figli, o magari invece molto tempo dopo, quando ormai il sole si era deciso a perdonarla.

Non riuscì a capirlo, ma continuò a leggere, curiosa.

Nella storia la luna, stanca della superbia del sole per essere l’astro più splendente del cielo, lo aveva sfidato per vedere chi dei due fosse in grado di brillare di più. Il sole, certo che fosse impazzita, l’aveva derisa e canzonata, ma alla fine aveva accettato la sfida.

Così, desideroso di mostrare a tutti la sua magnificenza e di dare una lezione alla luna, quella stessa mattina scacciò via ogni nuvola che potesse intralciarlo e stese i suoi raggi sulla terra, senza lasciare un solo spazio privo della sua bellissima luce dorata. Gli uomini rimasero accecati da tanto bagliore, ma tutto quel caldo finì con l’impacciare il loro lavoro e seccare i raccolti, e senza poter far nulla guardarono accendersi incendi dove l’erba era più secca e indurirsi in fango l’acqua dei ruscelli.

La sera, il sole, ignorando i lamenti degli uomini e certo della sua vittoria, lasciò spazio alla luna.

Annabelle.

La luna allora si gonfiò in una sfera perfettamente rotonda, e incoronata con la sua dolce luce d’alabastro pareva davvero una regina meravigliosa. Non aveva nulla della magnificenza del sole, ma nonostante questo, comodamente seduta nel suo letto di velluto nero, accese di dolcezza gli occhi di tutti gli amanti notturni, rese bianche come neve le strade scure dei boschi per i viaggiatori smarriti, s’infilò nella stanza di ogni bambino che avevano paura del buio per cullarlo con affetto, e guidò la penna dei poeti che cercavano ispirazione nelle stelle.

Annabelle.

La luna sapeva bene di non poter competere col dorato signore del giorno, ma non poté non gonfiarsi d’orgoglio nel sentire gli uomini amarla e lodarla come mai avevano fatto dai tempi in cui il mondo era nato. Aspettò dunque l’arrivo dell’alba per incontrare il sole dall’altra parte del cielo e mostrargli il suo operato. Hai visto?, gli disse allora, con voce dolce e vittoriosa. Ora non ti vogliono più!    


“…Annabelle?!” 


Sussultò, così forte che il libro le sfuggì dalle mani sollevando un pugno di polvere dal pavimento.

Si portò le mani al petto e presa dalla paura si guardò attorno quasi aspettandosi l’apparizione di uno spettro. Persino la fiamma della candela tremò sullo stoppino, e tutte le ombre della stanza sembrarono come voler fuggire via percorse da brividi di terrore. 

Allora si accorse che dal buco sul pavimento non usciva fuori alcun raggio di luce, e il respiro le si incollò nella gola e il cuore le rimbalzò nel petto con tanta forza da far sembrare che volesse romperle le costole. Annabelle, in un attimo di smarrimento e poi di frenetica impazienza, si alzò in piedi, inciampò sulla gonna, gattonò coi gomiti fino alla parete e allungò la mano per infilare l’indice e il medio nel buco. Percepì la morbidezza della carta contro le unghie, e senza preoccuparsi di rischiare di strapparla tirò a sé il foglio arrotolato avvicinandolo alla bocca spalancata nel più felice dei sorrisi. Ancora sdraiata sul pavimento, quando si accorse d’aver cominciato a piangere, coprì la lettera con le mani per impedire che si bagnasse, ma non riuscì a smettere di baciarla e accarezzarla con la guancia. Lo fece solo quando Albert ricominciò a parlarle.

“Annabelle…”

Ma non riusciva a vederlo bene, nonostante si fosse spinto fin dentro la nicchia e dietro la statua del loro bisnonno colonnello. Avvicinando un occhio al buco, poteva scorgere la punta di una scarpa marrone e la manica di una giacca leggera. La mano di Albert era pallida, le sue dita lunghe e robuste: le venne voglia di baciarla e strofinarla sul viso come aveva appena fatto con il rotolo di carta che stava stringendo contro il seno.

Lo ascoltò sospirare. “Hai ragione, lo sai? Siamo come…”  rise, nervoso.  “…come il sole e la luna. Vedrai che un giorno io…” 

Lo sbattere di una porta lo interruppe e il rumore di passi zoppicanti fece balzare Albert in piedi e allontanarsi goffamente dalla nicchia e dalla statua.  

“Oh! Albert.” Padre attraversò il salone: Annabelle riconobbe subito la sua voce roca e la camminata incerta di un uomo già vecchio. Vide due diverse paia di scarpe avvicinarsi e fermarsi una di fronte all’altra, e immaginò che si stessero abbracciando. “Sono così contento di vederti in piedi. Non dirmi che mio fratello ti ha lasciato venire da solo.” “Sì, zio Thomas. Mio padre aveva da fare, ma appena mi è passata la febbre ho subito desiderato venire a farvi visita. E non credo vorrò più vedere un letto nemmeno per andare a dormire.” 

Padre gli rispose, ma lei non riuscì a capire le sue parole. Col cuore in gola, guardò le scarpe allontanarsi e percorrere il pavimento fino a scomparire dalla sua vista. Si sentirono risate lontane, il rumore di una porta che sbatte, e poi un silenzio leggero. Annabelle si alzò dal pavimento mettendosi a sedere contro la parete, e rise.

Rise senza voce, con le mani sulle guance e lo sguardo colmo di felicità rivolto al vuoto, rise e ringraziò chiunque le avesse fatto quel regalo tanto meraviglioso.

Albert non se ne era andato, Padre non li aveva scoperti, e dopo tanto, tanto tempo, aveva sentito la voce dell’uomo che amava rivolgersi a lei. Solo a lei.

L’aveva chiamata Luna.

Annabelle sorrise ancora, le spalle le tremarono per la gioia mentre cercava di trattenere le lacrime. Le dita delle mani, tremanti di gioia, le accarezzarono il viso, le orecchie a punta, e quei ruvidi cerchi di peli che le macchiavano la faccia.

La luna ha le macchie, pensò di nuovo. E abbassò lo sguardo verso il libro aperto vicino alle sue ginocchia.


Nella favola, lesse, il sole si era sentito così infuriato e umiliato di fronte alla vittoria della luna, che preso dalla rabbia le aveva lanciato addosso del fango, e quello sporco non era più venuto via dal suo tondo volto bianchissimo.


Non appena si ricordò della lettera, si dette della sciocca. Rivolgendo la carta verso la luce del buco della nicchia, cominciò subito a leggerla. Vedere la grafia di Albert le fece sfuggire un sospiro estasiato che le inumidì gli occhi per la felicità. 

 


Dolce, dolcissima Annabelle,

come potreste apparire sciocca come sostenete, nella vostra infinita innocenza? Non avete idea con quanta tenerezza mi si sciolga il cuore nel leggere le vostre lettere. Ed è in momenti come questi che anch’io vorrei tanto gridare di gioia, vorrei uscire dalla mia stanza e dire ai domestici, a Lucius, Geltrude, Colin, che vi amo, vorrei viaggiare e correre in tutte le strade di tutta la terra per urlarlo con tutto il fiato che ho in gola, vorrei inciderlo in ogni albero e roccia e volare nel cielo per sussurrarlo ad ogni stella del firmamento. Com’è buffo l’amore, mia Annabelle: ti pugnala il cuore fino alla follia, ma ti rende così felice da farti sembrare il sovrano del mondo. Non temete di apparire più sciocca di quanto sia io nel confessarvi queste cose, Annabelle. O spudorata, no, come potrei anche solo pensare questo di voi? Siete amabile come una bambina che ancora conosce poco del mondo, e che vorrebbe essere sollevata in braccio per poter guardare sempre più lontano.



Annabelle sorrise, commossa fino all’orlo del pianto. Senza smettere di leggere cercò con la mano il vassoio della colazione, e si portò alla bocca la prima cosa che le capitò. L’odore inebriante della carne cruda le fece brontolare lo stomaco per la fame, distraendola un momento. Addentò la gamba da neonato, fresca di taglio, succhiando la pelle ancora morbida e affondando la sua fila di canini fino all’osso, che sgranocchiò come fosse una dolce zolletta di zucchero. Un sapore sublime le scivolò lungo tutta la lingua biforcuta facendole rizzare i peli di tutta la schiena per il piacere. Gli occhi si accesero di un rosso estasiato e terrificante. Arrivò al piede quando, togliendo i grumi di sangue dal mento e asciugandosi una lacrima impigliata sulle ciglia, ricominciò la lettura.


 

La storia che mi avete raccontato ha commosso anche me, e mi ha spronato a conoscere qualcosa di più sulla letteratura greca. E’ davvero affascinante, e mi ha sorpreso tantissimo quanto i latini abbiano appreso dalla loro cultura. Ma non voglio annoiarvi, Annabelle. Parlerei di queste cose in eterno con i miei genitori o compagni di studi, ma se si tratta di voi, amore mio, passerei tutta la mia vita a parlare di noi, del nostro mondo di lettere arrotolate e di sogni dove ci teniamo per mano guardandoci negli occhi. Se mi fosse concesso di indossare le vesti di Apollo, viaggerei col mio carro di fuoco per tutto il cielo fino ad incontrarvi, mia luna. Sono certo, Annabelle, che vi incontrerò, anche a scapito di tutto e di tutti, proprio come fecero Apollo e Selene.

Io, Albert, il sole.

Voi, Annabelle, la luna.    
















***
*l'ingresso di onigiri è accompagnato dal consueto lancio di pomodori e uova marcite* . E-ehm... sì, lo so, mi rendo conto anch'io di quale obbrobrio abbia deciso -di nuovo- di pubblicare -.- . Questa fic era arrivata ottava a un vecchio (ma non tanto) concorso di Eylis, *La nicchia e... la luna*: come lei ha giustamente detto nel suo giudizio, ha uno sviluppo lento e un colpo di scena forse troppo affrettato. La ringrazio per avermi fatto notare questi errori =).
Cosa sia Annabelle, in realtà, non lo so nemmeno io XD. Ho cercato di immaginare, per questa storia, una sorta di "errore di natura", un padre che non ha il coraggio di far del male a sua figlia e la tiene nascosta al mondo e a se stessa, un mostro che non sa nemmeno di essere tale. Spero di esserci riuscita almeno un pochino... spero °-° .
Detto questo, ringrazio tantissimo chi leggerà questa storia! Un bacio =D,
onigiri


*scappa dalla verdura marcia*


   
 
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