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Autore: Tersy    20/10/2010    0 recensioni
Amal, una bambina prodigio, parte per l'Australia. E lì vivrà un'avventura che le cambierà la vita.
Amal era un genio, ma non lo diceva a nessuno. Dentro di sé, in un remoto e profondo antro della sua mente, era consapevole di avere un dono e che l’avrebbe dovuto proteggere. Preservarlo da chi non lo aveva e avrebbe voluto strapparglielo via, se solo avesse potuto.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I
Come i canguri


Il mondo è intero e diviso.
È intero perché è diverso e multiforme. Contraddizione? Pensate solo al bianco: è l’insieme perfetto e misurato di tutti i colori. E’ uno e tanti contemporaneamente.
È diviso perché è uguale ed omogeneo. Follia? Non lo sapete le conflittualità nascono dalla profonda ed insita radice comune ad ambo le parti? Più si è simili, più si è portati a divenire contrastanti.
Al mondo ci sono sempre due categorie per ogni cosa. Per le ere, per i luoghi, per gli oggetti. Per gli uomini. Tutto sommato, si possono riassumere in due classi: chi ha e chi non ha.
Una negazione che fa la differenza, ma non si può certo dire che non abbiano la stessa matrice.

Amal non sapeva ancora a quale categoria appartenesse. Forse non si era nemmeno mai posta la questione. Lei aveva altre preoccupazione a cui badare, dopotutto. Molte di queste le avrebbe potute anche misurare in cifre a più zeri, se fosse stata particolarmente avida. Ma a lei interessava chi era e non cosa aveva.
Amal era considerata l’artista del momento, e non solo di questo momento, ma anche di quelli di là da venire. Chiunque avrebbe scommesso sul suo debutto a livello mondiale, presagendo a breve qualche sonoro scossone al vertice che avrebbe fatto tremare quei fondo schiena assicurati per milioni di dollari. Perché Amal, nel suo campo, la sapeva lunga. Un po’ meno per quanto riguardava la vita, ma, come già detto, lei aveva altro a cui pensare. E in fondo, avrebbe avuto modo e tempo per rifarsi anche in quel campo.
Amal, nonostante molte delle persone a lei vicine l’avrebbe inquadrata ed avviata ad un altro settore, era una violoncellista professionista. Lo vantava con grande orgoglio. Ne aveva, peraltro, tutti i motivi. Teneva concerti da solista da una parte all’altra dell’oceano Atlantico, accompagnata dal plauso della critica musicale. La maggior parte dei brani che suonava erano composti da lei stessa e questo non faceva di lei una mera esecutrice.
Amal era un genio, ma non lo diceva a nessuno. Dentro di sé, in un remoto e profondo antro della sua mente, era consapevole di avere un dono e che l’avrebbe dovuto proteggere. Preservarlo da chi non lo aveva e avrebbe voluto strapparglielo via, se solo avesse potuto.

«Sidney?»

La sua tenera voce si aprì ai presenti dopo un lasso di tempo piuttosto lungo da quando aveva ascoltato la proposta.

«Sì, tesoro. È una grande occasione.»

Jamila la osservava con occhi lucidi e brillanti. Voleva trasmetterle tutto il suo entusiasmo languido. E ci riuscì benissimo.

«Partiremo domani. Abbiamo già prenotato i biglietti aerei.»

Connor si intromise nella conversazione, portando con sé quel vento di pragmatismo che era stato da sempre la forza motrice, atta a sospingere la vela della sua famiglia.
Sì, Connor e Jamila erano marito e moglie. Conosciutisi quindici anni prima, durante un esotico quanto intrigante viaggio a Marrakech . Lei, giovane archeologa con il desiderio di scoprire cosa ci fosse oltre il Marocco. Lui, scapolo, naturalmente scapestrato, con il solo desiderio di poter vantare di conoscere cosa ci fosse oltre San Francisco. Entrambi con un’intensa propensione per il viaggio. E implicitamente, per la fuga. Quando si erano sposati, sembrava una favola moderna, farcita del cattivo di turno, Mr. Cox padre, magnate dell’industria farmaceutica, che, manco a dirlo, disapprovava la lieta unione. L’idea di casta chiusa è una questione tutt’altro che chiusa. Il rampollo e la marocchina. Ottimo titolo per un nuovo prodotto di casa Harmony, molto meno brillante come rude realtà.

Amal li fissava con le sue iridi corvine con la stessa espressione di chi guarda la sua vita da un oblò: sorridente, in ogni caso. Se è davvero una commedia, c’è il piacere di chi si scopre appagato. Se, in realtà, è una tragedia, c’è il sollievo che, comunque, sia troppo distante da sé per poterla definire la propria.

«D’accordo.»

La sedia su cui era adagiata avvertì la pressione delle sue esili braccia che portavano il bacino insù nell’intento di sollevarsi.

«Aspetta ti do una mano.»

Connor Cox si avvicinò con fare premuroso alla ragazza porgendole il braccio destro.

«No, posso farcela da sola.»

Il dorso della sua destra scansò quell’aiuto, mentre i suoi occhi lo ripudiavano, ritenendolo inopportuno. Amal,in realtà, si era posta molte volte il problema dell’avere o non avere, ma, qualità riservata a pochi, era sempre stata abilissima nel mascherarlo. Si era imposta, per meglio dire, di mascherarlo.

Amal aveva una lunga chioma scura e riccia ed una carnagione bronzea. Il delizioso fascino mediterraneo ereditato da sua madre. Amal aveva dodici anni. Qualcuno con una punta d’invidia direbbe: solo dodici anni.
Amal, per essere precisi, Amal Beatrix Cox aveva due genitori che, a tratti (a tratti molto lunghi), erano ben più adolescenziali di quanto lo fosse lei. Il loro sentirsi continuamente in catene e l’irrefrenabile brama di scappare l’avevano fatta arrivare più di una volta alla conclusione che la portassero in lungo e in largo per poter avere un ottimo movente per l’ennesima evasione dalla realtà. I sogni dei genitori che si riflettono sui figli. Sempre la solita minestra riscaldata che nessuno ha smesso di cucinare.
Anche Amal aveva un sogno. Dei sogni. E non c’era da stupirsi. Era il bocciolo di un astro nascente dell’arte. Se non avesse avuto anche una sola misera aspirazione, la sua stella non sarebbe mai nata. La pulsione interiore che la spingeva ad andare avanti con tenacia era l’amore. L’amore per la musica che sperava non si tramutasse mai in amore per il successo. No, questo mai.
La ragazzina si liberò abilmente della presenza, a volte ingombrante, dei due adulti, uscendo dal salotto per addentrarsi nel corridoio, che l’avrebbe condotta alla sua stanza.

Avere e non avere. Forse è questo il vero problema. Spesso ci concentriamo su ciò che non possediamo, ossessionati dal pensiero di essere privati di qualcosa, che potrebbe, in fondo, non divenire mai nostra. Come fosse un diritto inviolabile da parte nostra e un dovere morale degli altri non ostacolarci in questo intento. In realtà, non esiste un diritto sul possesso. Ciò che abbiamo, potremmo non avercelo e quand’anche fosse nostro, niente e nessuno è obbligato a non rubarcelo. Siamo vittime delle paure insite nei nostri averi. È per questo che, a volte, appare più semplice non possedere nulla, per limitare o perfino annullare l’affanno. Ma non è così che funziona, non è così semplice.

Amal non aveva due cose. Che fossero fondamentali o no, spettava a lei stabilirlo. Di certo, la loro mancanza era quanto mai evidente e soprattutto pesante. Un peso che fisicamente non c’è, ma comunque da sopportare.
Si sedette sul suo letto e appoggiò le mani vicine ai fianchi, increspando il copriletto turchese. Restò con il mento in direzione del soffitto, mentre lasciava ciondolare la parte del suo corpo dalla vita in giù.

Amal, la dolce Amal, l’enfant prodige, era nata senza gli arti inferiori. Condizione alla quale ti devi abituare o rassegnare. E lei e i suoi genitori avevano ritenuto che una vita di rassegnazione fosse troppo, per quanto potesse essere breve. Si tolse una alla volta le protesi in titanio che fungevano da sostenitori. Mai sia definirle ‘gambe’, lei non lo permetteva. Le gambe sono quelle fatte di carne e femore, quelle con cui ci si può tagliare o ballare. Quelli che giacevano sul pavimento erano semplici strumenti, nulla a che vedere con un paio di gambe con tanto di muscoli e tendini. Quelle non erano vere. Sempre che si possa stabilire cosa è vero.

Con l’aiuto delle braccia, si adagiò distesa sul letto. Mise le mani dietro la nuca e serrò le palpebre.

Chissà com’era l’Australia. Non ci era mai stata prima e sicuramente gli stereotipi su canguri e koala, che vagavano liberi e soprattutto che se ne vedevano spesso, non aiutavano a dare un’immagine più chiara e complessiva dell’isola. Tanto valeva fantasticare da sé su quello che vi avrebbe trovato, piuttosto che dipendere dalle fantasie altrui.

Si addormentò con questo pensiero che le gironzolava per la testa: ma i canguri saltano perché non possono camminare?
   
 
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