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Autore: ballerinaclassica    22/10/2010    8 recensioni
La pioggia picchiettava contro i vetri della camera d'ospedale e Arthur sentiva le sue ossa scricchiolare e provocargli un dolore atroce che nessun medico pareva saper curare, sostenendo che quel dolore era soltanto nella sua testa e non nel suo corpo.
Era Ottobre, e il mondo non aveva ancora deciso se cancellarlo o ridargli una vita.
[ USA/UK, accenni di FrUK ]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Era Ottobre, quel periodo dell'autunno che cominciava già a rendere l'Inghilterra un luogo desolato e cupo, che la copriva di nuvole più di quanto non lo fosse già a che portava via le foglie da una parte all'altra, intristendo i giardini già troppo abbandonati, perché i loro padroni non avevano più il tempo di prendersene cura, dato che erano troppo impegnati a pregare per i loro figli coinvolti in una guerra che sembrava non finire più.
La pioggia picchiettava contro i vetri della camera d'ospedale e Arthur sentiva le sue ossa scricchiolare e provocargli un dolore atroce che nessun medico pareva saper curare, sostenendo che quel dolore era soltanto nella sua testa e non nel suo corpo. Eppure Arthur lo sentiva, sentiva la sua schiena andare a fuoco e una sensazione di schiacciamento sulle gambe, che lo faceva agitare nel letto (per quanto ci riuscisse) e restare con gli occhi spalancati rivolti al soffitto e il sapore amaro della frustrazione nella bocca. A volte piangeva come un bambino, a volte pregava Dio affinché lo uccidesse nel sonno e ponesse fine a tutta quella sofferenza.
Aveva anche la vaga impressione che si stesse rimpicciolendo, come se il mondo avesse giustamente deciso di non aver più bisogno di lui e quindi che fosse necessario soltanto cancellarlo. Se ne accorgeva grazie alla camicia da notte dell'ospedale, che diventava di giorno in giorno più larga. Le sue ossa erano sempre più piccole, malgrado fosse poco più che ventitreenne e avesse almeno altri trent'anni di vita davanti, come aveva detto il medico, e la notizia lo aveva sconvolto, perché non aveva affatto voglia di passare altri trent'anni su una sedia a rotelle.
Arthur Kirkland era stato un pilota fortunato, a detta di molti, ma secondo la sua opinione era stato il più disgraziato di tutti. Il suo atterraggio di emergenza non l'aveva ucciso, come spesso accadeva a tutti gli altri, nemmeno l'esplosione del suo aereo, quando si era allontanato solo di pochi metri ci era riuscita. Arthur era stato sbalzato in avanti, e forse per una fortuita serie di coincidenze non era morto. La sua schiena però si era rotta, e Arthur era stato costretto a dover aprire gli occhi davanti a un futuro di invalido, quando era ancora molto giovane.
Da quel giorno in poi, la sua vita era stata completamente stravolta. Non doveva più svegliarsi ogni mattina alle cinque, correre verso gli aerei e pregare di tornare a casa vivo o almeno intero. Arthur passava tutta la mattina nel suo letto d'ospedale, finché l'aiuto infermiere non lo lavava e lo aiutava a mettersi seduto sulla sua carrozzina. Era un destino triste e umiliante, e lui doveva cercare affrontarlo a testa alta.
Le uniche volte in cui si sentiva felice, in cui aveva la vaga impressione che valesse la pena di continuare a lottare contro la morte, era quando l'aiuto infermiere, un ragazzone che stava meglio su un campo di battaglia che in un ospedale, lo portava fuori a fare una passeggiata. In quei momenti Arthur cercava di ricordare la sua infanzia, le sue corse nella tenuta che suo padre aveva in Texas e che gli aveva lasciato in eredità, dimenticava il rimbombare delle esplosioni, il frastuono degli aerei e dei proiettili che tagliavano l'aria. La villa dei Kirkland in Texas era un luogo fiorente che suo padre aveva usato per farsi fortuna e ci era riuscito. Arthur la ricordava ancora perfettamente, ricordava come quel luogo primitivo si fosse trasformato in pochi anni in una delle terre più fertili, lui e suo fratello passavano giornate intere a girovagare in quei territori, alla scoperta di luoghi nuovi.
In quel momento, mentre l'aria umida gli faceva dolere le ossa e lui chiudeva gli occhi cercando di non pensarci, qualcuno bussò alla porta e pensò che fosse Alfred, l'aiuto infermiere, che gli portava da mangiare. Gli era capitato spesso di perdere la cognizione del tempo in ospedale, giorni in cui era convinto che fosse Giovedì e invece andavano a dirgli che era Sabato, giorni che chiedeva di partecipare alla messa della Domenica e invece gli riferivano che mancavano ancora quarantotto ore.
«Sei già in piedi!», strillò Alfred, entrando nella stanza con un vassoio in mano.
Probabilmente non si era nemmeno reso conto di quello che aveva detto, dato che “in piedi” era un concetto un po' troppo esagerato per Arthur.
Aspettò che si avvicinasse a lui, senza spostare la sedia a rotelle dalla finestra. Alfred sapeva come comportarsi, anche se spesso doveva avere a che fare con il suo carattere burbero, che peggiorava con il passare del tempo e con l'aumentare della sua depressione.
«Oggi non possiamo uscire a fare una passeggiata, hai visto che tempo? Ho telefonato i miei genitori, e dicono che lì c'era il sole. Arthur, dovresti pensarci seriamente, comunque.»
Arthur gli rivolse un'occhiataccia e poi guardò di nuovo fuori dalla finestra, evitando di rispondere. Alfred gli aveva chiesto almeno un milione di volte di andare con lui in America e lui aveva sempre rifiutato. Non voleva essere un peso per nessuno, non voleva vivere come un povero invalido. Eppure sapeva bene che non c'era altra soluzione, che nella tenuta dei Kirkland vicino Houston non c'era posto per un malato in carrozzina che aveva bisogno di cure infinite e di una veglia continua. Alfred però non si stancava mai di chiederglielo da quando era arrivato, almeno un mese prima, in quell'ospedale.
Era una giovane leva volontaria, arrivata in Inghilterra per poter pilotare un aereo e ammazzare qualche tedesco, come aveva detto lui, ma che si ritrovava a dover badare ad un malato dato che, a causa della sua vista, non aveva avuto il brevetto. Alfred giurava ogni giorno che prima o poi si sarebbe fatto militare e se ne sarebbe andato in Francia a combattere, però era ancora lì, ad imboccarlo o a leggere per lui quando Arthur non aveva abbastanza forza per tenere un libro tra le mani.
«Dicono che la guerra stia finendo, sai? Ovviamente il merito è tutto nostro», disse Alfred, sedendosi sul letto e tirando verso di sé la sua sedia a rotelle.
«Non dire sciocchezze, lo sbarco in Normandia non avrebbe avuto successo se oltre a quel branco di idioti americani non ci fosse stato il supporto della nostra aviazione.»
«Non è vero! Comunque senza di noi potevate soltanto sognare di andare in Francia!»
Arthur borbottò qualcosa di incomprensibile, probabilmente che Alfred aveva ragione, accompagnando la sua frase con un paio di insulti che interessavano lui quanto tutto il resto del suo esercito. L'aiuto infermiere sorrise vittorioso, continuando a dargli da mangiare e notando che l'appetito di Arthur era sempre di meno, nonostante spesso Alfred preferisse farlo spostare da solo durante le loro passeggiate, piuttosto che spingere la sua carrozzina, in modo che si stancasse a avesse più fame.
Il suo rapporto con Arthur era piuttosto controverso. Alfred sentiva di doverlo aiutare, in quanto eroe, ma non appena entrava nella sua camera d'albergo veniva colto dall'angoscia più totale. Vedeva il volto apatico di Arthur che guardava fuori dalla finestra, con la speranza che ci fosse il bel tempo per poter uscire a fare una passeggiata, lo vedeva chino nella sua carrozzina a fissarsi le gambe in silenzio, senza degnare lui di un solo sguardo. A volte era più scontroso del solito, e spesso il suo caratteraccio coincideva con qualche temporale, e in quelle ore Alfred poteva sentirlo gemere in silenzio per un dolore che la morfina non riusciva ad alleviare.
«Guarda Alfred, ha smesso di piovere!»
In quelle parole riuscì a cogliere l'atteggiamento di un bambino, e poggiò il piatto sul vassoio per accertarsi che fossero vere.
Arthur si rifiutò di finire il suo pranzo, dicendo che se perdeva tempo a mangiare magari il tempo si sarebbe rovinato di nuovo e la loro passeggiata sarebbe andata a farsi benedire, e promise che avrebbe finito dopo, una volta tornati.

Il cielo era ancora nuvoloso, ma lungo la linea delle colline in lontananza cominciava a schiarirsi. Londra intorno a loro era diventata una città un po' tetra, nonostante fino a pochi anni prima fosse una delle più fiorenti di tutta l'Europa. Entrambi avevano conosciuto la Londra di un tempo, quella organizzata talmente bene da non dover fare mai la fila, in cui le macchine dei ricchi sfilavano ordinatamente tra le strade, la Londra splendente che aveva cominciato ad avere peso dalla rivoluzione industriale e che aveva finito per essere una delle città più importanti del mondo in una delle Nazioni più importanti del mondo. Dall'inizio della guerra Londra era cambiata completamente, e se prima questo cambiamento poteva essere notato soltanto da un occhio esperto e abituato, ora era praticamente impossibile non accorgersene.
Durante il primo anno di guerra Londra era diventata la città in cui cercare fortuna. Le donne migravano dalla campagna assieme ai figli ancora piccoli, perché non aveva più senso mantenere una famiglia con la sola forza della sua terra se i mariti erano a combattere, né loro stesse ne avevano la forza. I poveri avevano cominciato ad ammassarsi agli angoli delle strade e a chiedere l'elemosina in silenzio e in ginocchio, oppure a fare la fila per mangiare patate in umido e il pane mezzo secco delle mense.
Arthur li aveva osservati uno per uno da dentro la sua automobile nuova di zecca, mentre il suo autista lo portava a casa, fino a che un giorno non gli aveva chiesto gentilmente di fare un percorso alternativo, perché gli dava fastidio dover guardare quello spettacolo. Alla fine non gli era più toccato vederlo, perché era partito per combattere, aveva venduto alcuni averi, come gioielli di famiglia e vecchi abiti a prezzi miseri, e aveva usato i soldi guadagnati per pagare il viaggio di sua madre e di suo fratello verso Houston, dicendogli che allontanarsi dall'Europa fosse la soluzione migliore. I tedeschi però cominciarono ad attaccare anche le navi dei civili, oltre a quelle da guerra e ai sommergibili, il caso della nave Louisiana ne fu l'esempio eclatante, e quindi la partenza si ritrovò ad essere annullata. Alla fine anche l'auto venne venduta, e l'autista licenziato, Arthur pensò sempre che quello fu un errore madornale, perché con ogni probabilità ora quell'uomo era a fare la fila alla mensa come tutti gli altri miserabili senza lavoro.
Arthur aveva spiegato a sua madre che a quel punto la soluzione migliore fosse quella di lasciare Londra, perché tutte le industrie e tutti gli aeroporti della Raf erano un bersaglio facile e anche abbastanza ambito dall'aviazione nemica. Comprarono una villa malmessa nello Yorkshire e lei e Peter si trasferirono lì assieme a un paio di servitori che preferivano lavorare gratis piuttosto che restare in quella città infernale. Infatti, così come Arthur aveva previsto, pochi mesi dopo cominciò.
La prima bomba colpì una fabbrica di pentole, che al momento era stata adibita alla costruzione di pezzi di ricambio per aerei e carri armati. Fu distrutta completamente e non ne rimase che un vago ricordo. L'esplosione uccise circa cinquanta dipendenti e ne ferì molti altri, ma fu soltanto un inizio. Gli attacchi si susseguirono per circa un mese e mezzo, fino a fermarsi definitivamente per una settimana. A quel punto, il grosso delle industrie e degli stabilimenti militarsi era stato raso al suolo, e l'Inghilterra poteva considerarsi una Nazione militarmente finita.
Fu il peggio a concedergli di risollevarsi. Quando i bombardamenti su Londra cessarono, la gente cominciò a uscire per strada e a cercare qualcosa da mangiare, perché molti di loro si erano chiusi nelle cantine di corsa, senza immaginare di dover procurare i viveri necessari per poter rimanere lì dentro per così tanto tempo.
Nel frattempo sua madre morì di febbre alta, senza riuscire ad avere cure immediate perché il medico più vicino si trovava a chilometri di distanza, e Peter rimase nello Yorkshire, nonostante avesse pregato Arthur di riportarlo a Londra. In cuor suo, Arthur poteva immaginare cosa potesse provare un bambino completamente solo, ma glielo impedì comunque, convinto che tornare in città sarebbe stato come mettere un piede nella tomba, nonostante la maggior parte della popolazione escludeva l'idea che i tedeschi potessero tornare ad attaccare.
Nessuno infatti immaginò che, durante la notte, la città potesse essere bombardata di nuovo. L'aviazione tedesca lasciò perdere industrie e stabilimenti militari e mirò ai quartieri dei civili. Fu un'azione tanto barbara quanto avventata e sbagliata. Arthur si trovava in Inghilterra in quel periodo, dopo essere tornato vivo da una spedizione in Francia assieme ad un pilota di Parigi che non aveva dove andare e che preferiva morire per difendere la Nazione che più odiava al mondo, che era appunto l'Inghilterra, piuttosto che consegnarsi ai tedeschi ormai insediati nella sua terra.
Si chiamava Francis, e Arthur non parlò mai di lui con Alfred, sebbene Alfred lo avesse sentito nominare ogni tanto.
Lui e Francis, e tutti gli altri piloti rimasti sull'isola, rischiarono la vita andando in contro agli aerei tedeschi. Era il periodo che seguiva l'invenzione del radar, il che permise loro di poter anticipare parecchie mosse e di avere la meglio, perché mentre i tedeschi facevano strage di inglesi, sorprendendoli e distruggendo le loro case e tutti gli altri edifici, gli inglesi rimettevano insieme la Raf e si prepararono al contrattacco. Durante la battaglia d'Inghilterra morirono più civili che soldati, ma contro ogni previsione fu vinta da una Nazione che era stata apparentemente messa in ginocchio.
A quel punto si diffuse anche la voce dell'olocausto, che fino a quel momento era stato solo un eco lontano che non veniva menzionato più per paura che per disinformazione. Arthur ne sentì parlare per la prima volta grazie a Francis, che aveva conosciuto un prigioniero francese che era riuscito ad uscir vivo da un campo di concentramento. Praticamente, gli aveva detto, in Europa gli ebrei venivano stipati in grandi treni merci o in vecchi camion, e più lo spazio non bastava, più i treni e i camion venivano riempiti. Se qualcuno non riusciva ad infilarsi tra la calca e a prepararsi a un viaggio di giorni, veniva fucilato sul momento, perché ai tedeschi non piaceva il disordine. Il pilota francese aveva anche raccontato che loro, prigionieri di guerra delle forze alleate, potevano ritenersi fortunati, perché rispetto agli ebrei era come se vivessero nel lusso. Avevano meno ore di lavori forzati e pasti migliori e più abbondanti, vestiti pesanti per sopportare gli inverni polacchi o austriaci, dipendeva da dove ti portavano. Inoltre i treni di ebrei arrivavano ogni giorno, aveva detto Francis, ma il numero non cambiava mai, quindi i tedeschi dovevano aver escogitato un modo per ammazzarne tanti in una volta sola.
Quando finì di parlargliene, Arthur aveva un colorito giallastro, e giurò a se stesso che si sarebbe sparato in testa prima di assistere a uno spettacolo del genere. Dopo la battaglia tutto cambiò, gli ebrei non furono più una realtà così lontana e si cercò di porre un freno alla follia tedesca.
Dopo la battaglia, Londra era mezza distrutta e irriconoscibile, ma nessuno se ne preoccupò, perché il problema principale fu quello di far cessare la guerra anche in Europa.
Il risultato fu chiaro, il quartiere fantasma che c'era attorno a un ospedale insediato in quella che prima era una grande chiesa, i resti dilaniati degli edifici e le rovine che si stagliavano contro la luce del sole. Nessuno si era preoccupato di ricostruire Londra, in compenso però la Francia era stata liberata. Eppure Arthur non aveva mai più rivisto Francis.

Alfred notò il suo sguardo malinconico e girò la carrozzina, spingendo Arthur verso l'ospedale. Stranamente, lui non protestò. Quel pomeriggio si era completamente rifiutato di muoversi da solo, dicendo di avere le braccia troppo stanche e di volersi godere il paesaggio, per una buona volta, invece di affannare dietro ad Alfred che camminava fischiettando. Ma Alfred sapeva quale fosse il vero motivo, perché ricordava chiaramente i singhiozzi che sentiva attraverso la porta chiusa della camera di Arthur ogni volta che pioveva e che lui si lamentava delle sue ossa che facevano male, come se qualcuno stesse provando a spezzargliele.
«Qualche volta devi spiegarmi tutta questa voglia che hai di uscire», disse Alfred, mentre spingeva la sedia a rotelle attraverso il viale dell'ospedale, «qui in Inghilterra il tempo fa schifo! Non è come in America, lì potresti uscire tutti i giorni, perché piove molto meno.»
Arthur aveva le braccia appoggiate ai braccioli della sedia a rotelle e muoveva la testa da un lato all'altro, guardandosi intorno. La natura gli era piaciuta sin da quando era un bambino, ricordava che nella loro tenuta c'era sempre suo padre che non si faceva problemi a designare come capo temporaneo uno dei mezzadri pur di prendere il suo bambino tra le braccia e mostrargli i nuovi trionfi dell'agricoltura. Arthur a quei tempi era un ragazzino viziato, che non si faceva problemi a storcere il naso davanti ai lavoratori sporchi di terra o a allontanarsi di corsa quando qualcuno entrava in casa loro scalzo perché voleva parlare con il padrone, né aveva mai voluto provare ad aiutare suo padre nel suo lavoro, dicendo che lui non era portato per queste cose, semplicemente perché non aveva voglia di sporcarsi le mani. La stessa storia si era ripetuta di anno in anno, durante ogni singola estate che lui passava a Houston, Arthur aveva sempre denigrato gli uomini chini sui campi e le donne sfiancate dal loro lavoro di tessitura della lana, e invece aveva ammirato suo padre, che lentamente era diventato un padrone sempre più ricco.
Lui morì da solo, in un letto d'ospedale, quando i tedeschi cominciarono ad arrivare in Inghilterra via cielo e a far strage come solo loro erano in grado di fare. Arthur non ebbe nemmeno il tempo di accusarne il colpo perché fu chiamato a combattere. Gli eventi della Seconda Guerra Mondiale sembravano susseguirsi velocemente, e al tempo stesso non passare mai. Arthur ricordava almeno una dozzina di battaglie in cielo nelle quali aveva rischiato la vita e infine l'incidente che lo aveva costretto per terra.
Non era ancora stato dimesso dall'ospedale, perché spesso accusava qualche attacco di depressione che lui stesso si rifiutava di accettare, ma ormai era più che certo che tra circa un mese o poco più gli sarebbe toccato andarsene. Ma dove? Non poteva di certo prendere una nave e andare a Houston da solo, sia perché la tenuta era mezza abbandonata e lui non aveva la forza di rimetterla in piedi, sia perché si rifiutava categoricamente di dover dipendere da qualcuno. Spesso, durante le sue veglie notturne, si era ritrovato a pensare che forse l'unica soluzione era veramente quella di partire con Alfred e di accettare il suo destino o, come aveva pensato un paio d'anni prima, quella di sparsi un colpo alla testa. La seconda opzione sarebbe stata fattibile se solo Arthur non fosse stato controllato ventiquattr'ore su ventiquattro... E se solo avesse avuto una pistola, giustamente. Quindi si ritrovò a scartarla e a riflettere sulla prima.
In fondo Alfred gli proponeva di partire ogni giorno e sembrava parecchio entusiasta all'idea di tenerlo con sé, anche se Arthur non aveva mai dimostrato di voler andare con lui.
«L'Inghilterra non fa schifo», disse all'improvviso, rompendo il silenzio che si era creato tra loro, «E in America ci sono stato, ho una bella tenuta in Texas.»
«Veramente?!», domandò Alfred dietro di lui, «E perché non me lo hai detto prima?!»
Arthur si limitò a scrollare le spalle e non rispose.
«Potresti andare a vivere lì, sai? E io potrei aiutarti, sono sicuro che con un eroe come me al tuo fianco non avrai nessun problema! Posso portarti fuori ogni volta che vuoi, senza che il cattivo tempo ce lo impedisca, e posso darti una mano in tutto, come faccio qui!»
Non aveva mai pensato a quell'opzione, quella di portare Alfred con sé, come una specie di cane, di grosso e rumoroso cane da guardia, invece che partire con lui. L'idea non era poi così male, in fondo lui avrebbe ospitato Alfred in una villa magnifica e Alfred avrebbe ricambiato il favore accudendolo.
Arthur rimase ancora il silenzio, godendosi i pochi raggi dell'ultimo sole di Ottobre sulla pelle.















Lo spunto iniziale per questa FanFiction è ripreso dal libro “Il diario di mia madre” di Penny Jordan. La trama d'ora in poi però si differenzierà molto, anche perché la storia non mi era piaciuta moltissimo (^^;;;) e perché comunque mi sono resa conto che il ruolo dei due protagonisti somigliasse a quelli della Jordan solo dopo aver scritto. D:
Anyway, ho da preparare già un appello di anatomia umana (io che volevo fare lettere classiche), se mi volete bene recensite e auguratemi in bocca al lupo. Ewe
Alla prossima <3

   
 
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