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Autore: ranyare    25/10/2010    9 recensioni
Capitano giorni, a volte, che ti cambiano la vita.
Sono giorni strani, sono ore in cui non ti rendi davvero conto che qualcosa, intorno a te, è cambiato.
A me è successo: e non è stato un cambiamento piccolo, insignificante, tranquillo.
È stato un uragano, che è entrato nella mia vita e ha mandato tutto all’aria.
E si è anche divertita.

Ben Barnes ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: talento, soldi, fama, una bella famiglia, un'automobile di cui essere fiero, pochi amici ma che valgono più di chiunque altro, un sorriso in grado di far girare la testa a chiunque lui desideri e una faccia di bronzo a cui nessuno riesce mai a dire di no.
O quasi.
Fra riff di chitarra, figuracce colossali e anfibi volanti il nostro britannico eroe imparerà che è proprio la tempesta, quella che spazza via ogni certezza, che manca alla sua vita.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Wicked & Humorous Tales'
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Seize The Day

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Seize The Day - Avenged Sevenfold

Capitano giorni, a volte, che ti cambiano la vita.

Sono giorni strani, sono ore in cui non ti rendi davvero conto che qualcosa, intorno a te, è cambiato.

A me è successo: e non è stato un cambiamento piccolo, insignificante, tranquillo.

È stato un uragano, che è entrato nella mia vita e ha mandato tutto all’aria.

E si è anche divertita.

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Me lo ricordo bene, quel locale.

Non troppa gente, musica eccellente e luci al neon: mi aveva stupito la scelta di Will, solitamente incline ai bagordi e alle feste sfrenate in discoteche rumorose e ammassate di gente ubriaca e disordinata. Dopo quattro mesi dall’ultima volta che ci eravamo visti mi sarei aspettato che mi trascinasse proprio ad uno dei suoi festini – non che mi dispiacesse l’idea ma, dopo dieci ore di volo, mi sentivo abbastanza esausto e di certo per nulla incline ad unirmi a quel biondo dissoluto per una notte brava di cui, probabilmente, avrei finito per ricordare poco o nulla.

Guardandomi intorno, appena entrato, non trovai William: la cosa non mi sorprese, dopotutto, perché uno dei dettagli caratteristici di Will è sempre stato quello di essere perennemente in ritardo. Decisi di sedermi e, per ammazzare il tempo, di ordinare qualcosa da bere ad una delle belle ragazze che lavoravano al bancone.

Quel posto era pieno, pieno zeppo di bellezze esotiche, rare, eleganti e raffinate come odalische.

Avevo scorto due giovani che quasi sicuramente erano brasiliane, un’altra che chiaramente proveniva dal Mediterraneo; una bellissima gitana dagli occhi verdi, tre splendide ragazze orientali.

I gusti di Will erano solo che migliorati, bisognava dirlo.

Poi, però, una di loro mi passò accanto.

Me la ricordo bene, con i tacchi vertiginosi che indossava era alta più o meno quanto me; i capelli erano di un biondo scuro, la carnagione pallida resa ancora più terrea dalle luci al neon, i tratti del volto stranamente taglienti. Pensai fosse londinese, ma la pronuncia delle parole che rivolse alla barista fu ben diversa da quella che mi aspettavo: chiese un Brave Bull alla barista con uno spiccato accento americano che m’incuriosì più di tutto il resto.

Indossava un abito rosso che le lasciava scoperta la schiena fin sotto le scapole, e rosso era anche il fermaglio che le tratteneva i corti capelli riccioluti sulla nuca: non era niente di particolare... era carina, sì, ma io ero abituato a frequentare le donne più belle del jetset e, di certo, non fu il suo aspetto ad impressionarmi.

Non so perché mi spinsi fino a quel bancone: forse per la mia solita curiosità, forse per capire meglio quell'andatura spedita e tutt'altro che femminile, forse per un istinto inconscio che non riuscii in nessun modo a reprimere.

Mi accostai a lei, dipingendomi in faccia quel sorriso accattivante e misterioso che già tante donne avevano dimostrato di apprezzare.

Dopotutto, sono Ben Barnes. Il mio fascino è appurato e confermato.

-Ehi, bella, io sono Ben, tu sei…?-

Uno sguardo di sufficienza, due occhi blu tutt'altro che amichevoli.

-Fuori dalla tua portata, tesoro.-

Ci rimasi male. Quanto, quanto ci rimasi male lo so soltanto io.

Aveva una voce secca, dura, e l’accento metallico risuonava come una lama fra le sillabe; ma fu la sua occhiataccia a lasciarmi di stucco, folgorato come nel più insipido dei romanzetti rosa da qualcosa che non seppi identificare.

C’era da perdersi in quei due baratri. C’era da affogarci e non riemergerne mai più.

-Ray! Ma ti pare il modo di rivolgerti ad un cliente?- la barista, dietro al bancone, si rivolse alla bionda e la guardò con aria severa. Io, invece, continuai a guardarla, boccheggiando, con un misto di sorpresa, orgoglio maschile irreversibilmente ferito e curiosità.

Ad un’occhiata distratta chiunque l’avrebbe scambiata per una qualunque, per una ragazza dal viso pulito e, probabilmente, senza trucco non avebbe dimostrato più di diciott'anni. Eppure…eppure c’era un gelo tale, in quelle iridi, da restarci di sasso.

In molti si sarebbero spaventati dinanzi ad una donna del genere, perché la maggior parte degli uomini tende a preferire una compagnia più facile, meno mordace; io, invece, da compulsivo amante della competizione, decisi all'istante che quella sarebbe stata la mia prossima sfida.

-Non è un cliente. È un amico di Will.-

Ray.

Mi ricordava qualcosa, quel nome, ma non riuscivo a rammentare chi lo avesse pronunciato: ero troppo impegnato a macerarmi nel mio orgoglio annichilito per accorgermi subito dell’allusione al mio amico.

-Come ti pare.- soltanto quando la barista si allontanò, altezzosa, collegai le due cose.

-Tu conosci__- cominciai ma, prima di riuscire a finire la mia domanda, ecco arrivare la conferma in carne e ossa della mia domanda.

-Ben!- mi voltai di scatto e così fece anche la bionda: là, sulla soglia del locale, c’era il mio migliore amico, altrimenti conosciuto come William Peter Moseley.

Sorrisi, nel rivederlo. Non glielo avrei confessato nemmeno sotto tortura, ma… mi era mancato, durante gli ultimi mesi. Will è una presenza che difficilmente non manca una volta entrato a far parte della tua vita.

Mi sorrise a sua volta, allegro come sempre: aveva i capelli biondi più lunghi di come li rammentavo, l’immancabile borsalino calato sul capo ed in faccia l'immancabile espressione solare che lo avrebbe reso caro a chiunque.

Ray, accanto a me, si alzò in piedi: gli occhi freddi e cupi si erano spostati sulla figura del mio amico ed un lampo di calore – e un sorriso lieve, su quelle labbra – li aveva illuminati per un istante.

E fu proprio a lei che Will si rivolse, non appena avvicinatosi e rivolto un saluto allegro anche alla barista che, da quanto potevo capire, conosceva.

-Ray, non trovavo da parcheggiare, mi dispiace.- esordì, mentre gli occhi celesti si spostavano sulla ragazza, dolci e amichevoli come non mai. Ecco svelato il mistero: grazie a lui Ray mi conosceva già, e io avevo appena fatto una delle più colossali figuracce nella storia degli abbordaggi.

Lei annuì, rivolgendogli soltanto un fugace sguardo molto diverso dalla stoccata terribile che era toccata al sottoscritto.

-Toglimi una curiosità, i tuoi amici sono tutti imbecilli come il principino, qui?- appunto. Ecco come smontare definitivamente il sottoscritto in due semplici, crudeli proposizioni.

Will mi rivolse un’occhiata stupita mentre il suo sguardo si riempiva di una luce che ben conoscevo e, altrettanto bene, temevo: lo vidi diventare tutto rosso in risposta alla mia occhiataccia, che gli intimava silenziosamente di non sfottere oh, prima o poi lo avrei strangolato. Poco ma sicuro.

-Vedo che avete già fatto conoscenza.- commentò, evitando di scoppiare a ridere ma aprendosi in un ghigno soddisfatto che mi sembrò più canzonatorio di molto altro. -Ben, lei è Ray, la mia coinquilina e migliore amica. Te ne ho parlato.-

Sì, me ne aveva parlato quattro mesi prima, appena tornato da un viaggio negli Stati Uniti passato con Angel. Ne ero stato felice, ma l’esistenza di questa misteriosa ragazza che si era portato dietro dall’America era, sinceramente, scivolata in fondo alla mia lista di pensieri.

Will aveva Angel al suo fianco, si erano conosciuti sul set di Narnia e lei ancora non lo aveva mandato a quel paese (era qualcosa che aveva dello straordinario, considerato il fatto che Angel è una donna intelligente e Will un coglione patentato).

Tornato a Londra con lei, dove Angel viveva con la sua famiglia e frequentava il primo anno del college, Will l’aveva trascinata in un viaggio negli USA, dov’era stato prima di Prince Caspian, ed erano tornati con una persona che era diventata la coinquilina di William: Ray.

L’avevo immaginata come una ragazza allegra, leggera, incline allo stile di vita dissoluto delle ragazze americane… ma mi dovetti ricredere quella sera stessa, dopo essermi ritrovato davanti quei due occhi di ghiaccio.

-Sì…beh, piacere.- era alquanto inutile cercare di rimediare alla figuraccia appena fatta, vero?

...sì, decisamente: lo sguardo di sufficienza che Ray mi rivolse bastò a confermare questa mia ipotesi.

-Tutto tuo.- mormorò infatti, atona, recuperando una borsetta appena più scura del vestito che indossava e sfilandone una sigaretta che, con un gesto secco, accese e si portò alle labbra sottili. Non aveva le unghie lunghe, smaltate o curate, anzi: erano corte e appena rovinate, così come la pelle delle sue mani che, nonostante avessero una bella forma, erano segnate da diverse piccole cicatrici che non riuscii, lì per lì, a spiegarmi.

C’era qualcosa che non quadrava, in quella ragazza.

-Ray!- una voce fece sussultare tutti e tre, interrompendo i discorsi e le mie elucubrazioni – e, avendo gli occhi fissi su Ray, la vidi incupirsi ed impallidire appena, scambiare un’occhiata scura con un William improvvisamente irato.

-Sì, Jòs?-

Non mi sfuggì la nota stanca della sua voce quando, stancamente, si voltò per fronteggiare il nuovo venuto, accavallando le gambe velate dai collant.

-È arrivato Carter, sai che la tua graziosa compagnia è il motivo per cui viene qui due volte a settimana.-

L’uomo che aveva appena parlato era inequivocabilmente omosessuale, ben vestito e irritante. Vidi Ray serrare le mani chiare sul bordo del vestito, mentre un’angoscia ben vestita si disegnava in quei terribilmente espressivi occhi blu.

-Cerca sempre di allungare le mani, Jòs.- mormorò, con una voce molto più mite di quanto fosse stata quella rivolta a me. Mi voltai verso Will e lo vidi scuotere appena la testa, con gli occhi inchiodati con astio su quel Jòs.

Non mi piacque l’espressione di Will. Non mi piacque il disagio e l’angoscia di Ray.

-E lasciagliele allungare, purché ti paghi.-

Bastò quella frase per farmi capire.

Che Ray lavorasse in quel luogo lo avevo capito anche da solo ma, occupato com’ero a studiare quella ragazza, non avevo compreso di che genere di lavoro si trattasse esattamente: le ragazze in quel luogo erano accompagnatrici, intrattenitrici alcune servivano al banco, altre servivano ai tavoli, ma la maggior parte era seduta in compagnia dei clienti, con una lascivia che pareva anche troppo disponibile.

-Lei non sta qui per fare la puttana, Jòs.- fu Will, con una veemenza che mi sorprese, ad intervenire, mettendosi letteralmente in mezzo fra questo Jòs e Ray.

-Tu non dovresti nemmeno stare qui, Moseley.- ribatté il tizio, scoccandogli un’occhiataccia sotto i miei occhi allibiti. Tutta quella situazione aveva del surreale…

Vidi il mio amico in procinto di ribattere ma fu Ray ad alzarsi, a posare una mano sul suo braccio. Improvvisamente quel vestito rosso non mi sembrava più tanto sensuale, quei tacchi alti non mi parevano più tanto eleganti: mi davano l’idea di una gabbia la stessa gabbia che scorgevo negli occhi stanchi di Ray.

E fu improvvisa la mazzata di dispiacere che mi colpì in quell’istante.

Non era piacevole vedere una così bella creatura, con tanto negli occhi, in trappola. Non era giusto, non mi andava giù, non era qualcosa che avrei accettato. Will avrebbe sicuramente riso nel sapere quello che mi stava passando per la testa: "Hai sempre la mania di fare l’eroe" era uno dei suoi commenti più frequenti nei riguardi del sottoscritto.

Fu per questo che mi schiarii sonoramente la voce, attirando su di me l’attenzione di tutti e tre: di Will, di quel tale Jòs… e di Ray, che mi guardava con qualcosa di finalmente diverso dall’indifferenza.

-Posso parlarle in privato, mister?- se c’è una cosa di cui vado fiero, in me stesso, è la mia faccia tosta inglese. Soltanto noi siamo in grado di mostrare quella faccia di bronzo particolare, accattivante, che raramente ottiene un no in risposta.

-Ma certo.- mi rispose l’ometto, forse riconoscendomi, intuendo dalla mia occhiata che avevo in mente qualcosa che gli sarebbe quasi certamente andato a genio.

Fu una soddisfazione, dopotutto, allontanarmi da Ray e da Will con la consapevolezza dello sguardo incuriosito e cupo di quella ragazza inchiodato sulla mia schiena... anzi, a dirla tutta, fu un balsamo per quel mio amor proprio che proprio lei aveva appena maciullato.

Seguii quel Jòs fino al bancone più lontano, accorgendomi di quanto il suo passo affrettato riflettesse esattamente il suo aspetto viscido e lezioso.

-Allora mister, cosa…- iniziò, ma lo interruppi in un modo che quasi tutti riescono a comprendere immediatamente: sotto al suo naso tozzo sventolavano improvvisamente due biglietti da cento sterline, trattenuti dalle mie dita sottili.

-Quella ragazza starà con me, stasera.- affermai, deciso, con la voce suadente di chi vuole convincere qualcuno a fare ciò che desidera. E sorrisi appena, soddisfatto, quando vidi Jòs seguire come ipnotizzato il movimento lieve delle banconote.

-Non c’è problema, mister.- mi rispose, trasognato, e non potei fare a meno di disgustarmi per quell’atteggiamento viscido e amorale che chissà come mai aveva quel potere su Ray.

-E nessun altro.- gli ricordai, alzando un sopracciglio.

-Assolutamente nessuno.- che schifo.

Gli lasciai i soldi e mi allontanai in fretta: ho sempre odiato le persone come quel Jòs e sapere che un’amica di Will, una ragazza giovane e carina e probabilmente intelligente, era costretta a sottostarvi… beh, era orribile.

Tornai da lei e da Will con un sogghigno soddisfatto che il mio amico conosceva decisamente bene Ray invece non aveva ancora imparato a capire quanto io non fossi lo squinternato maniaco che dovevo esserle sembrato all'inizio: mi guardava, spaesata, senza comprendere che cosa avessi appena fatto.

-Che cosa…- cominciò infatti, confusa, mordendosi le labbra e arrotolandosi nervosamente una ciocca di capelli fra le dita.

Scossi appena la mano, stringendomi nelle spalle con fare noncurante.

-Non andarci, da quel tipo. Stasera avrai l’onore di passare tutto il tempo col sottoscritto, e spero non ti dispiaccia troppo.-

Giuro. Prima di lei non mi sono mai comportato così. Non sono mai stato il tipo arrogante e saccente che probabilmente sembravo in quel momento.

Probabilmente anche Ray lo capì, perché vidi un accenno di sorriso apparire sulle sue labbra e il suo sguardo rischiararsi, sollevato.

-Quasi quasi avrei preferito Carter.- replicò, ma non c'era il minimo segno di sarcasmo nella sua voce e, per la prima volta, mi rivolse un'espressione gentile e radiosa che mi lasciò (di nuovo) senza parole.

È bella Ray, sono belli i suoi occhi, ed era bello quel sorriso che leggevo in quel celeste rischiaratosi come il cielo dopo un temporale.

Rimanemmo a guardarci per dei lunghi istanti che penso non dimenticherò mai, studiandoci a vicenda come due gatti curiosi e diffidenti al tempo stesso: Ray era cauta, cauta come se fosse sempre sul filo di un rasoio... ma c’era una curiosità troppo forte nei suoi occhi, una curiosità tutta per me, che la spingeva a sostenere il mio sguardo e a non lasciare che quel contatto si spezzasse.

E realizzai solo in quell’istante che non volevo si spezzasse.

Ray aveva destato la mia, di attenzione: volevo assolutamente avvicinarmi a lei, conoscerla meglio, capirla, perché fino a quel momento avevo solamente fatto supposizioni sbagliate e io odio, detesto sbagliare.

-Bene… vedo che sono di troppo, quindi me ne vado!-

Ray si voltò di scatto, arrossendo furiosamente.

-Scusa, e io come torno a casa?- gli chiese, allibita.

Will, che conosceva bene me e probabilmente anche lei, si esibì in uno dei suoi migliori sorrisi smaglianti, accennando a me.

-Ti accompagnerà il prode cavaliere, qui. Io ho appuntamento con Angie.-

Ora che ci penso, se non fosse stato per Will probabilmente tutto quello che è successo con Ray non sarebbe mai avvenuto. Mi tocca anche ringraziarlo, accidenti.

-Ma dillo prima!- sbottò Ray, avvampando ancor di più e fulminandolo con lo sguardo.

-Sono sicuro che ti troverai benissimo comunque. Ben è un galantuomo, non è vero?- si rivolse a me, e quelle ultime tre parole mi colpirono proprio per la serietà che riuscii ad udire al di là della sua perenne ironia.

-Verissimo.- annuii, rivolgendogli appena un cenno d’assenso che comprese immediatamente: fra me e lui, come penso sia anche fra molti amici uomini, non servivano troppe parole per capire i sottintesi ed i significati delle nostre azioni. Will voleva solo essere sicuro che la sua amica fosse al sicuro, dopotutto...

-Se avete finito con i vostri scambi di virilità vorrei ricordarvi che io ho tirato di spada per lavoro e che sono cresciuta in una periferia texana piena di delinquenti, quindi direi di sapermi difendere benissimo da sola senza che voi due dobbiate farmi la pipì addosso per marcare il territorio.-

Non potei far altro che rimanere a bocca aperta, sconvolto e pieno d'ammirazione per quella sortita del tutto inattesa: ora che potevo scorgere il suo retaggio americano!

Will, sicuramente più abituato di me a quelle uscite brusche ed un po' scurrili, scoppiò a ridere, avvicinandosi a lei e soffiandole un bacio sulla fronte.

-Lo dimentico sempre.- le disse, con una dolcezza nella voce che intenerì anche me. Li vidi sussurrarsi qualcosa e, per la prima volta, mi resi conto di quanto bene dovessero volersi: avevo visto William comportarsi così soltanto con una persona, e quella persona era Georgie. -Ben, trattamela bene.- mi avvertì, con un sorriso minaccioso, dandomi una pacca sulla spalla mentre passava accanto a me, diretto all'uscita.

Ma dico io. Ora facevo anche la figura del maniaco sessuale.

Sospirai, esasperato dall’atteggiamento iperprotettivo di William ma senza davvero nessun buon motivo per prendermela: era sempre stato così con le persone a cui teneva sul serio, lo sapevo bene e, proprio per questo, avrei fatto in modo che Ray passasse una serata piacevole e al sicuro dalle insidie che quel luogo poteva nascondere.

Tornai a guardarla e, istintivamente, sorrisi: sarebbe stata una serata decisamente interessante.

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§

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La stavo aspettando fuori dal camerino dove le ragazze si cambiavano, osservando i tecnici e i barmen che spegnevano le luci, che riordinavano e rassettavano la sala. Io sorridevo, divertito, senza riuscire a smettere di pensare a quelle due piacevolissime e sorprendenti ore appena passate insieme a Ray.

Si era dimostrata una compagnia formidabile, una volta convinta a parlare. Quella ragazza era americana di nome e di fatto e, discorrendo con lei degli argomenti più disparati – aveva dimostrato di possedere, oltre ad un turpiloquio sorprendentemente colorito e fantasioso, anche una conoscenza profonda ed appassionata della letteratura, della cinematografia e della musica – avevo compreso di avere davanti una persona che amava la conoscenza almeno quanto me.

Avrei imparato presto a trovare anche la dolcezza, la tenerezza ed il suo essere donna in quel modo tanto puro e selvaggio, in quell'americana dagli occhi vividi; ma, in quelle ore, le caratteristiche che mi avevano colpito di lei erano state la sua arguzia, il suo cinismo ed il sottile, tagliente sarcasmo con cui quella giovane donna pareva affrontare il mondo.

Ray non era una persona felice: lo si capiva dal suo volto prematuramente levigato, dagli occhi che guardavano il mondo attraverso un velo di cupezza e di sfiducia.

Ed aveva soltanto diciott’anni.

Era stato questo a sconvolgermi, più di tutto il resto.

Aveva dieci anni meno di me… ma, da come parlava, dal suo atteggiamento, dalla freddezza con cui trattava la vita, gliene avrei dati molti di più.

-Andiamo?-

Sobbalzai quando, alle mie spalle, risuonò la sua voce, strappandomi dalle mie elucubrazioni. Non l’avevo sentita arrivare: i suoi piedi non avevano provocato il minimo suono sul pavimento, al contrario di quanto succedeva, inevitabilmente, quando indossava i tacchi. Mi voltai per salutarla ma, e detesto ammetterlo, per la terza volta in quella serata riuscì a lasciarmi completamente a bocca asciutta.

La ragazza infelice e costretta in una gabbia? Scomparsa.

Indossava un abitino nero, adesso, aderente alle sue forme ben proporzionate, con le maniche lunghe che terminavano in uno sbuffo, un paio di fuseaux chiari ed una coppia di anfibi dall'aspetto estremamente pesante e minaccioso.

Quella non era la giovane donna infelice con cui avevo passato la serata, no: quella era la spigliata americana appassionata di rock'n'roll che si era animata tantissimo a raccontarmi di come avesse sempre voluto imparare a suonare la batteria come Jimmy Sullivan e che mi aveva spiegato pazientemente i fondamenti delle religioni pagane precristiane.

-Ehi?- mi chiamò, incuriosita dalla mia espressione  ed in effetti dovevo essere alquanto buffo mentre la fissavo, stralunato, con occhi sgranati e la bocca lievemente schiusa.

-Sei… stai molto bene.- balbettai, cercando di ritrovare un minimo di decoro in quella situazione quantomai imbarazzante.

Il rossore dilagò nuovamente sulle sue guance e lei distolse lo sguardo, torcendosi contemporaneamente le mani.

-Sono vestiti normalissimi.- mormorò, in un tono di falsa freddezza che non mi convinse minimamente. Mi superò in fretta, ed io la seguii fino al parcheggio, senza davvero riuscire a distogliere lo sguardo dai riccioli biondi che spiccavano contro il nero dell’abito – e da quando, di una donna, notavo il modo in cui i capelli si sposavano tanto bene con il colore dei suoi vestiti?

-Qual è la tua macchina?- mi chiese, tradendo un nervosismo nella voce che mi sorprese: non ero l’unico a sentirsi sul filo del rasoio, allora…

-Quella.- le dissi, indicando il mio personalissimo orgoglio parcheggiato a pochi metri dall’entrata.

-Cazzo!- mi voltai a guardarla, sorpreso. Ray si era fermata lì dov’era, con in volto l’espressione allibita che, per un solo attimo, mi ricordò la mia nel vederla dopo essersi cambiata. -Cioè, quella è vera?-

Sorrisi, divertito.-Fino a prova contraria…- commentai, affiancandomi a lei e posando una mano sulla sua schiena. Era troppo occupata a rimirare la mia macchina, un piccolo sfizio che mi ero tolto con i primi guadagni seri, per tranciarmi di netto quella mano troppo audace.

-No, vuoi dirmi che tu davvero ti sei comprato una Mercedes SLK 350?- mi chiese, sempre più ammirata, alzando lo sguardo vivido su di me.

-Ti piacciono le auto?- le chiesi, compiaciuto. La ragazza che avevo visto in quel locale non era niente in confronto alla giovane donna che adesso avevo al fianco e non avevo dubbi su quale fosse la più vera, e su quale preferissi io.

La donna in tacchi alti dopo un po’ stanca, ne so qualcosa. Tamsin era proprio così: la nostra brevissima storia finì dopo non più di un paio di mesi, quando mi resi conto che non era una modella dallo sguardo vuoto ciò che cercavo.

La donna in anfibi, invece, quella donna in anfibi… beh, nascondeva tante di quelle sorprese da riuscire a non stancarmi mai.

-Preferisco le moto. 136 cavalli?- mi chiese con la voce che tremava appena, avvicinandosi con un timore quasi reverenziale alla Mercedes.

-Esatto.- risposi, e non riuscii ad evitarmi un sorrisetto. Ero particolarmente orgoglioso di quell’auto, sì.

-È un mostro.- commentò, sfiorando con devozione la carrozzeria nera e lucida del tettuccio.

Sorrisi di nuovo, sornione, accostandomi allo sportello del passeggero con tutta la galanteria di cui ero capace.

Ero un coglione? Ero un coglione.

Per fortuna, e lo ripeto PER FORTUNA, non c’era Will a prendermi per il culo.

-Prego.- le feci, e fu l’ennesima soddisfazione vederla sgranare gli occhi e diventare scarlatta per l'ennesima volta, presa in contropiede.

C’era un piacere, nel sorprenderla, che presto avrei capito essere terribilmente seducente.

-Grazie.- mormorò mentre saliva in macchina, torcendosi le mani gelide. La raggiunsi dopo pochi istanti, facendo il giro dell’auto e salendo alla sua destra, al posto del guidatore. -Anche di stasera. E scusa per la rispostaccia, non sono mai di buonumore in quel posto…- mormorò lei dopo un istante, talmente piano che quasi non riuscii ad udirla oltre il rombo del motore appena acceso.

Le sorrisi, stavolta con dolcezza.

-Non è il primo due di picche che prendo e non sarà nemmeno l’ultimo.- la rassicurai, in un tono molto più adulto di quanto non fosse mai stato in quelle ore. Improvvisamente Ray mi pareva piccola e fragile, con gli occhi chiari che si spostavano sul finestrino, di nuovo cupi, di nuovo lontani.

-Non ci credo.- mormorò, con voce assente e lievemente malinconica, guardando le goccioline di pioggia che cominciavano ad imperlare i vetri.

-Oh, invece sì.- risposi; una risposta inutile, perché dopo un attimo il silenzio calò nell’abitacolo della mia auto, ma l’attenzione alla guida non mi distolse dal suo volto repentinamente distante, freddo.

Ricordava.

Ricordava e soffriva.

C’era qualcosa in lei, qualcosa di grande e doloroso, che la divideva dal resto del mondo come una fredda barriera di ghiaccio inspessita dal dolore: una barriera che mi spaventava, una barriera che avrei tanto voluto abbattere.

-Perché lavori in quel posto, Ray?- le chiesi, di getto, senza nemmeno rendermene conto. La vidi sussultare, ma non si voltò a guardarmi; abbassò lo sguardo, con vergogna, continuando a torturarsi le lunghe dita sul grembo.

-Perché…- esitò, su quella risposta, prima di scuotere la testa. -Beh, è una storia lunga.- mi liquidò e frettolosamente recuperò il suo telefonino, spingendo qualche tasto e facendo partire una canzone, probabilmente per distrarmi da quella domanda, o per dimenticare lei stessa.

Seize the day, or die regretting the time you lost, it’s empty and cold without you here, too many people to ache over

La sentii sussurrare le parole di quella canzone che conoscevo solo di vista, di un gruppo metal parecchio famoso negli Stati Uniti.

C’era una malinconia, in quella voce e in quella canzone, che mi strinse il cuore.

-Canti bene.- mormorai, mentre le note di quella melodia struggente di chitarra elettrica e di batteria riempiva l’abitacolo, mischiandosi al ticchettio della pioggia sull’auto. Le luci della notte parevano sbiadite, al di là dei finestrini; tutto pareva sfocato, tranne Ray.

-Ho smesso molto tempo fa… come ho smesso di recitare.- mi voltai a guardarla, sorpreso. Qualcosa in lei mi aveva suggerito che fosse un’attrice: il modo di porsi, di atteggiarsi, l’espressività del suo volto e dei suoi occhi… ma non stava recitando adesso, lo sapevo bene. Sono un attore anch’io, e so riconoscere le emozioni reali nello sguardo di una persona.

-Recitavi?- le chiesi, con dolcezza, sfiorandole appena la mano bianca con la mia. Era così fredda… provai per un istante il desiderio di riscaldarla, di portar via quel gelo dalla sua pelle.

-In teatro.- mi rispose, e la sentii rabbrividire sotto il mio tocco accennato.

Parcheggiai l’auto sotto casa di Will pochi minuti dopo, ma Ray non parve aver intenzione di scendere né io di volere che lei se ne andasse: la sua pelle gelida era così soffice, così bianca, che mi persi in quel tocco che improvvisamente pareva molto più intimo di qualunque altro.

La canzone finì dopo qualche attimo, lasciando di nuovo il silenzio, fra noi: un silenzio diverso dagli altri, un silenzio elettrico che pareva scintillare pericolosamente fra lei e me.

Toccarla era stato un errore… Ray bruciava come il ghiaccio, e quel gelo mi avrebbe trascinato fino a limiti che forse non avrei dovuto infrangere.

Accarezzai con dolcezza le linee sottili del suo palmo, seguendo con gli occhi il reticolo bluastro delle vene che si annodavano sul polso.

-Sei così bianca…- mormorai, e nemmeno mi accorsi di essermi impercettibilmente avvicinato a lei – oppure era lei ad essersi accostata a me?

Alzai gli occhi, trovando il suo viso candido terribilmente vicino a me, quei due pozzi di tempesta a poche manciate di centimetri dai miei.

Mi stava guardando, Ray, mi stava osservando con uno sguardo tagliente ed impaurito che avrebbe intimorito chiunque. Pareva lo sguardo di un felino in gabbia, maltrattato a sangue più e più volte, che temeva chiunque si avvicinasse per paura di soffrire ancora – pareva un gatto, quella bambola di porcellana.

Avrei passato secoli a guardarla, cercando di carpire ogni pagliuzza che imperversava nelle sue iridi: c’era l’orgoglio di non voler abbassare lo sguardo, c’era un terrore che aumentava ad ogni centimetro che spariva fra il suo volto ed il mio, c’era una luce ben diversa che mi attirava come una musica sensuale attira un serpente.

C’era tutto, in quei due sprazzi d’oceano.

E volevo esserci anch’io.

La guardai socchiudere gli occhi quando mi accostai a lei, e mi inebriai della sensazione incredibile che mi trasmise il tocco del suo respiro sulla bocca.

Non ebbi fretta nello sfiorare quelle labbra carnose che parevano aspettare soltanto me. Le toccai appena, con solo un lieve accenno di bacio, imponendomi tutta la calma che possedevo per non esagerare... ma il desiderio di scoprire se anche la sua bocca fosse tanto gelida imperversava dentro di me, togliendomi il fiato.

Mi allontanai quasi immediatamente, sconvolto dalla sensazione bruciante che mi avevano impresso le sue labbra nella carne, ma il richiamo di quel bacio agognato fu più forte del buonsenso.

Ray inclinò il volto quando mi accostai di nuovo alla sua bocca, cancellando gli ultimi sospiri che dividevano le sue labbra dalle mie.

Non credo che dimenticherò mai quel nostro primo, vero bacio.

Trovai la sua lingua e la coinvolsi senza fretta, senza travolgerla, lasciando che le nostre bocche trovassero il ritmo giusto per allacciarsi ed esplorarsi a vicenda. Lasciai scivolare le dita fra quei riccioli, incredibilmente morbidi, ma ero troppo concentrato su quel bacio per accorgermene, per accorgermi persino del battito forsennato del mio cuore e del suo.

Era buona, Ray. Pareva dare dipendenza perché sentivo di non riuscire a stancarmene, di desiderarne sempre di più.

Lei rispondeva con lo stesso trasporto che sentivo ardere dentro di me, facendosi inseguire e cercandomi subito dopo. Appoggiò le mani gelide sulla mia gola  e quel contatto mi diede alla testa, più di quanto fosse lecito.

Andava tutto bene.

Andava.

Improvvisamente, però... la sentii sussultare, e in un istante scostarsi, bruscamente, da me.

-Io… io vado. Will sarà già a casa.- si voltò, senza guardarmi, ma riuscii ad intravedere le guance rosse e gli occhi che brillavano come stelle nel buio mentre recuperava la borsa di pelle dai suoi piedi.

Non riuscii a dire nulla, in quell’istante: quelle labbra, quel sapore… scosso, turbato, stravolto, non riuscii a fare altro che mormorare un flebile “okay” e guardarla scivolare fuori dalla mia auto, delicata come un gatto.

Era bella, maledizione. Era intelligente, era misteriosa, aveva un profumo così buono… e quel sorriso meraviglioso, che speravo di poter rivedere.

E quegli occhi. Quegli occhi.

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My Space:

Allora, eccomi qua.

Sì, sono pazza, ho iniziato un'altra fanfiction; ma c'è un motivo preciso se ho preso l'impegno di scriverla (sarà due o tre capitoli, non di più ^.^), ed è...

Per ringraziarvi.

Per ringraziarvi tutti quanti, dal primo all'ultimo delle centouno persone che mi hanno inserita fra gli autori preferiti.

Mi ero ripromessa di scrivere qualcosa in vostro onore, quindi eccomi qui. Questa è tutta per voi, tutta per le centouno anime che mi seguono da ormai quasi tre anni.

Ecco, questa fanfiction che roba è?

E' il "come è iniziato" fra la mia Ray e Ben; è un pò un misto di tanti generi diversi, c'è la mia vena comica, c'è una parte di tristezza, c'è amore. C'è tutto, ogni sfaccettatura di me.

Ve la meritate.

Love you all, B.

   
 
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