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Autore: miseichan    27/10/2010    3 recensioni
Prima classificata al contest "Chi fermerà la musica?" indetto da Pocahontas@Effie
Forse solo con il silenzio si riesce davvero a pensare. Forse è grazie al buio, all'apparente tranquillità, che i pensieri ti assalgono... ti colpiscono, che tu lo voglia o meno. Danilo però, non avrebbe mai immaginato che sarebbe stata una cella il posto migliore per dirle finalmente addio.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Lacrime di cristallo'
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Goodbye my lover

 

Did I disappoint you or let you down?
Should I be feeling guilty or let the judges frown?

 

- Sbattilo dentro, Andrea -

Socchiusi gli occhi, infastidito da quella voce che mi trapanava le orecchie.

Glielo avevo detto che non doveva urlare!

Sentii che mi spingeva, così come confusamente mi sentii afferrare da altre due mani che, prepotenti, mi incitavano a camminare. La vista appannata, non riuscivo a delineare con certezza quasi niente di quello che mi circondava. Fu con incertezza che lasciai la presa che avevo sul muro: sarei rimasto in piedi?

Con soddisfazione mi accorsi di sì. Mossi qualche passo, percorrendo quello che sembrava un corridoio.

Le mani che mi sospingevano non si fecero scrupoli di penetrarmi la carne quando fu il momento di farmi fermare. Quasi lo preferii, tuttavia, all’approccio tutto chiacchiere che aveva l’altro sbirro.

Non mi piaceva sentir parlare gli altri in quel momento. Le voci sembravano tutte troppo alte.

Ubbidii, fermandomi. Furono sempre le stesse mani a spingermi con brutalità: persi l’equilibrio, cadendo rovinosamente sulle ginocchia. Il pavimento gelato non era però così terribile. Con il rumore di sbarre che si chiudevano alle mie spalle, mi sdraiai, sperando che le mattonelle fredde attutissero il calore offuscante che mi comprimeva atrocemente la fronte.

 

Goodbye my lover
Goodbye my friend
You have been the one
You have been the one for me

 

- Sei vivo, amico? -

Le palpebre erano pesanti, troppo per i miei gusti, troppo anche solo per provare a sollevarle. Le lasciai chiuse, cercando di ignorare la mano che mi scuoteva. Le avrei volentieri lasciate chiuse per sempre, ma tu non me lo permettesti: nel buio cui mi ero ormai affezionato apparve la tua immagine. Nel momento stesso in cui appariva, i miei occhi si spalancavano. Questione di un attimo.

- Sei vivo, allora! – esclamò la voce, mentre la mano smetteva finalmente di tormentarmi.

Sollevai lo sguardo, incontrando gli occhi di un omone in tuta da ginnastica. Due metri per oltre cento chili. Rabbrividii, improvvisamente terrorizzato all’idea di essere rinchiuso in una cella con lui. Il terrore è però un’emozione. Io non provavo più emozioni. Anche quella durò poco, sostituita dall’indifferenza.

- Che hai fatto, mingherlino? – mi chiese, squadrandomi dall’alto in basso.

Ci pensai, cercando inutilmente di riordinare coerentemente i pensieri.

- Non ricordo – risposi, sincero.

Il bestione sorrise, mostrando una mezzaluna di denti storti e sporchi. Mi porse una mano, sollevandomi in piedi neanche fossi una piuma. Mi trascinò verso la panca in fondo alla parete e mi ci lasciò cadere sopra. In pochi passi attraversò la cella, afferrando una brandina sfondata e trasportandola fino a me. La sistemò di fronte alla panca, accomodandocisi con eleganza. Sorrideva ancora.

- Una bella sbronza, eh? – commentò, mentre io reclinavo la testa contro il muro. Annuii, piano.

Almeno il mondo aveva smesso di girare.

- Non hai una faccia conosciuta – continuò il gigante, pensoso. Strinse le labbra, concentrandosi. – No, sono sicuro. Che hai fatto allora? Roba da niente, immagino. Follia temporanea, no? -

- Credo di sì – risposi, la voce impastata – Colpa della sbronza, credo –

Il gigante annuì, l’aria grave. - Colpa di una bionda? – mi chiese, lo sguardo ammiccante.

Io inarcai le sopracciglia, sperando solo che mi lasciasse in pace.

- Ti ha lasciato, questo è il problema? – sogghignò, gli occhi divertiti – Non bisogna prendersela tanto -

Mi strinsi nelle spalle, lo sguardo che si faceva vitreo.

- Non bionda – mormorai alla fine, senza neanche sapere il perché.

- Bionde, brune, rosse… non cambia. Alla fine ti portano tutte a sbronzarti. Sbaglio, forse? – domandò, retorico. – Tu perché l’hai fatto? La colpa non è della pupa? –

Annuii, assottigliando lo sguardo. Proprio un filosofo mi doveva capitare come compagno di cella.

- Speravo di dimenticare – dissi, gli occhi sul pavimento sporco – Aspiravo all’oblio -

- Non ha funzionato? –

Scossi la testa, sentendo la rabbia salire. Frustrato mi presi il volto fra le mani.

- Non dovrebbe essere così? – gli chiesi, guardandolo di colpo – Ho più alcol che sangue in circolo, perché allora sono così lucido?! Perché invece dell’incoscienza, sembra che la coscienza sia più forte di prima?! – avevo alzato la voce, le mani strette a pugno.

Il gigante sorrideva comprensivo, l’espressione di chi la sa lunga.

- L’alcol è infido – cominciò – Non sei tu a decidere quando dimenticare e quando ricordare -

- Non voglio ricordare – sibilai, i denti serrati.

- Perché? –

Non risposi subito, ponendomi quella domanda per la prima volta. Perché? Lo sapevo, solo che in quel momento la risposta mi sfuggiva. Chiusi gli occhi, di nuovo stanco. E fu in quel momento che riapparisti. Più bella che mai. Con il tuo sorriso arrivò anche la risposta.

Aprii gli occhi, trovando subito quelli del gigante puntati su di me.

- Perché è doloroso –

 

I'm so hollow, baby, I'm so hollow
I'm so, I'm so, I'm so hollow

- Dolore – mormorò l’omone, guardandomi di sottecchi – L’alternativa qual è? -

- Il nulla –

- Fra il dolore e il nulla, io scelgo il dolore – disse lui, serio. Io scossi la testa, un senso di oppressione nel petto. Non ce la facevo più. Semplicemente ero stanco, stanco di tutto.

- Non mi sono neanche presentato! – esclamò il mio compagno improvvisamente – Francesco

Cercai di sorridere, porgendogli una mano leggermente tremante. – Danilo –

Francesco non mi strinse la mano, la guardò, silenzioso. Alla fine, più confuso di prima, la ritirai.

- Chi descrive il proprio dolore, anche se piange, è sul punto di consolarsi – disse, sollevando i piccoli occhi neri verso di me. Il sorriso mal riuscito mi sparì dalle labbra, spodestato da un broncio amareggiato.

- Non è una frase tua – scherzai, cercando di nascondere il mio disagio.

Francesco però non sorrise, continuando a fissarmi corrucciato. Scossi la testa, mordendo con rabbia l’interno guancia. Sostenni lo sguardo, il respiro che mi si faceva pesante.

- Non ho la minima intenzione di descrivere il mio dolore – sibilai, sconvolto anche solo dalla possibilità.

- Continua a soffrire, allora – ribattè lui, il tono sfacciato. Si sdraiò, le mani dietro la testa e lo sguardo al soffitto. Fischiettava, ignorandomi completamente.

Continua a soffrire. Forse era quello che volevo: soffrire fino alla fine. Attendere una conclusione. Potevo mai attenderla con un cuore in agonia? Sorrisi, un sorriso di circostanza ed inadeguatezza.

- Non ce la faccio – sussurrai, la voce così fievole che temetti non fosse riuscito a sentirmi. Lui invece accennò un minuscolo movimento con la testa, un segno di assenso, di intesa.

- Non ti sto obbligando a raccontarmi qualcosa, Danilo – disse, sempre senza guardarmi.

Ebbi un moto di esasperazione: aveva appena finito di dire che per far passare il dolore bisognava patirlo fino in fondo e proprio ora faceva marcia indietro?! Lo fissai, truce, affrettandomi a citare le sue parole:

- “Chi descrive il proprio dolore è sul punto di consolarsi” – ripetei, il tono caustico.

Lui non reagì, lo sguardo ancora fisso sul soffitto. Perché odiavo così tanto quel silenzio?

- Non ce la faccio – ribadii, la voce spezzata – Non riesco a raccontare… -

Un groppo amaro in gola mi bloccava le parole, fermandole e rispedendola brutalmente verso il basso.

Un pizzicore diffuso mi fece prudere gli occhi che, prontamente, tenni fissi al pavimento.

- Descrivere – cominciò Francesco, giocando con la catenina che aveva attorno al collo – Descrivere non significa per forza farlo a voce. Si può descrivere anche a se stessi, parlando interiormente, ascoltando i propri pensieri. Sai di cosa parlo, vero? -

Non dissi niente, non mi mossi nemmeno. Lui continuò, come se non si fosse fermato.

- Ricordi. Ecco di cosa parlo. Quelli di cui tu volevi liberarti stasera. Non ci sei riuscito, giusto? Si vede allora che non puoi farlo, semplicemente. Non puoi e non devi ignorarli. Descrivi il tuo dolore, Danilo. Descrivilo a te stesso. Chiudi gli occhi e lascia che prenda il sopravvento -

Presi un bel respiro, rilasciandolo poi lentamente. La faceva facile, lui. Descrivi il tuo dolore. Parafrasato era come dire che dovevo descrivere te. Proprio te, capisci? Non potevo farcela, assolutamente no.

- Poi finirà? – chiesi, come se da quella risposta dipendesse il resto della mia vita.

- Se il dolore fosse eterno non sarebbe più tale –

Continuai a guardarlo, mentre chiudeva gli occhi e il suo respiro lentamente rallentava. Lo invidiai e, cercando inutilmente di calmare la corsa furiosa che stava intraprendendo il mio cuore, mi sdraiai.

Respiravo a fatica, sul punto di scegliere per il sì o per il no.

Come ne sarei uscito? Peggio di prima, temevo. Mi ci volle qualche minuto per considerare che, a dirla tutta, non riuscivo a credere ci potesse ancora essere un peggio. E se non c’era un peggio…

Chiusi gli occhi, con la premura di chi sta procedendo verso il patibolo.

Chiusi gli occhi, sapendo che non potevo più tornare indietro.

 

 

'Cause I saw the end before we'd begun
Yes I saw you were blinded and I knew I had won
So I took what's mine by eternal right

 

Era il punto di non ritorno.

Lo sapevo, anche prima di rivedere il tuo viso davanti a me.

Erano giorni, lo sai, che non chiudevo occhio? Non lo facevo, terrorizzato all’idea di dover guardare i tuoi occhi. Credevo di non essere abbastanza forte per farlo, ma a quanto pare mi sbagliavo.

Perché ora li sto fissando e vorrei non smettere più di farlo.

Ricordare. Cedere e sottomettersi al dolore. Proprio io, che non l’ho mai data vinta a nessuno.

Nessuno tranne te.

Quando ci pensavo, continuavo a ripetermi che non contava, perché tu eri un caso a parte. Ed era vero, con te è sempre stato tutto nuovo, speciale. Unico. Come potevo spiegarlo a Francesco?

Come si può spiegarlo a parole?! Non ne sarei mai in grado, lo sai?

Ci sono emozioni che solo con il silenzio è possibile esprimere. Ciò che provavo per te è fra quelle.

In tutte le storie però, si inizia a raccontare dal primo incontro. Devo dire che il primo periodo non è certo fra i miei preferiti, lo sai anche tu. La prima volta che te ne spiegai il motivo, lo feci con lo sguardo basso, invaso dal terrore che te ne andassi. E tu, ancora una volta, mi sorprendesti scoppiando a ridere.

Dicesti che lo sapevi, che lo avevi sempre sospettato. Che non te ne importava nulla.

A me invece importava. Era un argomento terribilmente serio ai miei occhi.

Non riuscivo a credere di essermi innamorato, proprio io e proprio di te. Mi pareva assurdo. Avevo buoni motivi per dubitare: a cominciare dal fatto che ti avevo chiesto di uscire solo per approfittare di te.

Non mi piacevi, non ti avevo mai guardata con vero interesse. Era il college dopo tutto ed io ero un perfetto idiota. Sapevo che non mi eri indifferente: avevi una cotta per me da diverso tempo e, non appena la cosa mi venne a far comodo, ne approfittai.

Ti chiesi di uscire, ridendo dell’emozione che ti colorò il viso.

Volevo solo portarti a letto, niente di più. Il buonsenso avrebbe dovuto fartelo capire, ma tu accettasti, sicura probabilmente del fatto che mi avresti manipolato a tuo piacimento.

Ora riesco a crederci, ora ti do ragione.

Ci sei riuscita, no? A manipolarmi, a stregarmi, ad abbarbagliarmi… a farmi innamorare di te.

Quanto ci hai messo, due, tre settimane al massimo? Non lo avrei ammesso neanche sotto tortura, ma era così. Quel tuo visino prima invisibile per me, qualunque fra i tanti, era diventato l’unico.

 

You touched my heart you touched my soul
You changed my life and all my goals

Non ci credevano i miei amici.

Non ci credevo io. Solo tu l’avevi sempre saputo.

E ora che ti guardo che posso dire? Avevi ragione, come sempre. Sono stato uno stupido, come sempre.

Ti amo, come sempre.

Ci sono stati momenti, tanti, anche troppi, in cui avrei giurato di poter vivere solo di te.

Lo avrei giurato, non una sola volta ma in continuazione. Perché era vero. Per anni non desideravo altro che te, il tuo piccolo viso, quegli occhi neri in cui mi perdevo così volentieri e quei capelli che odoravano di pesca. Semplicemente te. Non mi serviva altro.

Ora finalmente so che era vero.

Ne ho avuto la conferma: sono senza di te e posso assicurarti che non sto vivendo. E’ un esistenza, quella che sto vivendo, in cui manca esattamente questo: la vita. Te la sei portata via, vero?

Andando via l’hai portata con te.

Non hai idea di quanto mi manchi, immagino che ancora una volta non si possa esprimere a parole. Se ripenso a noi, cercando semmai il periodo che più preferisco, non ne uscirei più. Perché non ce n’è uno.

Il mio preferito non è l’inizio né il dopo né la fine.

E’ il tutto in cui sei compresa tu.

Da quella prima sera la passione non è mai diminuita, non ha fatto altro che crescere. Come biasimarla? Non si può fare diversamente quando trovi la persona giusta. Quella che sai essere l’unica.

Inutile dire che eri tu.

Mi hai preso il cuore, ma non ti è bastato. Sei riuscita a prendere anche la mia anima. Non me ne pento.

Se non l’avessi presa, te l’avrei data.

Credevo che ormai fossimo una cosa sola, solo io e te. Solo tu ed io. Lo dicevi sempre, ricordi?

Non eravamo perfetti, non lo siamo mai stati. Eppure eravamo insieme e non c’era niente di meglio.

Niente di più che desiderassi.

Volevo te, vivere con te. Ricordi quando decidemmo di farlo?

Il minuscolo appartamento in cui ci rinchiudemmo? Era bellissimo, vero? Non uscimmo di lì per quasi una settimana, timorosi di non riuscire a godere appieno del noi. Di me e di te.

In quanti scommettevano su quanto tempo avremmo ancora resistito? Non credevano potessimo farcela, sembrava loro impossibile. Prima di conoscerti, sarebbe parso incredibile anche a me.

Bastava un tuo sorriso però, a farmi capire che non c’era niente a cui pensare.

 

I am a dreamer but when I wake
You can't break my spirit - it's my dreams you take
And as you move on, remember me

Sono tutte cose che sai.

Non c’è bisogno che le dica. Quello che allora mi chiedo è come tu abbia potuto andartene.

Io non solo non lo avrei mai fatto, ma non ne sarei mai neanche stato in grado. Era impossibile anche solo da pensare il passare più di un giorno senza di te. Sembrerà sdolcinato, troppo romantico o scontato.

La cosa che non viene mai contata però, è che possa essere vero.

Quella sensazione di mancanza, di incompletezza, di soffocamento. Quel disagio che provavo ogni qual volta non eri con me da troppo tempo, mi assale ogni secondo da quando non sei più con me.

Giorno, notte, non c’è differenza. E’ sempre dietro l’angolo, pronto ad aggredirmi. Ed è colpa tua.

Ho continuato a vivere nei sogni, dal giorno, dal momento stesso in cui non eri più con me.

Dall’istante stesso in cui la tua mano non era più nella mia, ho capito che la realtà non avrebbe avuto più alcuna vera attrattiva per me. Non c’eri tu, era come dire che non era rimasto niente.

Nei sogni però, in quelli c’eri ancora.

Per questo mi ci sono rifugiato, incapace di uscirne, di tornare alla realtà…

Non ne ero in grado. Non senza di te.

Un sognatore, ecco cos’ero. Irrecuperabile.

Mi piace pensare che anche tu pensi a me, che non mi dimenticherai. Per me sarebbe impossibile, ma per te? Non credo. Cos’ero io, in fondo? Non mi sono mai sentito davvero all’altezza, sai?

Credevo di essere l’uomo più fortunato del pianeta.

Fuggivo il giorno in cui ti saresti accorta di poter avere di meglio. Il giorno in cui finalmente avresti capito quale nullità io fossi. Perché hai perso tempo con me?

Con quello stupido spilungone, bravo solo a giocare a basket?

Con quell’idiota che cambiava una ragazza a settimana?

Sempre lo stesso buono a nulla che si era innamorato di te?

Perché mai lo hai sposato, poi? Con che logica?

Cosa mai hai visto in me, ancora me lo chiedo.

Senza trovare risposta.

 

I've seen you cry, I've seen you smile
I've watched you sleeping for a while
I'd be the father of your child
I'd spend a lifetime with you

Il giorno del nostro matrimonio.

Uno dei sogni in cui mi rifugio più spesso, sai?

Quando sento tutte le forze abbandonarmi è a quel momento che penso: a quando mi hai guardato, gli occhi fissi nei miei e lo hai detto. Hai pronunciato il fatidico sì. Sì. Sì. E ancora mille volte sì.

Stavo per piangere, ci credi? Al pensiero che davvero volevi stare con me.

Che non mi ero immaginato tutto, che non ero solo io ad aver perso il senno.

Tu, bellissima nell’abito bianco. Sorridente, commossa, leggiadra. Mia. Mia. Mia. Solo mia.

Non puoi sapere per quanto lo avevo desiderato, per quanto lo avevo sperato. Ed era successo, tutto come era sempre stato nei miei sogni.

Sembrava proprio il per sempre felici e contenti delle favole, vero? Non mancava nulla.

C’era l’amore, la casa, noi. Tutto quello che serviva.

E io ci ho anche creduto, che idiota. Che stupido, inutile, idiota. Come ho potuto? Sperare in tanto…

Io e quei miei dannatissimi sogni. Credevo avremmo vissuto insieme, per sempre.

Avremmo avuto dei figli, un bimbo, una bimba. Dei piccoli noi. Con dentro un po’ di me e tanto di te.

Dei cuccioli, con le loro risate, i loro guai. Le corse per la casa, i natali e le feste, le partite a pallone e le gare di ballo. I voti a scuola, i litigi di poco conto, gli abbracci e i baci. Il camino, la befana, i dolci. Ho sognato tutto, fantasticato su tutto questo e molto altro.

Ci credevo davvero. Che saremmo invecchiati insieme, passando il resto della vita così, assieme.

Stolto, credulone, ingenuo. Dillo come vuoi, il risultato non cambia.

Ci sono sempre e solo io alla fine.

Distrutto. Finito.

Senza te. Io che ho paura persino di sognarti, perché fa troppo male. Io che mi ubriaco, che rompo tutto, che strappo le tue foto, che urlo e strepito con tutti. Io che finisco in prigione.

Sai perché? Sì, sì che lo sai. Lo hai sempre saputo. Me lo ripetevi, ridendo…

Che senza di te sarei stato perduto.

Avevi ragione. Come sempre.

Avevi ragione.

 

I'm so hollow, baby, I'm so hollow
I'm so, I'm so, I'm so hollow

 

- Come va con i ricordi? -

Sobbalzai, gli occhi che si spalancavano senza il mio permesso.

Mi ritrovai nella penombra della cella, rividi i contorni della figura di Francesco, steso poco lontano da me. Una domanda, una semplice domanda la sua. Non mi guardava, soltanto chiedeva.

- Come deve andare? – ribattei, la voce roca.

Lui annuì, come se dal mio tono avesse capito ogni cosa. Girandosi di poco incontrò il mio sguardo.

- Si può sapere perché ti ha lasciato? -

Ci misi un bel po’ a rispondere. Non saprei dire quanto, quanto bastava probabilmente a prepararmi a dirlo. Ci crederesti che prima di quel momento ancora non ero riuscito a dirlo una sola volta?

- Non mi ha lasciato – cominciai, chiudendo di nuovo gli occhi, cercando i tuoi.

Francesco non mi interruppe, non disse niente.

E io continuai, finalmente pronto.

- E’ morta

 

I know your fears and you know mine
We've had our doubts but now we're fine
And I love you, I swear that's true
I cannot live without you

 

Francesco non trasalì.

Non ebbe il minimo moto di sorpresa. Iniziai a chiedermi da quanto lo avesse intuito, come avesse fatto a capirlo. Lui sembrò smettere addirittura di respirare, guardava il soffitto, perso nel suo silenzio.

- Ti manca? -

Mi sembrava di essere in una specie di realtà alternativa, in cui il tempo non scorreva normalmente. La sua domanda era stata cortese, anonima di per sé, eppure mi colpì dritta al cuore.

- Sì – sussurrai, la gola secca.

- Cos’è che ti manca di più? –

- Tutto – risposi – Lei, semplicemente. Ne ero diventato dipendente. Era parte di me, è come se avessi perso me stesso. Io… io credo di non poter più vivere senza di lei

Sentii le lacrime che premevano per uscire, ma non glielo permisi. Non potevo, non dovevo piangere.

Che senso avrebbe avuto? Certo non sarebbe servito a farti tornare da me.

Lo sai che darei tutto per riaverti?

Per poterti vedere anche solo un’ultima volta, per poter sentire di nuovo la tua risata, per poter stringere ancora la tua mano… per poter avere un ultimo bacio? Un bacio infinito, ecco cosa vorrei.

Un bacio in grado di salvarti, in grado di salvare me. Un bacio in grado di battere la morte.

Un bacio. Un tuo bacio.

Come quello del primo appuntamento, o del matrimonio, o di uno degli innumerevoli momenti in cui sono stato fortunato al punto da poter avere le tue labbra.

E’ chiedere troppo?

Ti sembra troppo?! E’ troppo che un marito rivoglia la moglie morta troppo presto?

Morta quando ancora non era il momento, quando nessuno era pronto, quando nessuno lo avrebbe mai voluto o anche solo temuto, immaginato. Troppo rivolere te? La mia vita…

Troppo chiedere una ragione per vivere ancora?

 

And I still hold your hand in mine
In mine when I'm asleep
And I will bare my soul in time
When I'm kneeling at your feet

- Ti interessa? -

Faticai ad aprire gli occhi, a girarmi ancora.

Le membra intorpidite, come anestetizzate dal dolore. Cercai di capire a cosa si riferisse Francesco e la vidi: la pistola nella sua mano. Nera, piccola, fatale.

La guardavo, pietrificato. Francesco me la mostrava, porgendomela quasi.

- Potrebbe essere una soluzione – diceva – Meglio di qualsiasi antidolorifico. Risolve ogni problema -

Fissai la canna nera, immaginando di premerla sulla tempia.

Oppure no, diritta al cuore.

Non sarebbe stata per davvero una soluzione?

Quello mi chiedevo. Non sarebbe stato magnifico, porre fine al dolore, a quella vita che non era più tale, alle sofferenze, ai ricordi… E se davvero avessi premuto quel grilletto? Non ti avrei raggiunta?

Non avrei finalmente potuto riaverti tra le mie braccia, di nuovo e per sempre?

Il tuo sorriso, i tuoi occhi, la tua risata…

Tu.

Le tue labbra, un tuo bacio. E solo premendo un grilletto.

Fissai ancora la pistola, sul punto di allungare davvero la mano e prenderla. Per venire da te.

Raggiungerti, finalmente.

Sentivo le lacrime rigarmi il volto, calde, finalmente libere di scendere.

Dio, quanto mi mancavi…

Se davvero, se per davvero ti avessi potuta rivedere… in ginocchio, ai tuoi piedi, incapace di muovermi anche solo di un millimetro. Non ti avrei più lasciata andare, lo sai?

Eppure la verità è che nemmeno tu mi hai mai lasciato andare.

Sei sempre rimasta con me, vero?

Non mi hai abbandonato. L’ho capito, alla fine.

Nel momento in cui stavo per afferrare la pistola. Nel momento in cui sentii il brivido lungo la schiena. La tua voce, ecco cosa sentii. Un soffio, vicino all’orecchio. L’eco della tua risata.

E la mia mano si bloccò, scattando poi lontana da quella pistola. Non l’avrei mai presa.

Non farlo, amore mio.

Chiusi di nuovo gli occhi, pronto a vedere la tua immagine. Diversa, ecco com’era. Differente da come la ricordavo, da com’era stata negli ultimi tempi della malattia.

Era di nuovo la tua, quella dei giorni felici, di quando si rideva per tutto e per niente.

E sorrisi, al buio, senza alcun motivo, sorrisi.

Perché sorridevi anche tu nella mia testa, perché eri con me, perché non mi avevi dimenticato, non mi avevi lasciato. Perché in qualche modo, eravamo ancora tu ed io.

Non farlo, amore mio.

No, non lo avrei fatto. Non in quel modo, non in quel momento.

Avrei aspettato, avrei vissuto e prima o poi, ti avrei avuta di nuovo mia.

Non farlo, amore mio.

 

Goodbye my lover
Goodbye my friend
You have been the one
You have been the one for me

 

 

 

§§§

 

   
 
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