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Autore: crisalide    28/10/2010    1 recensioni
Il bardo, signore delle menti della sua corte, mettendosi comodo, cinge con un braccio il ragazzo accoccolato al suo fianco, e guarda il nuovo arrivato con intensità. “Molto bene. Si metta comodo, prenda un caffè ed un dolce, perché fra poco inizierò la mia storia.”
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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po

Portatore di luce

 

Dal suo castello di rovina,
portatore di luce, in notti spente.

 Ma il gelo, il gelo aveva spento ogni luce e si era infiltrato nelle ossa ed ora – solo ora – il portatore di luce con gelidi occhi mirava il cielo, che sopra di lui ora scorreva, ora cadeva.
I suoi pezzi, li riempivano le mani.
Gli coprivano l’orizzonte e l’orizzonte stesso, miserabile, si lasciava dipingere e modellare, da stracci d’eternità.
Era solo e stanco il portatore di luce, sebbene ogni notte un tocco diverso gli percorresse il corpo, e ricordi di calore gli facessero tremare l’animo gelato.
Ogni movimento, moriva.
Ombre gli scolpivano il volto e le labbra gli tremavano.
I suoi compagni, li aveva abbandonati da tempo. Li aveva lasciati in un grembo più caldo e sicuro di quelle rovine, in un luogo dove l’eternità si incolla alla pelle e da essa trasuda, in rivoli di fango e polvere. In grembo alla madre i suoi ex-compagni ancora lo aspettavano, d’ansie seviziati, poiché lui aveva tolto loro persino ogni promessa.
Ingannato, ed ingannatore – la pietra in rovina, altro non era testimone che di maldicenza; eppure non avrebbe parlato. Non a che di morte faceva empio sfoggio, e magnifici costumi.
Così, solo e senza parole il corpo pian piano acquisiva la rovina e la pietra, il freddo.
Stava morendo.
Pensare che il mondo di male va parlando: il mondo non sente, il mondo pronuncia lettere vuote.
I canti del Cielo, gli riempivano le orecchie. Invero, durante questi momenti le sue mani a scatti, creavano solchi nella polvere; e altro non creavano che disegni, immagini del suo cuore impazzito, stretto nell’agonia.
Spesso il Cielo, durante questa parabola di notti, giungeva alle rovine senza pretendere altro, che tener compagnia al portatore di luce, con la sua presenza e i suoi vuoti canti: ma lui, che era avaro di cuore e di orgoglio vestito, lo ignorava di sovente, preferendo continuare ad esser luce spenta nel buio della notte; oltretutto, era piuttosto certo che il Cielo, così espansivo e sporco, con la sua vicinanza l’avrebbe tutto insozzato. Si scostava, sdegnoso.
Col passare del tempo, le sue labbra si stavano spaccando.
Passava le ore della notte immobile, fissando il gelo che gli copriva gli occhi, pregando che il Sole non sorgesse più: così, non avrebbe più dovuto sfuggire al suo sguardo.
Dopo lunghe ore passate ad intonare canzoni d’infanzia il Cielo lo lasciava, infine, dicendo: “Lungi, lontano, lontano. Buonanotte.” Ma il portatore di luce non avrebbe dormito, anche il Cielo infondo lo sapeva: invero, era piuttosto sicuro che avesse paura dei sogni. Inoltre, temeva che il portatore muto non fosse neppure più capace di chiuderli, i suoi occhi; con ogni probabilità solo il Sole sarebbe riuscito a scioglierli. Ma anche questa era solo una supposizione: infatti, ad ogni alba dall’alto lo vedeva, a tentoni, barcollante e cieco sottrarsi allo sguardo dell’astro fratello: se ne andava. Nell’ombra, tra le ragnatele. Vergognoso.
Una sola volta, interrogato sul perché rifuggisse il Sole, che pure avrebbe potuto riscaldarlo e portargli del bene, il portatore di luce gli aveva risposto, con voce raschiante e piena di sdegno: “È nient’altro che ladro di miseria altrui, quell’infausto essere; ogni qualvolta che ti empie di sè, che con la sua luce non ti rivela nulla, ma piuttosto nasconde. Secca il marciume sulla pelle degli uomini per poi trasformarlo in polvere, polvere che mi opprime i polmoni. Ogni volta che sento tutto ciò ripetersi, vorrei rivolgergli tutte le maledizioni e gli improperi, perché anch’esso cada; purtroppo però, questo essere, mio nemico, non lo mostra neppure, il suo volto: la sua natura è troppo alta per rivolgersi alla terra! Così, lascia che gli altri si affannino a cercare nel suo riflesso sembianze umane e un’anima – invano, perché è la sua essenza stessa che esso mostra – essenza volgare, stupida. Anche quando ero bambino, e tutto era giovane ciò mi accecava, e mi faceva schiavo. Ora lo capisci il perché, non ne voglio essere toccato? Eppure tu, che mi visiti di continuo, spesso te lo poni nel grembo.”
Il Cielo, allora chinò il capo. Una muta vergogna fece il suo nido nel bassoventre, mentre la colpa, liquida, gli cadeva dagli occhi: era stato abbandonato.
Muto e vinto, struggendosi, se ne andò salendo nelle sue sale, dove chiamò a gran voce le nuvole, affinché si ponessero tra lui e la terra.
Dopodiché, si sdraiò sul suo giaciglio, e il Sole e la Luna giacquero e se abbandonarono il suo letto più volte: lui però, nemmeno li percepì al suo fianco. Lui, che sognava la terra, si rigirava tra le coperte senza pace, tormentato dagli incubi e dalle veglie dolorose; pure quando non sentì più il bisogno di dormire, preferì continuare a giacere nel letto, a fissare il suo sguardo su tutto, tranne che il mondo sottostante. Anche il suo cuore, a sua immagine, ogni tanto si dimenticava di battere.
Era scesa la notte, e nel suo castello di rovina, il portatore di luce non era più solo.
Anime, corpi dalla terra erano saliti come vermi, e strisciando veloci, accerchiandolo – ai suoi piedi,  si erano gettati – e ora, percorrevano il suo corpo ritrovato, con mani bollenti.
Gemendo, il portatore di luce abbassò il capo, tra i vermi. Questi, li si appesero al collo, lo strattonarono: infatti, col tempo anche la luce che gli aveva sempre rischiarato gli occhi si era abbassata, la stessa luce che li aveva sempre permesso di intravedere il suo cammino;  ora, questa li cingeva il collo stretta, facendoli mancare il respiro.
Costretto, gemeva, contorcendosi.
A scatti cercava di scacciare quegli incubi fatti di terra, con l’angoscia nel cuore, con le cinghie strette ai polmoni, cieco, dimenandosi: ma il peso dei corpi lo schiacciava alla pietra, dove per tutto quel trambusto la sua pelle si riempì di ferite ed abrasioni, che con il loro bruciore ancor di più, aumentavano l’agonia della massa brulicante di corpi. Volgeva il capo in cerca di vie di fuga, frenetico, cercando di sfuggire alle numerose membra che lo afferravano, lo graffiavano, facendolo sanguinare; ma gli stracci di cielo che aveva a lungo raccolto e i vermi, le anime facevano cadere misero il suo orizzonte.
Il sangue, colava.
Lento, umido, sulla pietra oramai scivolosa.
Intanto, il portatore di luce aveva perso persino il suo corpo, e il ghiaccio dei suoi occhi si era sciolto, imbrattandogli il viso. L’umido, bruciante umore che gocciolava dalle labbra dei suoi compagni li annebbiava la vista e li cementava il cuore, che avvolto dalla melma rallentava, perdeva il suo battere stremato.
Giaceva scomposto sul cemento.
Così, quando il giorno sorse e il Sole lo sorprese, attorno a lui il freddo si era sciolto, lasciando il suo corpo immerso in una pozzanghera pietosa, misera e sudicia come l’inferno da cui proveniva. Lo conobbe così il Sole, nudo e putrido, dalle membra e dall’anima disfatte: inorridì l’astro, alla vista del fratello.
Che, ahimè, era caduto a terra.
Passò un giorno intero, il portatore di luce tra le rovine ritirate del castello, la sua collezione di pietre; e delirava, delirava col senno suo sciolto sotto di sé.
Ma infine, infine con il sollievo della notte scese anche il suo amico Cielo, al suo fianco: il Sole, li aveva raccontato tutto. Pietoso, con la carità bruciante nel cuore che stava oramai decadendo, lo colse da terra e posò il capo del portatore di luce nel suo grembo. Non poteva lasciarlo, perché anche lui stava cadendo a pezzi.
Il Cielo, stava cadendo.
Pioveva, e la pioggia lavò il corpo sfinito ed ustionato dell’astro caduto.
Con le dita, il Cielo intanto gli pettinava i capelli, scioglieva i nodi per riscoprire dolci boccoli, che intrecciava nelle voluminose acconciature delle nuvole. Attorno al viso incavato creava cornici di sogni, che fossero magnifici, questa volta: al suo fianco, chiamò le aurore e gli arcobaleni, le albe e i crepuscoli, la pioggia d’estate e i venti di primavera.
Altresì quando si svegliò, il portatore di luce scoprì gioia e stupore che mai aveva conosciuto. Per un attimo, sorrise alla morte; disse allora il Cielo, piangendo: “ Lucifero, Lucifero, astro del mattino: conosci ora il mondo, che prima ti apparteneva e che mai mirasti, se non con occhi severi? Quale desiderio puoi avere, ora?” “ Le labbra, le tue labbra sono il mio più grande desiderio: labbra morbide, non bagnate d’umore come quelle che mi hanno percorso il corpo, di sovente. Piuttosto che il loro umido, marcio contatto preferisco che i miei occhi gelino e le mie labbra si spacchino. Cielo, Cielo, io solo ora ti amo. Amo la tua freddezza e la tua lontananza, dalle meraviglie che ti percorrono. Come la lontane stelle, che più non sono mie compagne. I miei compagni ora, marciscono sottoterra.”
E fu così, per l’amore di un momento, che il Cielo si allontanò dal calore e dal Sole, divenendo sempre più freddo, fino a congelare.
Ghiacciò il Cielo, e mentre così immobile restava, il suo cuore, smise di battere.
Di lui, rimase solamente la sua immagine, riflessa dal mare, e il suo ricordo, sulle labbra d’altri.

   
 
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