Crossover
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Autore: Feel Good Inc    31/10/2010    1 recensioni
{ III classificata a pari merito nel contest “Alice nel paese di...” indetto da Fabi_ }
Alice in Wonderland x Il Mago di Oz. Tre episodi prettamente nonsense e assolutamente slegati tra loro.
I. Primo atto ~ Si era mossa con l’unico pensiero che forse, come quell’ultima volta, il viaggio le richiedeva di ritrovare la sua moltezza, di ritrovarsi. [ Alice Kingsley; Spaventapasseri – fluff/malinconico ]
II. Interludio ~ Qualcuno ancora si ostinava a dire che gli orologi ticchettavano prima del Giorno Gioiglorioso, ma doveva trattarsi di una sciocca credenza popolare, perché persino il Giorno Gioiglorioso – nessuno si ricordava più quando fosse stato, e il Cappellaio Matto meno di tutti. [ Cappellaio Matto; Spaventapasseri – dark/introspettivo ]
III. Ultimo atto ~ Nel paese dei Mastichini c’erano due sole strade, che si dipanavano come nastri dal cuore del villaggio: una era rossa, e lei non aveva mai saputo dove andasse a finire... [ Dorothy Gale; Stregatto – malinconico/triste ]
{ Cappellaio x Alice / Spaventapasseri x Dorothy }
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Film, Libri
Note: Movieverse, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ultimo atto ~ La strada giusta

;; some people do go both ways ;;

 

 

 

{ I walk this empty street on the boulevard of broken dreams

Where the city sleeps and I’m the only one, and I walk alone }

 

 

 

Doveva essere uno di quei sogni in cui fai di tutto per andare in una direzione, ma i tuoi piedi ti portano inesorabilmente a prenderne un’altra. Dorothy era consapevole di star sognando – perché, se si fosse veramente ritrovata di colpo nel Regno di Oz, non avrebbe mai percorso la strada di mattoni rossi.

Nel paese dei Mastichini c’erano due sole strade, che si dipanavano come nastri dal cuore del villaggio: una era rossa, e lei non aveva mai saputo dove andasse a finire; l’altra, naturalmente, era il lungo sentiero dorato che conduceva dritto alla Città di Smeraldo, nel centro esatto del regno. Era quella la strada su cui Dorothy aveva vissuto tante avventure, alcune pericolose ed altre esilaranti, e aveva conosciuto i migliori amici che avrebbe mai sperato di avere – tra i quali lo Spaventapasseri, il suo Spaventapasseri, che le mancava più di tutti, proprio come lei aveva temuto e gli aveva sussurrato quando lo aveva salutato con quel bacio. Era perciò la strada dorata che Dorothy avrebbe ripercorso; sarebbe tornata sui suoi passi, sarebbe andata a trovare i suoi amici, e avrebbe finalmente rivisto il suo amico di paglia e stracci che ogni giorno rivedeva nel viso di Hunk e che ogni volta la portava suo malgrado a piangere di nostalgia, nascondendo le lacrime in un fazzoletto ormai logoro perché Hunk non le vedesse e non si preoccupasse per lei.

A Dorothy non importava nulla della strada rossa. Per lei contavano solo il lungo sentiero dorato e i posti che toccava: come il campo di grano. Per questo motivo doveva essere un sogno – e mentre lo pensava la strada rossa la portava inesorabilmente avanti, attraverso un bosco strano, meno spaventoso di quello che circondava il castello della Strega dell’Ovest, ma non per questo meno inquietante.

« Totò, ho l’impressione che non siamo più ad Oz. »

I piedi di Dorothy, che oggi forse non sarebbero più entrati tanto facilmente nelle scarpette rosse e che però ancora un pochino le rimpiangevano, continuavano a muoversi in totale indipendenza dalla sua volontà. La ragazza stringeva Totò tra le braccia; perché Totò non l’abbandonava mai, neppure in sogno, e Dorothy non voleva rischiare di perderlo di vista in quel posto strano che sembrava completamente diverso dal mondo colorato che ricordava. Di nessuna delle piante che vedeva avrebbe saputo dire il nome, così come molti dei versi degli uccelli le suonavano estranei. Oh, quanto sarebbe stato rassicurante se insieme a lei e a Totò ci fosse stato il Boscaiolo di latta a confortarla con il suo buon cuore, o il Leone che con il suo nuovo coraggio avrebbe potuto farla sentire meglio – oppure semplicemente lui, il suo Spaventapasseri, terrorizzato e tremante ma ben deciso a proteggerla, come aveva sempre fatto, sempre, persino davanti al fuoco.

Camminando con Totò in braccio, Dorothy sollevò una mano e si asciugò una lacrima dispettosa all’angolo dell’occhio. Doveva smetterla di pensare allo Spaventapasseri. Ogni giorno che passava il suo ricordo diventava un po’ più doloroso, eppure non sbiadiva mai – e lo zio e la zia si ostinavano a dire che Dorothy aveva sognato tutto! Se così fosse stato, non avrebbe fatto tanto male. No?

A poco a poco il bosco iniziò a diradarsi, finché la strada rossa sfociò in una radura su cui si affacciava un mulino cadente – un mulino in una radura? – e andò a morire di fronte a quella che sembrava una tavola imbandita per una cerimonia del tè.

La cosa si faceva sempre più bizzarra. Ma quell’unico viaggio di Dorothy ad Oz, reale o meno che fosse stato, l’aveva in qualche modo abituata alle cose bizzarre; così fu con una certa curiosità che la ragazza seguì i propri passi fin proprio alla fine della strada di mattoni rossi.

Era davvero una tavolata pronta per il tè, ma in qualche modo era anche qualcosa di assolutamente insensato. Molte tazze erano rotte. I vassoi erano quasi tutti scheggiati e vuoti, e quel poco che c’era da mangiare sembrava andato a male da anni. Un po’ dappertutto sulle tovaglie sbiadite si vedevano foglie portate certamente dal vento e che nessuno si era curato di spazzare via. Quanto poi all’uomo seduto all’estremità opposta della tavolata, lontano, con l’enorme cappello a cilindro a nascondergli la parte superiore del volto – era profondamente addormentato, e qualcosa di lui, chissà perché, dava l’impressione che non si svegliasse da molto tempo.

Strano, stranissimo. Forse il cervello che il mago aveva donato allo Spaventapasseri sarebbe stato in grado di trovare un senso a quella…

Ma a quel pensiero Dorothy si intristì nuovamente. E dal momento che questa volta non pensava di potersi trattenere, e considerando che quella cerimonia cui partecipava un solo uomo addormentato non si sarebbe certo interrotta a causa sua, si disse che forse poteva sedersi un attimo e permettersi di piangere un po’, davvero, soltanto un po’.

Lasciò andare Totò, che corse ad annusare circospetto la più vicina gamba del tavolo; quindi si lasciò cadere su una poltrona dall’aspetto invitante nonostante le tracce evidenti di disuso e posò il capo tra le braccia, rifugiandosi tra poche tazzine sbeccate che non sarebbero riuscite né a nascondere né a contenere le sue lacrime.

Era passato del tempo, e Dorothy ora era cresciuta abbastanza da riuscire ad intuire perché il suo Spaventapasseri le mancasse così tanto. Già in quel giorno lontano in cui lo aveva fatto scendere dal palo e aveva proseguito la strada con lui, e quando erano passati dal prato degli alberi permalosi e lui aveva architettato quello stratagemma perché fossero loro stessi a gettare alla ragazzina le mele che le avevano negato, e quando poi lui le aveva dichiarato che l’avrebbe condotta sana e salva dal Mago di Oz anche se la Strega dell’Ovest aveva minacciato di trasformarlo in un materasso – già in quei momenti, lei sapeva che lo Spaventapasseri, con quei suoi modi gentili e premurosi, con quel suo sorrisone un po’ sciocco ma contagioso, si stava scavando un posticino tutto speciale nel suo cuore. All’inizio era prevalso il bisogno di aiutarlo, di procurargli il cervello che voleva e così vederlo felice; ma a poco a poco si era resa conto di quanto lei stessa fosse felice insieme a lui, di quanto la facesse ridere e di quanto fossero dolci i suoi continui tentativi di aiutarla in ogni modo: sostenendola nel campo dei papaveri avvelenati o anche soltanto asciugandole le lacrime di fronte alla porta chiusa del Mago. Lui le sarebbe mancato più di tutti, gli aveva detto. E si era rivelata essere la verità. E oggi, ogni volta che si soffermava a guardare Hunk lavorare i campi della fattoria di zio Henry ed ogni volta che lui alzava gli occhi e le sorrideva, perdendosi nella sua somiglianza con il suo Spaventapasseri Dorothy non riusciva a non pensare che forse, lei, dello Spaventapasseri si era…

« Bambina, perché piangi? »

Al suono di quella voce dolce e calda come la cioccolata di zia Emma, Dorothy sollevò in fretta la testa dal tavolo – e restò a guardare a bocca aperta il gatto che le fluttuava davanti con un sorriso enorme stampato sul muso.

Da qualche parte ai suoi piedi, sentiva Totò ringhiare, ma piano, come se anche lui per ora si stesse limitando a valutare quella strana creatura.

Sì, questa era la prova: era decisamente un sogno. I gatti non sorridevano, non parlavano e neppure fluttuavano. Neanche quelli del Regno di Oz.

Il felino inclinò la grossa testa con un movimento pieno di umana curiosità, e continuò a fissarla con quegli occhi liquidi e straordinariamente espressivi. Ripeté la domanda, ignorando a bella posta il ringhio sospettoso di Totò.

« Perché piangi? Forse ti sei persa? »

Dorothy strinse le labbra. Sì, si era persa qualche pezzettino del suo cuore in un altro mondo che forse aveva soltanto sognato. Anche se aveva scelto di tornare a casa, si era persa lo stesso. E adesso ci si era messo anche questo nuovo sogno di mezzo, a ricordarle quanto faceva male.

« Ho seguito la strada sbagliata » mormorò in risposta, accennando ai mattoni rossi che si interrompevano bruscamente nell’erba alle sue spalle.

Il sorriso del gatto si allargò; sembrava avere molti più denti di un essere umano, o anche solo di un gatto normale. « Oh, è un problema piuttosto comune. Alcuni vanno di qua, altri di là, altri cercano scorciatoie… È estremamente facile seguire la strada sbagliata, dal momento che nessuno ha una strada tutta sua; non sei d’accordo? »

Quelle parole le riportarono inevitabilmente alla mente le assurde indicazioni che qualcun altro, tanto tempo prima, le aveva dato dalla cima di un palo indicandole alternativamente una strada, poi l’altra, e poi le due strade insieme.

Cercò di sorridere, ma le lacrime si fecero più insistenti e finirono con lo spegnerle la voce in gola.

« Un mio amico una volta mi parlò in modo simile, quando io… »

Un singhiozzo ingoiò il resto, e Dorothy rifugiò il viso tra le mani e pianse senza più alcun ritegno. Totò le si accucciò ai piedi, sotto il tavolo, ringhiando ancora all’indirizzo del gatto come se lo considerasse il diretto responsabile della tristezza della sua padroncina.

« Oh, mi vuoi forse dire che è questo tuo amico che sei venuta a cercare qui? » Il gatto le svolazzò intorno lentamente, o almeno così le parve sentendo la sua voce circondarla a poco a poco, insieme al suono caldo e ronfante delle fusa. « Consolati, piccola. Tutti, prima o poi, trovano ciò che stanno cercando. È così per tutti, dappertutto, ed è stato così anche per la nostra Alice. Alice » e su quel nome il gatto addolcì ancora il tono di voce, intensificando le fusa, passandole tanto vicino che Dorothy sentì il suo morbido pelo sfiorarle la guancia, « che peccato che Alice non sia tu. Se fossi tu il Cappellaio si sveglierebbe; e invece continua a dormire. Non sei un’altra Alice, vero? »

Sorpresa suo malgrado, Dorothy alzò il viso e scosse lentamente la testa. « No, non mi chiamo affatto Alice. Io sono Dorothy, Dorothy Gale. »

« Dorothy Gale? » Il gatto annuì con aria saggia, fluttuando di nuovo verso il centro del tavolo e continuando a guardarla con quel sorriso luminoso. « Sì, non potevi essere Alice. È un vero peccato. Sarebbe stato tutto più semplice se fossi stata tu Alice; tu riesci evidentemente a credere anche a più di sei cose impossibili, mentre l’ultima volta che Alice è stata qui continuava a dire di volersi svegliare. Che peccato, che peccato. Il Cappellaio continuerà a dormire, temo. Gradisci una tazza di tè? »

Muovendo le zampe come fossero mani, il gatto aveva proseguito il suo discorso sibillino versando nel contempo un liquido ambrato dall’odore alquanto forte in una delle tazze sbeccate disposte dinanzi a Dorothy, ed ora gliela tendeva con il suo bravo piattino, come avrebbe fatto un perfetto cameriere. Dorothy lo guardò stupita. Lanciò un’occhiata a Totò e vide che anche lui pareva stupefatto di fronte a quella strana creatura; aveva persino smesso di ringhiare. Senza neppure riflettere, la ragazza tirò su col naso, accettò il tè e lo bevve a sorsi brevi: era bollente, anche se – a giudicare dalle sue impressioni e dalle parole del gatto – doveva essere lì pronto su quel tavolo da molto tempo.

« Devi scusare il Cappellaio se sono io a fare gli onori di casa » miagolò il suo ospite, rivolgendo il suo sorriso sornione all’uomo seduto una ventina di sedie e poltrone più in là. « Come vedi, in questo momento non è al massimo delle sue forze. »

Dorothy osservò a sua volta l’uomo che il gatto chiamava Cappellaio, asciugandosi le guance e sentendo affiorare una lieve curiosità nei suoi confronti – come nei confronti di tutto ciò che la circondava, e che continuava a sembrarle un sogno assurdo, per quanto apparentemente realistico.

« Che cosa gli è successo? » domandò al gatto.

Il felino svanì in una nuvoletta di fumo, ricomparve al suo fianco e riprese a fare le fusa, ‘impastandole’ sul braccio, come facevano i gatti normali di tutti i mondi. Totò emise un altro basso ringhio di avvertimento e saltò sulle ginocchia di Dorothy, pronto ad ogni evenienza.

« Il Tempo è morto » spiegò il gatto, « sin dal momento in cui Alice ha lasciato Sottomondo. Da allora il Cappellaio si è ammalato di tristezza. Si è seduto qui al tavolo ad aspettare che Alice tornasse; ma Alice non tornava, non tornava mai, e intanto il Tempo moriva e gli amici non venivano più a prendere il tè con lui, e il Cappellaio cominciava ad aver sonno. Una volta si è addormentato, e da allora non ha più aperto gli occhi. »

Dorothy guardò dal gatto all’uomo con il cilindro sugli occhi, spaventata. « E da quanto tempo dorme? »

« Non hai ascoltato le mie parole, Dorothy Gale? Il Tempo è morto. Alice se n’è andata e non è passato neanche un minuto, neanche un secondo. Brutto, vero? Ed è molto triste che il Cappellaio si ricordi ancora di lei. È una ben povera memoria quella che funziona solo all’indietro; si dovrebbero ricordare le cose di domani per essere felici oggi. Se non ricordasse la sua partenza ma il suo ritorno, il Cappellaio potrebbe svegliarsi, non ti sembra? »

Dorothy guardò il gatto severamente. « Ma non è possibile ricordare le cose di domani e non quelle di ieri: il cervello non funziona così. »

« Ah » e all’improvviso il gatto smise di sorridere, guardandola con occhi colmi di sorpresa. « Ora sembri molto più Alice che non Dorothy Gale. Ma temo che questo non basterà a svegliare il Cappellaio; non sei ancora Alice, non sei lei. »

Ma Dorothy non lo ascoltava quasi più – tutto quel parlare di ricordi e di cervelli le aveva riportato alla mente il viso ruvido e sorridente dello Spaventapasseri.

Posò la tazza ancora piena per metà e accarezzò tristemente Totò, ancora rannicchiato sul suo grembo. Non le importava di questa Alice, e non poteva fare nulla per il Cappellaio; non le serviva sapere che la strada di mattoni rossi finiva in un mondo che non era né il Kansas né Oz davanti ad un tavolo dove il tempo era morto ma il tè era ancora caldo.

« Voglio andare via » sussurrò, bagnando il pelo di Totò di un’ultima lacrima. « Non è qui che voglio stare. Era la strada sbagliata, quella; questo non è il mio posto. »

Il gatto la guardò in silenzio per un istante, quindi si sollevò leggero in aria e le lambì una guancia con la lingua umida.

« Non puoi sapere se una strada è sbagliata se prima non sai dove vuoi andare, Dorothy Gale. »

Dorothy lo fissò. Ci pensò su. Dove voleva andare, lei?

Per lasciare Oz aveva dovuto capire che nessun posto era bello come casa sua. Ma se oggi sognava queste cose – se tutto, in qualche modo, continuava a farla pensare al suo Spaventapasseri e al suo profumo di paglia e al suo abbraccio morbido quando l’aveva lasciata andare via, allora forse voleva dire che casa sua era un pochino anche il Regno di Oz.

Il gatto sorrise di nuovo al suo lungo silenzio, e si ritrasse ancora verso il tavolo. Dorothy lo vide disgregarsi e riformarsi dall’altra parte del tavolo, al fianco del Cappellaio addormentato che forse in quel momento sognava la sua Alice. Il gatto prese delicatamente tra le zampe la teiera che il Cappellaio teneva tra le mani, avendo cura di non fargli cambiare posizione, e poi tornò indietro in un altro sbuffo di fumo a porgerla a Dorothy.

« Buon viaggiavvederci, Dorothy Gale. »

Quando sollevò il coperchio, Dorothy ebbe appena il tempo di vedere un baluginio rosso sul fondo, prima che una forza irrefrenabile l’attirasse in avanti, in giù, facendola cadere e cadere e cadere forse per miglia nel buio senza fondo, e Totò con lei; e l’unica luce era una mezzaluna che in realtà era il sorriso del gatto.

 

 

« Dorothy, di’ qualcosa! Dorothy! Dorothy! Sveglia! »

Aprì gli occhi alla luce del sole e si ritrovò nel giardino di zio Henry, semidistesa con la schiena contro un albero, con Totò accucciato al fianco ed il viso preoccupato di Hunk a poca distanza dal suo.

« Grazie al cielo stai bene! » Il contadino cercò di assumere un tono severo, ma la ragazza lo conosceva troppo bene per non vedere quanto fosse sconvolto. « Di’ un po’, quante volte ti ho detto di non addormentarti sui rami degli alberi, eh? Eh? Quante? »

Dorothy iniziava a ricordare vagamente di essersi seduta lassù a guardare l’amico lavorare, prima che il sonno la cogliesse di sorpresa. Sospirò.

« Tantissime, Hunk » gli concesse.

« Innumerevoli! » Hunk allargò le braccia e gesticolò furioso, e Dorothy fece fatica a reprimere un sorriso triste; ogni suo cenno, ogni suo minimo movimento le ricordava l’esuberante vivacità del suo Spaventapasseri… « Lo sai che è pericoloso. Difatti sei caduta e hai battuto la testa. Ce n’è voluto di tempo perché ti svegliassi! Poi chi glielo racconta a tua zia che ti sei fatta male perché non hai voluto ascoltarmi? Io no di certo! Che diavolo hai al posto del cervello, non lo capirò mai. Dai, dammi la mano. »

L’aiutò ad alzarsi, e stavolta lei poté abbassare gli occhi in tempo per non mostrargli il lampo di ricordo di una voce che diceva ‘solo paglia’.

« Mi dispiace. Mi sono addormentata senza neppure rendermene conto. Sto bene, Hunk, non preoccuparti per me. »

« Preoccuparmi? E chi ti dice che io mi sia preoccupato? » sbuffò Hunk, per poi fulminarla con i suoi occhi azzurri e sibilarle la verità. « Mi hai fatto morire di paura, va bene? »

Dorothy non poté fare a meno di ridere. « Questa è più una frase da Leone Codardo che non da Spaventapasseri. »

Hunk la guardò attonito. « E adesso di cosa accidenti stai parlando? »

« Oh… » Lei scosse in fretta la testa. « Niente, niente. Non farci caso. Ti ho detto che sto bene. »

« Sarà » fece Hunk, grattandosi pensoso una tempia, « ma a me sembra che tu abbia battuto la testa un po’ troppo forte. » Di colpo le sorrise, quindi si mosse per allontanarsi. « Beh, io torno al lavoro. Tu sta’ buona e cerca di non combinare altri guai, se non vuoi ritrovarti il mio povero cuore sulla coscienza. Capito? »

Questa invece era più una frase da Boscaiolo di latta, rifletté Dorothy sorridendo; ma non disse nulla mentre lo guardava uscire dal giardino e tornare ad occuparsi dell’orto.

Non era sempre così facile fingere allegria con Hunk. Lui capiva sempre quando qualcosa la turbava; la conosceva troppo a fondo, ed era troppo simile allo Spaventapasseri, per non preoccuparsi sempre che lei stesse bene. Dorothy gli era grata di costituire nella sua realtà quel filo sottile che rendeva vivido Oz – che si trattasse di un sogno o di un ricordo, poco importava; Hunk c’era, e anche grazie a lui, lei non dimenticava lo Spaventapasseri. Però qualche volta faceva davvero troppo male sapere che non avrebbe più potuto percorrere il lungo sentiero dorato con i suoi amici, stretta al braccio di quel fantoccio di paglia che si credeva stupido e che senza saperlo le aveva fatto battere forte il cuore per la prima volta.

Non avrebbe mai potuto dimenticarlo. Così come il Cappellaio del suo ultimo, strano sogno non avrebbe dimenticato quella sua Alice… Non si può dimenticare un pezzettino della propria casa. Chissà se il gatto sorridente aveva capito, alla fine.

« Siamo di nuovo tornati indietro, Totò » disse piano; e poi sollevando lo sguardo: « Oh, guarda! C’è l’arcobaleno! »

Alla vista di quella volta colorata la grigia campagna del Kansas parve rifulgere un po’ di più agli occhi di Dorothy, anche se non sarebbe mai stata splendente quanto il Regno di Oz. Stava ancora sorridendo a quel piccolo miracolo nel cielo coperto quando Totò richiamò la sua attenzione, abbaiando forte.

« Cosa c’è, Totò? Che ti succede? »

Quando vide che il cagnolino puntava ai suoi piedi, Dorothy abbassò lo sguardo e rimase sbalordita nel vedere che questi calzavano le scarpette rosse, quelle della Strega dell’Est, quelle che l’avevano riportata a casa e che erano state l’unico legame tra Oz ed il Kansas.

In un solo secondo fu sopraffatta da due consapevolezze: ecco cos’era lo scintillio rosso sul fondo della teiera del Cappellaio – ed ecco la prova che non aveva mai sognato.

Dorothy guardò a lungo le scarpette, poi Totò, poi Hunk che lavorava e fischiettava nell’orto, e poi ancora l’arcobaleno. Se faceva molta, molta attenzione, riusciva quasi a vedere al di là di quei sette colori le guglie verdi della Città di Smeraldo, dove il suo Spaventapasseri l’attendeva con il sorriso di sempre.

Qualunque cosa avesse deciso di fare adesso – beh, alla fine quella di mattoni rossi si era rivelata essere la strada giusta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Credits e annotazioni

- Il sottotitolo corrisponde alla battuta “Tuttavia è difficile seguire le due strade insieme” che lo Spaventapasseri rivolge a Dorothy ne Il mago di Oz;

- I versi iniziali sono tratti da Boulevard of Broken Dreams dei Green Day;

- Nel Paese dei Mastichini c’è davvero una strada di mattoni rossi, che in parte si dipana proprio attorno al sentiero dorato, e che si può notare nella scena in cui Dorothy comincia il suo viaggio per la Città di Smeraldo;

- La prima frase pronunciata da Dorothy richiama la sua battuta nel film: “Totò, ho l’impressione che non siamo più nel Kansas”;

- La prima frase dello Stregatto sulle strade è liberamente ispirata dalla versione Disney di Alice nel Paese delle Meraviglie, e l’ho utilizzata perché richiama in qualche modo le frasi che invece lo Spaventapasseri ne Il mago di Oz pronuncia nel dare le sue particolarissime indicazioni a Dorothy all’incrocio;

- Nel film non viene specificato che fine fanno le scarpette rosse dopo che Dorothy le ha usate per tornare a casa. Il fatto che si trovino a Sottomondo è ovviamente licenza poetica. Come tutto il resto, d’altronde. :P

 

 

Note (ultime) dell’autrice

Ecco che si conclude la raccolta. Parecchie volte, guardando il film, ho ridacchiato pensando a cosa sarebbe successo se Dorothy avesse dovuto seguire il sentiero rosso invece che quello dorato, e dove fosse mai finita; grazie al contest di Fabi_ ho avuto modo di fangirlarci un po’ sopra. Spero soprattutto di aver reso più o meno bene lo Stregatto, perché lo adoro e mi stirerei le mani come Dobby se mi diceste che è OOC .__. Cosa che mi preoccupa molto, in effetti. Che ne dite, accendo il ferro? x’D

Ancora una volta grazie a chiunque abbia letto questi tre capitoli. God bless you all.

Alla prossima storia <3

Aya ~






   
 
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