Ultimo atto ~ La
strada giusta
;; some people do go both ways ;;
{ I walk this empty street on the boulevard of broken dreams
Where the city sleeps and I’m the only one, and I walk alone }
Doveva
essere uno di quei sogni in cui fai di tutto per andare in una direzione, ma i
tuoi piedi ti portano inesorabilmente a prenderne un’altra. Dorothy era
consapevole di star sognando – perché, se si fosse veramente ritrovata di colpo nel Regno
di Oz, non avrebbe mai percorso la strada di mattoni
rossi.
Nel
paese dei Mastichini c’erano due sole strade,
che si dipanavano come nastri dal cuore del villaggio: una era rossa, e lei non
aveva mai saputo dove andasse a finire; l’altra, naturalmente, era il
lungo sentiero dorato che conduceva dritto alla Città di Smeraldo, nel
centro esatto del regno. Era quella la strada su cui Dorothy aveva vissuto
tante avventure, alcune pericolose ed altre esilaranti, e aveva conosciuto i
migliori amici che avrebbe mai sperato di avere – tra i quali lo
Spaventapasseri, il suo
Spaventapasseri, che le mancava più di tutti, proprio come lei aveva
temuto e gli aveva sussurrato quando lo aveva salutato con quel bacio. Era
perciò la strada dorata che Dorothy avrebbe ripercorso; sarebbe tornata
sui suoi passi, sarebbe andata a trovare i suoi amici, e avrebbe finalmente
rivisto il suo amico di paglia e stracci che ogni giorno rivedeva nel viso di Hunk e che ogni volta la portava suo malgrado a piangere di
nostalgia, nascondendo le lacrime in un fazzoletto ormai logoro perché Hunk non le vedesse e non si preoccupasse per lei.
A
Dorothy non importava nulla della strada rossa. Per lei contavano solo il lungo
sentiero dorato e i posti che toccava: come il campo di grano. Per questo
motivo doveva essere un sogno – e mentre lo pensava la strada rossa la
portava inesorabilmente avanti, attraverso un bosco strano, meno spaventoso di
quello che circondava il castello della Strega dell’Ovest, ma non per
questo meno inquietante.
«
Totò, ho l’impressione che non siamo più ad Oz. »
I
piedi di Dorothy, che oggi forse non sarebbero più entrati tanto
facilmente nelle scarpette rosse e che però ancora un pochino le
rimpiangevano, continuavano a muoversi in totale indipendenza dalla sua
volontà. La ragazza stringeva Totò tra le braccia; perché
Totò non l’abbandonava mai, neppure in sogno, e Dorothy non voleva
rischiare di perderlo di vista in quel posto strano che sembrava completamente
diverso dal mondo colorato che ricordava. Di nessuna delle piante che vedeva avrebbe
saputo dire il nome, così come molti dei versi degli uccelli le
suonavano estranei. Oh, quanto sarebbe stato rassicurante se insieme a lei e a
Totò ci fosse stato il Boscaiolo di latta a confortarla con il suo buon
cuore, o il Leone che con il suo nuovo coraggio avrebbe potuto farla sentire
meglio – oppure semplicemente lui,
il suo Spaventapasseri, terrorizzato e tremante ma ben deciso a proteggerla,
come aveva sempre fatto, sempre,
persino davanti al fuoco.
Camminando
con Totò in braccio, Dorothy sollevò una mano e si asciugò
una lacrima dispettosa all’angolo dell’occhio. Doveva smetterla di
pensare allo Spaventapasseri. Ogni giorno che passava il suo ricordo diventava
un po’ più doloroso, eppure non sbiadiva mai – e lo zio e la
zia si ostinavano a dire che Dorothy aveva sognato tutto! Se così fosse
stato, non avrebbe fatto tanto male. No?
A
poco a poco il bosco iniziò a diradarsi, finché la strada rossa
sfociò in una radura su cui si affacciava un mulino cadente – un mulino in una radura? – e
andò a morire di fronte a quella che sembrava una tavola imbandita per
una cerimonia del tè.
La
cosa si faceva sempre più bizzarra. Ma quell’unico viaggio di
Dorothy ad Oz, reale o meno che fosse stato,
l’aveva in qualche modo abituata alle cose bizzarre; così fu con
una certa curiosità che la ragazza seguì i propri passi fin
proprio alla fine della strada di mattoni rossi.
Era
davvero una tavolata pronta per il
tè, ma in qualche modo era anche qualcosa di assolutamente insensato.
Molte tazze erano rotte. I vassoi erano quasi tutti scheggiati e vuoti, e quel
poco che c’era da mangiare sembrava andato a male da anni. Un po’
dappertutto sulle tovaglie sbiadite si vedevano foglie portate certamente dal
vento e che nessuno si era curato di spazzare via. Quanto poi all’uomo
seduto all’estremità opposta della tavolata, lontano, con
l’enorme cappello a cilindro a nascondergli la parte superiore del volto
– era profondamente addormentato, e qualcosa di lui, chissà
perché, dava l’impressione che non si svegliasse da molto tempo.
Strano,
stranissimo. Forse il cervello che il mago aveva donato allo Spaventapasseri
sarebbe stato in grado di trovare un senso a quella…
Ma
a quel pensiero Dorothy si intristì nuovamente. E dal momento che questa
volta non pensava di potersi trattenere, e considerando che quella cerimonia
cui partecipava un solo uomo addormentato non si sarebbe certo interrotta a
causa sua, si disse che forse poteva sedersi un attimo e permettersi di
piangere un po’, davvero, soltanto
un po’.
Lasciò
andare Totò, che corse ad annusare circospetto la più vicina
gamba del tavolo; quindi si lasciò cadere su una poltrona
dall’aspetto invitante nonostante le tracce evidenti di disuso e
posò il capo tra le braccia, rifugiandosi tra poche tazzine sbeccate che
non sarebbero riuscite né a nascondere né a contenere le sue
lacrime.
Era
passato del tempo, e Dorothy ora era cresciuta abbastanza da riuscire ad
intuire perché il suo
Spaventapasseri le mancasse così tanto. Già in quel giorno
lontano in cui lo aveva fatto scendere dal palo e aveva proseguito la strada
con lui, e quando erano passati dal prato degli alberi permalosi e lui aveva
architettato quello stratagemma perché fossero loro stessi a gettare
alla ragazzina le mele che le avevano negato, e quando poi lui le aveva dichiarato
che l’avrebbe condotta sana e salva dal Mago di Oz
anche se la Strega dell’Ovest aveva minacciato di trasformarlo in un
materasso – già in quei momenti, lei sapeva che lo Spaventapasseri, con quei suoi modi gentili e
premurosi, con quel suo sorrisone un po’ sciocco ma contagioso, si stava
scavando un posticino tutto speciale nel suo cuore. All’inizio era
prevalso il bisogno di aiutarlo, di procurargli il cervello che voleva e
così vederlo felice; ma a poco a poco si era resa conto di quanto lei stessa fosse felice insieme a lui,
di quanto la facesse ridere e di quanto fossero dolci i suoi continui tentativi
di aiutarla in ogni modo: sostenendola nel campo dei papaveri avvelenati o
anche soltanto asciugandole le lacrime di fronte alla porta chiusa del Mago.
Lui le sarebbe mancato più di
tutti, gli aveva detto. E si era rivelata essere la verità. E oggi,
ogni volta che si soffermava a guardare Hunk lavorare
i campi della fattoria di zio Henry ed ogni volta che lui alzava gli occhi e le
sorrideva, perdendosi nella sua somiglianza con il suo Spaventapasseri Dorothy
non riusciva a non pensare che forse, lei, dello Spaventapasseri si era…
«
Bambina, perché piangi? »
Al
suono di quella voce dolce e calda come la cioccolata di zia Emma, Dorothy
sollevò in fretta la testa dal tavolo – e restò a guardare
a bocca aperta il gatto che le fluttuava davanti con un sorriso enorme stampato
sul muso.
Da
qualche parte ai suoi piedi, sentiva Totò ringhiare, ma piano, come se
anche lui per ora si stesse limitando a valutare quella strana creatura.
Sì,
questa era la prova: era decisamente un sogno. I gatti non sorridevano, non
parlavano e neppure fluttuavano.
Neanche quelli del Regno di Oz.
Il
felino inclinò la grossa testa con un movimento pieno di umana
curiosità, e continuò a fissarla con quegli occhi liquidi e
straordinariamente espressivi. Ripeté la domanda, ignorando a bella
posta il ringhio sospettoso di Totò.
«
Perché piangi? Forse ti sei persa? »
Dorothy
strinse le labbra. Sì, si era persa qualche pezzettino del suo cuore in
un altro mondo che forse aveva soltanto sognato. Anche se aveva scelto di
tornare a casa, si era persa lo
stesso. E adesso ci si era messo anche questo nuovo sogno di mezzo, a
ricordarle quanto faceva male.
«
Ho seguito la strada sbagliata » mormorò in risposta, accennando
ai mattoni rossi che si interrompevano bruscamente nell’erba alle sue
spalle.
Il
sorriso del gatto si allargò; sembrava avere molti più denti di
un essere umano, o anche solo di un gatto normale. « Oh, è un
problema piuttosto comune. Alcuni vanno di qua, altri di là, altri
cercano scorciatoie… È estremamente
facile seguire la strada sbagliata, dal momento che nessuno ha una strada tutta
sua; non sei d’accordo? »
Quelle
parole le riportarono inevitabilmente alla mente le assurde indicazioni che qualcun altro, tanto tempo prima, le
aveva dato dalla cima di un palo indicandole alternativamente una strada, poi l’altra, e poi le due
strade insieme.
Cercò
di sorridere, ma le lacrime si fecero più insistenti e finirono con lo
spegnerle la voce in gola.
«
Un mio amico una volta mi parlò in modo simile, quando io… »
Un
singhiozzo ingoiò il resto, e Dorothy rifugiò il viso tra le mani
e pianse senza più alcun ritegno. Totò le si accucciò ai
piedi, sotto il tavolo, ringhiando ancora all’indirizzo del gatto come se
lo considerasse il diretto responsabile della tristezza della sua padroncina.
«
Oh, mi vuoi forse dire che è questo tuo amico che sei venuta a cercare
qui? » Il gatto le svolazzò intorno lentamente, o almeno
così le parve sentendo la sua voce circondarla a poco a poco, insieme al
suono caldo e ronfante delle fusa. « Consolati, piccola. Tutti, prima o
poi, trovano ciò che stanno cercando. È così per tutti,
dappertutto, ed è stato così anche per la nostra Alice. Alice » e su quel nome il gatto
addolcì ancora il tono di voce, intensificando le fusa, passandole tanto
vicino che Dorothy sentì il suo morbido pelo sfiorarle la guancia,
« che peccato che Alice non sia tu. Se fossi tu il Cappellaio si
sveglierebbe; e invece continua a dormire. Non sei un’altra Alice, vero?
»
Sorpresa
suo malgrado, Dorothy alzò il viso e scosse lentamente la testa. «
No, non mi chiamo affatto Alice. Io sono Dorothy, Dorothy Gale. »
«
Dorothy Gale? » Il gatto annuì con aria saggia, fluttuando di
nuovo verso il centro del tavolo e continuando a guardarla con quel sorriso
luminoso. « Sì, non potevi essere Alice. È un vero peccato.
Sarebbe stato tutto più semplice se fossi stata tu Alice; tu riesci
evidentemente a credere anche a più di sei cose impossibili, mentre
l’ultima volta che Alice è stata qui continuava a dire di volersi
svegliare. Che peccato, che peccato. Il Cappellaio continuerà a dormire,
temo. Gradisci una tazza di tè? »
Muovendo
le zampe come fossero mani, il gatto aveva proseguito il suo discorso sibillino
versando nel contempo un liquido ambrato dall’odore alquanto forte in una
delle tazze sbeccate disposte dinanzi a Dorothy, ed ora gliela tendeva con il
suo bravo piattino, come avrebbe fatto un perfetto cameriere. Dorothy lo
guardò stupita. Lanciò un’occhiata a Totò e vide che
anche lui pareva stupefatto di fronte a quella strana creatura; aveva persino
smesso di ringhiare. Senza neppure riflettere, la ragazza tirò su col
naso, accettò il tè e lo bevve a sorsi brevi: era bollente, anche
se – a giudicare dalle sue impressioni e dalle parole del gatto –
doveva essere lì pronto su quel tavolo da molto tempo.
«
Devi scusare il Cappellaio se sono io a fare gli onori di casa »
miagolò il suo ospite, rivolgendo il suo sorriso sornione all’uomo
seduto una ventina di sedie e poltrone più in là. « Come
vedi, in questo momento non è al massimo delle sue forze. »
Dorothy
osservò a sua volta l’uomo che il gatto chiamava Cappellaio,
asciugandosi le guance e sentendo affiorare una lieve curiosità nei suoi
confronti – come nei confronti di tutto ciò che la circondava, e
che continuava a sembrarle un sogno assurdo, per quanto apparentemente realistico.
«
Che cosa gli è successo? » domandò al gatto.
Il
felino svanì in una nuvoletta di fumo, ricomparve al suo fianco e riprese
a fare le fusa, ‘impastandole’ sul braccio, come facevano i gatti
normali di tutti i mondi. Totò emise un altro basso ringhio di
avvertimento e saltò sulle ginocchia di Dorothy, pronto ad ogni
evenienza.
«
Il Tempo è morto » spiegò il gatto, « sin dal momento
in cui Alice ha lasciato Sottomondo. Da allora il Cappellaio si è
ammalato di tristezza. Si è seduto qui al tavolo ad aspettare che Alice
tornasse; ma Alice non tornava, non tornava mai, e intanto il Tempo moriva e
gli amici non venivano più a prendere il tè con lui, e il
Cappellaio cominciava ad aver sonno. Una volta si è addormentato, e da
allora non ha più aperto gli occhi. »
Dorothy
guardò dal gatto all’uomo con il cilindro sugli occhi, spaventata.
« E da quanto tempo dorme? »
«
Non hai ascoltato le mie parole, Dorothy Gale? Il Tempo è morto. Alice
se n’è andata e non è passato neanche un minuto, neanche un
secondo. Brutto, vero? Ed è molto triste che il Cappellaio si ricordi
ancora di lei. È una ben povera memoria quella che funziona solo all’indietro;
si dovrebbero ricordare le cose di domani per essere felici oggi. Se non
ricordasse la sua partenza ma il suo ritorno, il Cappellaio potrebbe
svegliarsi, non ti sembra? »
Dorothy
guardò il gatto severamente. « Ma non è possibile ricordare
le cose di domani e non quelle di ieri: il cervello non funziona così.
»
«
Ah » e all’improvviso il gatto smise di sorridere, guardandola con
occhi colmi di sorpresa. « Ora sembri molto più Alice che non
Dorothy Gale. Ma temo che questo non basterà a svegliare il Cappellaio;
non sei ancora Alice, non sei lei. »
Ma
Dorothy non lo ascoltava quasi più – tutto quel parlare di ricordi
e di cervelli le aveva riportato alla mente il viso ruvido e sorridente dello
Spaventapasseri.
Posò
la tazza ancora piena per metà e accarezzò tristemente
Totò, ancora rannicchiato sul suo grembo. Non le importava di questa
Alice, e non poteva fare nulla per il Cappellaio; non le serviva sapere che la
strada di mattoni rossi finiva in un mondo che non era né il Kansas
né Oz davanti ad un tavolo dove il tempo era
morto ma il tè era ancora caldo.
«
Voglio andare via » sussurrò, bagnando il pelo di Totò di
un’ultima lacrima. « Non è qui che voglio stare. Era la
strada sbagliata, quella; questo non è il mio posto. »
Il
gatto la guardò in silenzio per un istante, quindi si sollevò
leggero in aria e le lambì una guancia con la lingua umida.
«
Non puoi sapere se una strada è sbagliata se prima non sai dove vuoi
andare, Dorothy Gale. »
Dorothy
lo fissò. Ci pensò su. Dove
voleva andare, lei?
Per
lasciare Oz aveva dovuto capire che nessun posto era
bello come casa sua. Ma se oggi sognava queste cose – se tutto, in qualche modo, continuava a
farla pensare al suo Spaventapasseri e al suo profumo di paglia e al suo
abbraccio morbido quando l’aveva lasciata andare via, allora forse voleva
dire che casa sua era un pochino anche il Regno di Oz.
Il
gatto sorrise di nuovo al suo lungo silenzio, e si ritrasse ancora verso il
tavolo. Dorothy lo vide disgregarsi e riformarsi dall’altra parte del
tavolo, al fianco del Cappellaio addormentato che forse in quel momento sognava
la sua Alice. Il gatto prese delicatamente tra le zampe la teiera che il
Cappellaio teneva tra le mani, avendo cura di non fargli cambiare posizione, e
poi tornò indietro in un altro sbuffo di fumo a porgerla a Dorothy.
«
Buon viaggiavvederci, Dorothy Gale. »
Quando
sollevò il coperchio, Dorothy ebbe appena il tempo di vedere un
baluginio rosso sul fondo, prima che una forza irrefrenabile l’attirasse
in avanti, in giù, facendola cadere e cadere e cadere forse per miglia
nel buio senza fondo, e Totò con lei; e l’unica luce era una
mezzaluna che in realtà era il sorriso del gatto.
«
Dorothy, di’ qualcosa! Dorothy! Dorothy!
Sveglia! »
Aprì
gli occhi alla luce del sole e si ritrovò nel giardino di zio Henry,
semidistesa con la schiena contro un albero, con Totò accucciato al
fianco ed il viso preoccupato di Hunk a poca distanza
dal suo.
«
Grazie al cielo stai bene! » Il contadino cercò di assumere un
tono severo, ma la ragazza lo conosceva troppo bene per non vedere quanto fosse
sconvolto. « Di’ un po’, quante volte ti ho detto di non
addormentarti sui rami degli alberi, eh? Eh? Quante? »
Dorothy
iniziava a ricordare vagamente di essersi seduta lassù a guardare
l’amico lavorare, prima che il sonno la cogliesse di sorpresa.
Sospirò.
«
Tantissime, Hunk » gli concesse.
«
Innumerevoli! » Hunk allargò le braccia
e gesticolò furioso, e Dorothy fece fatica a reprimere un sorriso
triste; ogni suo cenno, ogni suo minimo movimento le ricordava l’esuberante
vivacità del suo Spaventapasseri…
« Lo sai che è pericoloso. Difatti sei caduta e hai battuto la
testa. Ce n’è voluto di tempo perché ti svegliassi! Poi chi
glielo racconta a tua zia che ti sei fatta male perché non hai voluto
ascoltarmi? Io no di certo! Che diavolo hai al posto del cervello, non lo
capirò mai. Dai, dammi la mano. »
L’aiutò
ad alzarsi, e stavolta lei poté abbassare gli occhi in tempo per non
mostrargli il lampo di ricordo di una voce che diceva ‘solo paglia’.
«
Mi dispiace. Mi sono addormentata senza neppure rendermene conto. Sto bene, Hunk, non preoccuparti per me. »
«
Preoccuparmi? E chi ti dice che io mi sia preoccupato? » sbuffò Hunk, per poi fulminarla con i suoi occhi azzurri e
sibilarle la verità. « Mi hai fatto morire di paura, va bene? »
Dorothy
non poté fare a meno di ridere. « Questa è più una
frase da Leone Codardo che non da Spaventapasseri. »
Hunk la
guardò attonito. « E adesso di cosa accidenti stai parlando?
»
«
Oh… » Lei scosse in fretta la testa.
« Niente, niente. Non farci caso. Ti ho detto che sto bene. »
«
Sarà » fece Hunk, grattandosi pensoso
una tempia, « ma a me sembra che tu abbia battuto la testa un po’
troppo forte. » Di colpo le sorrise, quindi si mosse per allontanarsi.
« Beh, io torno al lavoro. Tu sta’ buona e cerca di non combinare
altri guai, se non vuoi ritrovarti il mio povero cuore sulla coscienza. Capito?
»
Questa
invece era più una frase da Boscaiolo di latta, rifletté Dorothy
sorridendo; ma non disse nulla mentre lo guardava uscire dal giardino e tornare
ad occuparsi dell’orto.
Non
era sempre così facile fingere allegria con Hunk.
Lui capiva sempre quando qualcosa la turbava; la conosceva troppo a fondo, ed
era troppo simile allo Spaventapasseri,
per non preoccuparsi sempre che lei stesse bene. Dorothy gli era grata di
costituire nella sua realtà quel filo sottile che rendeva vivido Oz – che si trattasse di un sogno o di un ricordo,
poco importava; Hunk c’era, e anche grazie a
lui, lei non dimenticava lo Spaventapasseri. Però qualche volta faceva
davvero troppo male sapere che non avrebbe più potuto percorrere il
lungo sentiero dorato con i suoi amici, stretta al braccio di quel fantoccio di
paglia che si credeva stupido e che senza saperlo le aveva fatto battere forte
il cuore per la prima volta.
Non
avrebbe mai potuto dimenticarlo. Così come il Cappellaio del suo ultimo,
strano sogno non avrebbe dimenticato quella sua Alice…
Non si può dimenticare un pezzettino della propria casa. Chissà
se il gatto sorridente aveva capito, alla fine.
«
Siamo di nuovo tornati indietro, Totò » disse piano; e poi
sollevando lo sguardo: « Oh, guarda! C’è l’arcobaleno!
»
Alla
vista di quella volta colorata la grigia campagna del Kansas parve rifulgere un
po’ di più agli occhi di Dorothy, anche se non sarebbe mai stata
splendente quanto il Regno di Oz. Stava ancora
sorridendo a quel piccolo miracolo nel cielo coperto quando Totò
richiamò la sua attenzione, abbaiando forte.
«
Cosa c’è, Totò? Che ti succede? »
Quando
vide che il cagnolino puntava ai suoi piedi, Dorothy abbassò lo sguardo
e rimase sbalordita nel vedere che questi calzavano le scarpette rosse, quelle della Strega dell’Est, quelle che
l’avevano riportata a casa e che erano state l’unico legame tra Oz ed il Kansas.
In
un solo secondo fu sopraffatta da due consapevolezze: ecco cos’era lo
scintillio rosso sul fondo della teiera del Cappellaio – ed ecco la prova
che non aveva mai sognato.
Dorothy
guardò a lungo le scarpette, poi Totò, poi Hunk
che lavorava e fischiettava nell’orto, e poi ancora l’arcobaleno.
Se faceva molta, molta attenzione, riusciva quasi a vedere al di là di
quei sette colori le guglie verdi della Città di Smeraldo, dove il suo
Spaventapasseri l’attendeva con il sorriso di sempre.
Qualunque
cosa avesse deciso di fare adesso – beh, alla fine quella di mattoni
rossi si era rivelata essere la strada giusta.
Credits e annotazioni
- Il sottotitolo corrisponde alla
battuta “Tuttavia è difficile seguire le due strade insieme”
che lo Spaventapasseri rivolge a Dorothy ne Il
mago di Oz;
- I versi iniziali sono tratti da Boulevard of Broken Dreams dei Green Day;
- Nel Paese dei Mastichini
c’è davvero una strada di mattoni rossi, che in parte si dipana
proprio attorno al sentiero dorato, e che si può notare nella scena in
cui Dorothy comincia il suo viaggio per la Città di Smeraldo;
- La prima frase pronunciata da Dorothy
richiama la sua battuta nel film: “Totò, ho l’impressione
che non siamo più nel Kansas”;
- La prima frase dello Stregatto sulle strade è liberamente ispirata dalla
versione Disney di Alice nel Paese delle
Meraviglie, e l’ho utilizzata perché richiama in qualche modo
le frasi che invece lo Spaventapasseri ne Il
mago di Oz pronuncia nel dare le sue
particolarissime indicazioni a Dorothy all’incrocio;
- Nel film non viene specificato che fine
fanno le scarpette rosse dopo che Dorothy le ha usate per tornare a casa. Il
fatto che si trovino a Sottomondo è ovviamente licenza poetica. Come
tutto il resto, d’altronde. :P
Note
(ultime) dell’autrice
Ecco che si conclude la raccolta. Parecchie
volte, guardando il film, ho ridacchiato pensando a cosa sarebbe successo se
Dorothy avesse dovuto seguire il sentiero rosso invece che quello dorato, e
dove fosse mai finita; grazie al contest di Fabi_ ho
avuto modo di fangirlarci un po’ sopra. Spero soprattutto
di aver reso più o meno bene lo Stregatto, perché
lo adoro e mi stirerei le mani come Dobby se mi
diceste che è OOC .__. Cosa che mi preoccupa molto, in effetti. Che ne
dite, accendo il ferro? x’D
Ancora una volta grazie a chiunque
abbia letto questi tre capitoli. God bless you all.
Alla prossima storia <3
Aya ~