THOMAS FOSTER, STORIA DI UN VAMPIRO.
Capitolo I: “Fra le strade di Londra”
Le tenui luci dei lampioni illuminavano
fiocamente le strade semibuie di un quartiere londinese. L'aria
gelida di quella notte di dicembre penetrava nelle ossa, provocando
brividi lungo la spina dorsale. Almeno così mi ricordavo che dovesse
essere pressapoco la sensazione del freddo.
Il cielo risplendeva immobile di tutte
le sue stelle, le quali avrebbero probabilmente lasciato il posto al
grigio delle nuvole la mattina seguente. Odiavo quel grigiore ma allo
stesso tempo ero costretto ad amarlo per necessità. Il silenzio
quasi sovrannaturale era rotto solamente dal rumore dei miei passi,
lenti, flemmatici, ma nel contempo decisi e sicuri.
Mi fermai di fronte ad una vetrina
illuminata ed entrai. Poggiai il sacco che avevo in spalla di fronte
una delle numerose lavatrici e, lentamente, vi buttai dentro la
biancheria da lavare impostando il programma idoneo. Sospirai stanco,
non nel corpo bensì nell'animo.
Scansai la ciocca nera che mi scendeva
costantemente sulla fronte, il movimento per ricondurla al suo posto
era diventato quasi automatico. Quei capelli che, insieme alle
sopracciglia e agli occhi neri come pece, mettevano in risalto il
pallore spettrale del mio volto. Mi tolsi la giacca nera del completo
che avevo indosso e arrocciai le maniche della camicia bianca fino
sopra il gomito.
Accesi una sigaretta mentre aspettavo
la fine del lavaggio. Magari quell'involucro cilindrico di tabacco
avesse potuto uccidermi... ma non poteva, purtroppo.
Il ticchettio dell'orologio a
muro scandiva, in periodiche nicchie di tempo, il silenzio
che mi avvolgeva come un manto di impenetrabile oscurità. Ogni
singolo ticchettio turbava il mio temporaneo e fragile stato di
quiete. L'ultimo suono emesso da quell'irritante aggeggio fu il suo
infrangersi sul pavimento.
Meglio... molto meglio.
Udii di fronte a me il rumore delle
porte che si aprivano, una zaffata di profumo mi inebriò i sensi.
Divino odore di sangue, giovane,
fresco. Istantaneo l'impulso di soddisfare l'improvvisa sete che mi
assalì. Tuttavia quella sera non avevo intenzione di uccidere.
La guardai di sottecchi, una ragazza
bionda sui venticinque anni. Sentii i suoi occhi su di me, come non
capirla, il fascino che esercitavo su di lei era quasi irresistibile.
Allo stesso modo delle piante carnivore, che attirano a loro gli
insetti grazie all'odore che emanano, così io la attiravo a me.
Una piccola e docilissima preda che
veniva incontro alla migliore delle trappole: la seduzione.
Sperai, con non troppa convinzione, che
la ragazza decidesse di ascoltare l'ancestrale senso di pericolo che
avvertono le prede, quando nelle loro vicinanze si aggira un famelico
predatore.
Non lo fece:
“Strano trovare qualcuno qui a
quest'ora.” civettò rivolgendomi un sorriso.
Non volevo uccidere quella notte, non
uccidevo mai in quella data. Tuttavia la gola già mi ardeva
immaginando quel sangue succulento.
“Già...” le risposi alzando
leggermente gli occhi su di lei.
“Mi chiamo Johanna.”
“Johanna...” mormorai il suo nome.
Il lieve senso di vertigine che ebbe al suono armonioso delle mie
parole, quasi la fece cadere tra le mie braccia. E così sarebbe
stato in un’altra situazione, si sarebbe adagiata dolcemente fra la
stretta apparentemente innocua del mio corpo, con i sensi inebriati
dalla mia voce, totalmente alla mia mercé. Non quella sera, per ora
stavo solamente giocando con lei. Arrossì imbarazzata.
“Sei di queste parti?” mi domandò.
“Non proprio...” le risposi
continuando a tessere la mia tela, dalla quale non sarebbe più
potuta fuggire.
“Io vivo qui vicino, non ti ho mai
visto in questa lavanderia.”
“È da poco che sto qui.”
“Ah... quindi non sei di Londra?”
“In realtà si, ci sono nato. Ma era
un'altra Londra...” e comunque non vi ero rimasto molto.
Mia madre morì nel darmi alla luce e
mio padre la seguì sei anni più tardi. La depressione in cui era
caduto dopo la morte della moglie lo aveva in fine condotto ad
impiccarsi. Quella scena era tutt'ora vivida nella mia memoria,
seppure fossero passati quasi tre secoli. Riflettevo spesso
domandandomi come sarebbe andata, se la mia vita umana fosse iniziata
diversamente. In un'epoca in cui la borghesia stava lentamente
iniziando a prendere forma come ceto a sé, ma sarebbe passato del
tempo prima che l'aristocrazia cominciasse a sentirne il peso, la mia
sola fortuna fu di essere raccolto dalle caritatevoli braccia del
fratello di mio padre. Padre Philippe mi portò con sé e mi permise
di avere un'istruzione, un pasto caldo tutti i giorni ed un letto in
cui riposare la notte.
Johanna si schiarì la voce, mi riebbi
da quei pensieri.
“Bello il tuo anello,
un po' strano ma... bello.”
Assaporai l'ultimo tiro della sigaretta
e gettai il mozzicone a terra, schiacciandolo con il tallone.
“Si, è un regalo di molto tempo fa.”
“Deve essere molto vecchio, sembra
quasi di un'altra epoca!” esclamò affascinata dal rubino
incastonato al centro.
“È molto antico, ma dimmi, perché
sei in giro a quest'ora? Potresti incontrare tipi poco
raccomandabili. Ladri, stupratori, di questi tempi ogni angolo che
giri potrebbe essere l'ultimo.” l'ironia era la più bella maschera
dietro la quale celavo le mie vere intenzioni.
“Ho avuto le prove a teatro fino a
tardi. Domani sera andremo in scena”
“Davvero? Che cosa rappresentate?”
“Il fantasma dell'Opera”
Il suo odore di dolcissimo e succulento
nettare purpureo, mi rendeva difficile tirarla per le lunghe. Però,
bellissimo come sempre, l'agguato, il “corteggiamento” della
preda. Quella complicata danza intorno all'oggetto del desiderio era
ogni volta un piacere di cui godere fino in fondo. Il tutto
culminante nell'esplosione di piacere che era il sangue. L'esperienza
mi portava ad assaporare al massimo ogni attimo della caccia, a dare
valore ad ogni vita che avrei poi spezzato. In modo che ogni vittima
sarebbe rimasta impressa indelebilmente nella memoria: unica, a suo
modo speciale... Rimanemmo l'uno di fronte all'altra perdendo il
contatto con la realtà; lei perché completamente ammaliata dal mio
sguardo ed io perché totalmente insensibile allo scorrere del tempo.
Il segnale acustico che avvisava della
fine del lavaggio infranse quella sorta d' incantesimo.
Raccogliemmo ognuno le proprie cose,
non volevo lasciarmi scappare quella preda, dovevo trovare un modo...
“Ti andrebbe di venire a teatro
domani sera? Ho qui un biglietto per la platea, doveva venire mia
sorella ma è rimasta bloccata a
Northampton. Il suo bambino ha l'influenza.”
La fortuna girava dalla mia parte.
Avrei comunque trovato un modo per ucciderla, a costo di farle un
banalissimo agguato la notte successiva. Ma così era più
divertente, avrei assaporato meglio la preda. Presi la sacca con la
biancheria di nuovo pulita e la issai in spalla.
“Mi piacerebbe molto, ti ringrazio.
Però solamente se poi mi permetti di invitarti a cena e di
riaccompagnarti a casa.”
“Certo, speravo me lo chiedessi. A
proposito, non mi hai ancora detto come ti chiami..”
“Mi chiamo Thomas... A domani sera
allora.”
Mi porse il biglietto togliendolo dalla
tasca della giacca. Andai verso di lei e, mentre si avvicinava al mio
viso aspettandosi un bacio, presi il piccolo foglietto di carta e me
ne andai.
Era la notte fra il 12 ed il 13
dicembre. Molto tempo prima giurai che non avrei più ucciso in
quella data. Ero stato tentato dall'irresistibile odore del sangue ma
non avevo ceduto, tuttavia il banchetto con Johanna era solamente
rimandato di qualche ora.
Passai la giornata a leggere, era una
delle mie occupazioni preferite. Non amavo la compagnia, quella umana
mi risultava ben presto noiosa, forse perché troppo succulenta.
Quella di altri vampiri non mi entusiasmava più di tanto, avevano la
tendenza ad essere invadenti e poi, comunque sia, odiavo dover
condividere il cibo. La solitudine può essere capita ed apprezzata
solo quando si ha un'eternità per viverla.
Quella mattina osservando la libreria
avevo deciso di rileggere “Il fantasma dell'Opera”.
Il capolavoro di Leroux mi portava ad
esplorare le nicchie più segrete del celebre teatro di Parigi;
conoscevo a memoria ogni parola di quel libro, ma preferivo rileggere
quei polverosi volumi piuttosto che avventurarmi negli ultimi best
sellers. Sembrava una psicosi di massa la passione che era scaturita
negli ultimi anni per i vampiri. Predatori della notte ormai
dimenticati dalle loro stesse prede, entrati a far parte delle
creature di fantasia. Era irritante vedere ammirazione invece che
orrore, in molte facce di uomini o donne che stavano per morire sotto
la ferrea morsa dei miei canini. Proprio quest'ultima categoria di
illusi mi divertiva terrorizzare, prima di berne il sangue. Ero
crudele? Spietato?
Probabile, ogni cacciatore in fondo
gioca il ruolo del cattivo.
Mi accorsi che era quasi l'ora di
andare, il piccolo teatro si trovava a non molta distanza dalla mia
abitazione in Oxford Street. Un loft un po' spoglio, arredato con i
pochi oggetti dai quali non mi ero mai separato.
Mi vestii in modo elegante ma non
eccessivo. L'avrei portata a mangiare un hot-dog o qualcosa del
genere dopo lo spettacolo, adducendo qualche scusa per giustificare
il mio astenermi dal cenare.
Indossai una semplice camicia
azzurrina, una giacca e dei pantaloni scuri. Mi infilai al polso un
orologio dal quadrante grande, con un classico cinturino in pelle e
optai per degli occhiali da vista, naturalmente non graduati, con una
fine montatura nera. L'abbigliamento era uno dei miei tanti vezzi, se
ne devono avere molti quando si ha tempo libero in abbondanza e
parecchio denaro da spendere. Rimirai l'anello con il rubino color
sangue incastonato nel mezzo. Una smorfia mi attraversò il viso
al
riemergere dei ricordi che si collegavano a quell'oggetto. Scossi la
testa, decidendo di non attardarmi oltre, mi diressi verso la porta e
scesi in strada. Passai di fronte le innumerevoli vetrine di Oxford
Street senza degnarle di un' occhiata.
La via dello shopping. Originariamente
creata per separare la parte ricca dalla parte povera della città,
da sempre sede dei negozi più costosi. Mi infilai in una delle
traverse in direzione di Soho Square, attraversando il piccolo parco
sul quale vegliava giorno e notte la statua di Carlo II. Il sovrano
decapitato dal popolo in quella che si ricorda come la prima
insurrezione d'Inghilterra.
Il teatro era da quelle parti,
abbandonato a se stesso in un minuscolo vicolo buio. A lato
dell'entrata una vetrinetta incorniciava la locandina con i nomi
degli attori. La scritta grande al centro informava i passanti che
quella sera si sarebbe messa in scena una delle opere più famose in
assoluto: The Phantom of the Opera.
Porsi il biglietto al ragazzo
all'entrata e fui accompagnato al mio posto. Mi sedetti in una delle
poltroncine rosse tra le prime file e attesi l'inizio dello
spettacolo, dominando l'istinto di mordere la prima persona che mi
fosse capitata a tiro. Non bevevo sangue da più di una settimana e
la sete cominciava a diventare difficilmente sopportabile. Cercai di
ricordare l'odore di Johanna, rompere quel digiuno con il suo sangue
sarebbe stato idilliaco, non dovevo aspettare molto ormai, cos'è in
fondo qualche ora per un essere condannato all'eternità?
Mi gustai a pieno la discreta
rappresentazione di una delle mie opere preferite e attesi,
pazientemente, l'arrivo della mia preda alla fine dello spettacolo.
“Ciao!” mi salutò Johanna
baciandomi sulla guancia “sono contenta che sei venuto, allora dove
andiamo? Ho una fame da lupi.”
“Ti va un hot-dog? Prendiamo la metro
fino a Westminster e facciamo una passeggiata lungo il Tamigi.”
“Perfetto! Lì vicino c'è un posto
carinissimo dove possiamo berci una birra.”
Mi prese la mano e uscimmo dal teatro,
il suo odore era divino. Già in una situazione normale l'avrei
trovato irresistibile. In quel momento particolare in cui la sete mi
aggrediva come una belva feroce, capii che dovevo chiamare a raccolta
tutto il mio autocontrollo per trattenermi dal morderla nel primo
vicolo che mi fosse capitato a tiro.
Prendemmo la metro alla stazione di
Tottenham Court Road salendo sulla Northern line, la linea nera,
verso Embankment e da lì cambiammo sulla Circle, la linea gialla,
scendendo alla fermata successiva, Westminster. All'uscita della
metro il Big Ben si stagliò di fronte a noi come una visione. Mi
affascinava così tanto da trovarlo quasi ipnotico, quell'orologio mi
ricordava ogni volta quanto il tempo per me non avesse alcun
significato. Ero qualcosa di immobile in un mondo in cui tutto muta
costantemente. Attraversammo il Westminster Bridge godendo di uno dei
più bei panorami di Londra: a destra, alle nostre spalle si
stagliava il profilo illuminato della House of Parliament e del Big
Ben, e a sinistra, di fronte a noi il London Eye illuminato di una
splendente luce blu si rifletteva sul Tamigi.
“Un mio amico italiano che ha vissuto
a Londra per un paio d'anni mi ha detto che vivere qui ti fa sentire
al centro del mondo” osservò Johanna “per me è così normale...
sono nata qui e ci vivo da sempre. Tu hai viaggiato molto?”.
Sorrisi, erano più di trecento anni
che viaggiavo, tentando di scappare da qualcosa da cui nessuno può
fuggire: la rabbia, il rimorso, il rancore...
“Ho viaggiato molto si... e alla fine
sono tornato a Londra dopo tanto tempo.”
“Perché sei tornato? Ti mancava casa
tua?”
“Me ne sono andato da Londra che ero
troppo piccolo per ricordarla, è per quello che sono voluto tornare.
Curiosità diciamo.”
“Io non mi sono mai mossa da qui
invece” sospirò appoggiandosi al parapetto “vorrei vedere
Parigi, Vienna, Venezia... magari insieme ad una compagnia teatrale.
È il mio sogno...”
Osservai quei bellissimi occhi azzurri
perdersi sognanti verso il cielo “Quindi non sogni Hollywood o
Broadway?” le domandai. I sogni degli umani, quanto li invidiavo...
anche io sognavo molto tempo fa... un vampiro non ha sogni, per
assurdo è proprio l'eternità ad impedirglielo. La vita umana è
appesa ad un filo così sottile che un semplice soffio di vento può
farla precipitare nell'abisso. Loro lo sanno, proprio questa
consapevolezza di precarietà fa nascere nei cuori sogni
irraggiungibili e la speranza li rende quasi palpabili, li fa
sembrare sempre a portata di mano.
Il paradosso dell'eternità è che
soltanto chi non ne dispone può usufruirne veramente.
“Assolutamente no!” mi rispose lei
quasi indignata “non sogno la ribalta, vorrei semplicemente fare
ciò che amo, recitare. E vorrei esibirmi in giro per il mondo, tutto
qui.”
Povera Johanna, non sapeva ancora che
il suo sogno era destinato a non realizzarsi mai.
Ero perfettamente consapevole che il
mio delitto più grande non era spezzare vite, ma trascinare
nell'abisso della morte anche tutti i sogni e le speranze delle mie
vittime. Se avessi avuto un'anima avrebbe sicuramente bruciato
all'inferno.
“Beh, allora che ne pensi?” mi
chiese poco dopo aver ripreso a camminare lungo il ponte.
“Riguardo cosa?”
“Quello che ha detto il mio amico, ti
senti al centro del mondo? Oppure è così anche nelle altre città
in cui sei stato?”
Riflettei su quella domanda, il mio
punto di vista rispetto a molti dei luoghi in cui avevo trovato
dimora era fortemente mutato durante i miei tre secoli e più di
vita. Tuttavia una risposta del genere avrebbe potuto leggermente
turbarla.
“Non saprei” risposi infine
“dipende da te sentirti al centro oppure nel margine più buio del
mondo. Ma dimmi, il tuo amico come mai se ne è andato?”
“Gli mancava il sole. Il grigiore di
Londra lo deprimeva, io penso invece che ogni giornata di sole qui è
speciale, è più bella perché è rara. Tu che ne pensi?”
“La scarsità di sole è uno dei
motivi per cui apprezzo particolarmente questo posto”
Ci fermammo alla fine di Westminster
Bridge, di fronte un piccolo chiosco di hot-dog.
Le dissi che non avevo appetito e la
osservai finire il panino con una voracità che mi divertì. Almeno
lei aveva messo a tacere i morsi della fame, la mia sete invece si
faceva sempre più difficile da tenere a bada. Fui sul punto di
pentirmi di aver tirato il mio pasto tanto per le lunghe.
Ci fermammo poco più avanti, di fronte
ad un altro chiosco gestito da un ragazzo con dei lunghi capelli
rasta neri, Johanna ordinò una birra e subito dopo si divorò
letteralmente una crepes con la Nutella.
Mi stavo spazientendo, la via sotto il
London Eye, la ruota panoramica più grande d'Europa, era piena di
gente e tutta quell'abbondanza di sangue succulento mi faceva ardere
la gola come fuoco.
Mi concentrai sulla mia preda cercando
di recuperare il controllo. La presi per mano e proseguimmo fino
all'Hungerford Bridge, il ponte percorribile solo a piedi che
riconduceva sulla riva opposta, proprio di fronte la fermata della
metro di Embankment.
Era trascorsa un'ora da quando eravamo
usciti da teatro, le lancette del Big Ben segnavano le undici e
ventidue. Salimmo sulla metro e prendemmo la linea marrone, la
Bakerloo line, fino a Oxford Circus, a sole tre fermate da lì. Un
forte vento ci investì quando risalimmo gli scalini verso la
superficie, freddo da far gelare le ossa a giudicare dall'espressione
della mia preda.
Immaginai che a questo punto, se fossi
stato il personaggio di qualche stupido libro sui vampiri, lo
scrittore si sarebbe profuso in una lunga digressione su quanto
quella ragazza fosse diversa da tutte le altre che avessi mai ucciso.
Sul fatto che qualcosa di mai provato prima mi trattenesse
dall'affondare i miei denti nel suo collo, i miei occhi si sarebbero
persi nei suoi azzurri e limpidi come un ruscello d'acqua purissima
e... e chissà quali altre fantasie.
Gli umani ignorano cos'è veramente
essere un vampiro. La sete ti aggredisce come rovi di spine lungo
ogni centimetro del tuo corpo. Il minimo odore di sangue umano in
quelle situazioni ti manda in visibilio. Ogni capacità razionale
svanisce e rimane solo la sete, devastante come un incendio. Ti senti
pervadere da brividi di puro istinto predatore, il tuo corpo morto
non potrebbe essere più vivo che in quella situazione. Ogni capacità
sovrannaturale propria dei vampiri triplica di intensità, non si è
mai così veloci, così forti, così dannatamente scaltri come quando
si ha sete. Con gli anni si impara a gestire il proprio corpo, ci
vogliono secoli per riuscire a bilanciare il rapporto fra sete ed
autocontrollo.
Non bevevo sangue da una settimana e
mezzo. Johanna era là, l'unico motivo per cui non l'avevo ancora
uccisa era il fatto che volevo gustarmi quella meravigliosa preda
succulenta tranquillamente in casa mia, senza fretta. Probabilmente
non l'avrei uccisa subito, l'avrei svuotata poco a poco del suo
nettare vitale, beandomi di ogni goccia che fosse stillata dai fori
che miei canini avrebbero procurato sul suo corpo. Quel pensiero mi
procurò un fremito di eccitazione.
Tutto ciò fa di me un essere crudele?
Sono un vampiro, una creatura della
notte, un essere non più umano che si nutre del sangue delle sue
prede naturali. Ebbene si, probabilmente lo sono, ma ho provato sulla
mia pelle che vi sono esseri umani molto più malvagi.
“Terra chiama Thomas! Ci sei?” la
voce squillante della ragazza mi distolse improvvisamente da uno dei
miei numerosi voli pindarici.
“Si, ci sono” mi accorsi di essere
quasi arrivato all'angolo di casa mia “ti va di salire?” le
chiesi, forse in modo troppo diretto.
“Non lo so... forse è il caso che
torni a casa per questa sera...”
Fui attraversato da un impeto d'ira, mi
trattenni dal digrignare i denti per il disappunto. Avevo altri modi
per farle cambiare idea, mi sarebbe bastato continuare a parlare,
tergiversare e sfoderare l'arma infallibile del fascino su di lei per
indurla a salire. Ma non ne avevo voglia, ero stufo di continuare a
girarci intorno. Così feci una cosa che fino a qualche decennio
prima neanche mi sarei sognato, era per così dire “l'ultima
spiaggia”.
La baciai, le sue labbra calde sulle
mie gelide, il tocco delle sue mani sulla mia nuca e il cataclisma
che mi investì le membra urlandomi di morderla. Volevo il suo
sangue, volevo saziare la mia sete, subito, in quell'istante.
Allontanai il mio viso dal suo cercando di apparire il più normale
possibile.
“Sali su con me” le sussurrai e
com'era ovvio mi prese per mano e mi seguì.
L'ascensore dallo spazio angusto ci
condusse tra sinistri cigolii verso il piano più alto. Lei era mia
ormai, completamente soggiogata a me, lo vedevo dai suoi occhi, dal
suo sguardo. Introdussi la chiave nella toppa del grande portone di
legno nero che si spalancò di scatto, come spinto da un'improvvisa
folata di vento. Entrai, l'oscurità all'interno del loft era quasi
palpabile, mi avvolse come un mantello impenetrabile e mi sentii a
mio agio. La mia preda era in casa mia, indifesa, senza la minima
possibilità di salvezza. Attraversai l'ampio salone, le tende nere
spalancate per la notte lasciavano penetrare la debole luce esterna.
Non che qualche semplice raggio di sole avrebbe potuto uccidermi, una
delle falsità più grosse che giravano da secoli, la luce solare mi
rendeva semplicemente debole.
La guidai su per le scale, nel soppalco
che fungeva da camera da letto. Gli unici mobili erano un letto a
baldacchino dai tendaggi viola logori e un comò coperto da un panno
bianco. In un angolo, celato dalle tenebre, uno scrittoio
colmo d'con numerosi fogli di carta sparsi sopra di esso e
un calamaioinchiostro, erano
l'eremo in cui mi rifugiavo sempre più spesso ultimamente.
“Aspettami qui, torno subito.” le
dissi prima di scendere al piano inferiore per chiudere la porta a
chiave e togliermi la camicia. Avevo sperimentato più volte quanto
fossero difficili da lavare le macchie di sangue.
All'improvviso udii una melodia,
l'unica cosa che riusciva a far breccia nel mio cuore di ghiaccio. Mi
fiondai di sopra in un battito di ciglia. Johanna, di fronte al comò,
aveva scansato uno dei lembi del lenzuolo che lo
ricoprivano e aveva azionato il piccolo carillon, che
riproduceva la melodia che mi ricordava i giorni felici in cui anche
io avevo amato. Appena avevo sentito dell'invenzione di questo
piccolo aggeggio, alla fine del 1700, mi ero precipitato a Ginevra
dall'orologiaio Antoine Favre, colui che l'aveva brevettato. Gliene
avevo commissionato uno per ascoltare in qualsiasi momento quella
splendida melodia, che ogni volta mi riportava alla mente lei...
Sentii scorrere sul mio viso piccole
lacrime umide e una morsa mi serrò lo stomaco, il tempo non lenisce
le ferite se sei condannato all'eternità.
La ragazza sobbalzò quando mi vide
apparire al suo fianco.
“Scusami, non volevo...” la zittii
poggiandole una mano sulle labbra e attesi finché la melodia del
carillon non fu giunta alla fine.
“Non fa niente” mi limitai a dire,
tanto fra poco sarebbe morta. Coprii di nuovo il piccolo strumento
musicale con l'angolo bianco del lenzuolo mentre Johanna continuava a
curiosare per la stanza. Cominciava a darmi sui nervi. Mi voltai con
l'intenzione di porre fine alla sua vita e nel contempo a saziare la
mia sete. La vidi di fronte lo scrittoio, intenta a leggere qualche
pagina che aveva raccolto a caso dalla pila disordinata di fogli.
“Sei uno scrittore?” mi chiese.
“Una specie...”
“È strano vedere qualcuno che usa
ancora il calamaio, non ti piacciono i computer?”
“Non molto, diciamo che rispecchia di
più la mia personalità e le mie ormai compassate abitudini.”
la ragazza si voltò sorridendo “Cosa
stai scrivendo?” la sua curiosità mi divertì.
“Una bella storia, molto
autobiografica...”
“Davvero?! Mi piacerebbe leggerla
quando l'avrai finita. Hai intenzione di farla pubblicare?”
No, non ne avevo la minima intenzione.
“Ancora non lo so, ma non credo che
farai in tempo a leggerla, procede un po' a rilento...” molto a
rilento in realtà. Johanna si avvicinò al letto e si sedette
“Peccato...” mormorò, tenendo fra le mani alcuni dei fogli colmi
di parole. “Mi faresti un riassunto? Sono troppo curiosa” quella
proposta mi lasciò interdetto. Naturalmente non dovevo neanche
perdere tempo a risponderle. Dovevo solo avvicinarmi, morderla e
saziarmi del suo sangue. Tuttavia c'era qualcosa che mi intrigava,
raccontare alla mia preda la mia storia... da pazzi! Eppure...
Mi sedetti accanto a lei, guardai
l'ora, c'era tutto il tempo...