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Autore: Less_    03/11/2010    2 recensioni
Di notte, nulla più possedeva luce o colore.
Dopo il sonno la sveglia. Il sollievo. Il respiro.
Ma ci sarebbe stata ancora una notte, un’altra notte ancora, e non sarebbe finita.
Lo sapevo. Non avevo mai avuto paura del buio, prima. Ma è nel buio che si nasconde il dolore.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scriverne è sempre stato proprio difficile, per me.

C’era una sensazione – una stretta potente alla bocca dello stomaco, non abbastanza aria per respirare, e quello che odiavo più di tutto: le lacrime.

Succedeva anche quando ero troppo sotto pressione. Mi mettevo a piangere.

Da cinque lunghi anni.

E quell’aria, quell’aria che non afferravo, che non riuscivo a prendere dentro di me, in realtà c’era: c’era tutta, a portata di mano, ad un soffio da me.

Ma per sempre irraggiungibile.


C’era un gioco che facevo sempre.

Arrivava il momento di apparecchiare la tavola. Le posate spaiate erano diventate un simbolo, per me. Era con fare morboso che le distribuivo.

I coltelli tutti bianchi, tranne che per lui, il centro della famiglia – colui che, con uno strattone, aveva cambiato i corsi delle nostre strade parallele, unendole bruscamente al centro e costringendoci a cozzare gli uni contro gli altri in un ripetersi infinito.

E poi i bicchieri: quello della cioccolata, con i Barbapapà, era per mamma, che lavorava in un asilo; e quelli trasparenti, cilindrici, per noi figli, che non avevamo avuto nessun ruolo nel disfacimento progressivo della famiglia.

E per lui, il rosso.

Lui era solo, lei pure. E noi fratelli eravamo gente sfortunata, catapultata per caso sulla stessa barca, contro il nostro volere.


Riaggiustavo le cose.

È così che mi sentivo.

Raccogliere i cocci stanchi, frammentati più e più volte sulle stesse linee, era il mio lavoro.

Rimetterli insieme, con la colla, con le schegge che si conficcavano dolorosamente nella carne.

A volte stavo con lui, ridevo con lui, tacevo con lui. Alle volte invece – più spesso – era da lei che andavo. Parlavamo, faccende, parole, massaggi, dolore, lacrime, cicatrizzazione.

Stavo con lei perché lei aveva sempre quel gran dolore che si vedeva da fuori, tutto quanto. Mentre io sono come papà, chiuso, che il dolore lo condivide solo poche volte, quasi mai a dire il vero. Preferivo sempre piangere quando non c’era nessuno che potesse vedermi, niente che si potesse rompere.


Avevo sempre amato la scuola.

Mi piaceva imparare, sapere, vedere, scoprire, ed essere la più brava, sempre. Poi compii nove anni. Andai a scuola, non dissi nulla a nessuno, non feci niente. Andavo e basta.

Era il mio posto felice, un luogo dove potevo andare senza che nessuno mi guardasse senza vedermi o dove stare senza dovermi sentire triste.

Ero sempre stata un po’ sulle mie.
Se possibile, lo divenni ancora di più.


C’è stato un periodo in cui non sopportavo che mi dicessero: sei come tua madre, oppure: il tuo carattere e quello di tuo padre sono sputati, proprio.

Perché io non volevo essere come loro, cattivi, egoisti, autolesionisti.

Non volevo essere quella debole e inerme, o quello scontroso e provocatore.

Volevo essere me stessa, senza essere riconosciuta come una di loro.

Non riuscivo a vedere niente di tutto quello che mi avevano dato in tutta la vita, perché quello che mi avevano tolto era immensamente più grande e importante.


Alcuni si chiudono sulle proprie ferite e le leccano in silenzio, fino a diventare propaggini incancrenite del proprio stesso dolore.

Altri, invece, del dolore fanno una forza, un punto e a capo, una svolta dalla quale ripartire.

Ma io, sebbene avessi sempre pensato “buona la seconda”, in realtà non ero parte di nessuna delle due categorie.

Io ero immobile, statica, talmente ferita da lasciarmi trascinare dalla forza d’inerzia, incapace di muovermi o di fare rumore.


Ero davvero, davvero morbosa.

Ogni scusa, ogni gesto erano buoni per pensarci. Specialmente dopo una sessione.

Una sessione era un periodo, spesso di poche ore. Il litigio, il dolore, la consolazione, la notte.

Poi mi abituavo. Poi facevano pace, ed era bello. Ma sapevo che ci sarebbe stato ritorno. Sarebbe successo ancora, e ancora, fino a logorarmi e a stremarmi in modo così profondo da sembrare ogni volta più inguaribile.


Avevo paura della notte. Era un tormento.

Gli occhi lucidi, i gemiti e le convulsioni. Poi il sonno, che non arrivava mai abbastanza presto, la paura di non vedere mai arrivare la mattina – sebbene sapessi che l’alba arriva sempre, non valeva. Di notte, nulla più possedeva luce o colore.

Dopo il sonno la veglia. Il sollievo. Il respiro.

Ma ci sarebbe stata ancora una notte, un’altra notte ancora, e non sarebbe finita.

Lo sapevo. Non avevo mai avuto paura del buio, prima. Ma è nel buio che si nasconde il dolore.


Magari covavo la speranza segreta che un giorno tutto sarebbe finito.

Forse credevo che sarebbe successo davvero. Mi dicevo: abbi fede, e spera per il meglio. Per quanto ci credessi, non funzionava mai.

Avreste dovuto vederlo, come quella storia avesse contagiato ogni aspetto della mia realtà. Pregavo per lui, per lei, per il mondo. Avrei voluto avere tutto attorno per poterlo stringere finché mi fosse entrato in corpo e avesse riempito il mio vuoto. E forse ce la facevo, perché quel vuoto non era proprio vuoto – era piuttosto un pozzo, da cui continuavo ad attingere. Ma ogni volta il secchio scendeva giù nel buio e temevo che non sarebbe più risalito.


Ero una brava attrice.

Nessuno era mai prostrato dalla mia vista – ero una specie di angelo un po’ schivo, taciturno ma allegro nel profondo.

Del mio sorriso con lacrime agli occhi, vedevano solo la tensione delle labbra, quella che mi costringevo sempre a mettere su.

A volte cedevo. Ma, come ho detto, ero una brava attrice.

   
 
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