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Autore: HappyCloud    06/11/2010    15 recensioni
Una giornalista e una scommessa fatta da ubriaca che le travolgerà la vita, facendole incontrare molti uomini per poi giungere al punto in cui è sempre stata: dal suo Lui.
Sullo sfondo, un intricato caso su cui investigare e al quale trovare una soluzione per aiutare un amico. Guardandosi sempre bene alle spalle, perché il nemico non è mai troppo lontano.
Dal secondo capitolo:
Gli lanciai un’occhiataccia che non lasciava nulla all’interpretazione.
- “Tu sei pazzo se pensi che io possa accettare di prestarmi a tutto questo”.
Nick non si scompose neanche per un secondo.
- “Sammy, tu hai già accettato” mi rispose, sventolando quel dannato foglio che riportava la mia firma, con un dannato ghigno di scherno stampato sul viso.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'C'eral'acca'
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1.
Make a bet.


 
Ero esterrefatta. Non potevo credere alla scena che avevo davanti a me: uomo, 1.95, bello, muscoloso, corpo nudo scoperto fino alla vita. E poi sguardo ammaliatore, sicurezza di sé percepibile a chilometri di distanza e… lacrime agli occhi.
Che cosa?
Il ragazzo sapeva decisamente come spegnere il desiderio di una donna. O meglio, sapeva come ucciderlo, farlo a pezzi e gettarlo dalla finestra.
Non sapevo che dire, mentre mi appoggiavo con la schiena alla testiera del letto del suo appartamento a Chelsea, tra i migliori quartieri di Londra, cercando di recuperare il lenzuolo per coprirmi il seno.
Non era di certo la situazione a cui mi aspettavo di assistere dopo una notte di sesso folle con Ralph J, uno dei più famosi rapper nello scenario europeo degli ultimi cinque anni. Un tipo tutto palestra, tatuaggi, parolacce e dischi di successo. I testi delle sue canzoni erano così pieni di rabbia e violenti che avrebbero fatto apparire il più spietato dei dittatori come un misero bulletto ruba merendine.
E ora stava piangendo. Lo guardai perplessa e lui sembrò percepire il mio stupore, misto ad imbarazzo.
- Scusa, Sam - mi disse. - Ma era tanto tempo che non facevo l’amore.
Alt! Come? Sperai ardentemente di aver sentito male, perché la sera prima mi era sembrato di essere stata piuttosto chiara a riguardo.
L’avevo intercettato dopo il suo concerto al centro di Londra, in un club privato dove avevo avuto accesso al backstage grazie al mio lavoro di giornalista per Music Magazine, un mensile nato da una decina di anni. Adoravo scrivere per quella rivista, anche se relativamente nuova, soprattutto dal momento che mi aveva fornito l’occasione perfetta per conciliare le mie due più grandi passioni: la musica e la carta stampata.
Dopo gli anni del college, in cui avevo lavorato sodo per conquistarmi la laurea in giornalismo e comunicazione, con grande sforzo economico anche dei miei, ero riuscita a farmi assumere nella redazione di un importante giornale della mia città natale, Glasgow. All’inizio era stato piuttosto difficile riuscire a farsi assegnare qualche pezzo da scrivere che non fosse l’ordinazione del pranzo di uno dei capi; poi, però, grazie a Dio - e alla nascente amicizia tra me e Valerie Dupont, una delle caporedattrici -, avevano cominciato a pubblicare qualche mio pezzo, finché mi avevano affidato una rubrica settimanale tutta mia, di modesto successo, sui musicisti locali, dal titolo Aprite le orecchie!. Potevo ritenermi abbastanza soddisfatta, ma quello stronzo del signor Larson, l‘editore, mi trattava ancora come fossi l‘ultima ruota del carro.
Poi un giorno Valerie era uscita dall’ufficio del direttore, sbattendo la porta e gridando che mai più avrebbe messo piede “in una redazione in cui puoi far carriera solo se hai il pisello”. Soltanto un paio di settimane più tardi, quando l’avevo dichiarata ormai dispersa, mi aveva contattata scusandosi per non aver mai risposto alle chiamate e offrendomi un posto per il magazine di cui era diventata socia, MM appunto. Era stata in vacanza per dieci giorni in Tibet in completa solitudine, isolata dal mondo e, a giudicare dal brio della sua voce, le aveva fatto proprio bene.
Naturalmente avevo accettato: fuggire dai miei capi e dalla mia triste città era esattamente quello di cui avevo più bisogno. Glasgow per certi aspetti era tutto per me: famiglia, amici e ricordi vi avrebbero vissuto per sempre. Però non mi bastava. L’avevo sempre trovata così piccola e fuori posto. Cioè, pensi alla Scozia e ti vengono in mente Sean Connery, il kilt, paesaggi mozzafiato… e Glasgow non ha nulla di tutto questo, se non un immenso grigiore che pervade tutti gli edifici e che finisce, inevitabilmente, col macchiarti anche l‘umore.
Certo, nemmeno Londra è esattamente un tripudio di colori, ma tutti quei turisti, tutti quei monumenti di epoche lontane, la fanno sembrare sempre viva. E poi i cieli dell’Inghilterra, che ritrovavo nelle tele del pittore Constable, avevano sempre avuto su di me un certo effetto; sin da piccina quando venivo nella capitale con i miei o a trovare i nonni a Manchester, mi bastava guardare all’insù, verso le nuvole e le stelle, verso quello spazio infinito che mi sovrastava in tutte le tonalità di blu, per sentirmi bene, libera.
Perciò non era stato un gran trauma trasferirmi, lasciandomi alle spalle la mia infanzia e quanto ad essa era allegato.
Da due anni vivevo in un appartamento ben curato, a Mayfair, con il mio gatto Romeo, un bel micione tutto nero. Al diavolo la superstizione! Lui c’era sempre per me, mi ascoltava e in cambio chiedeva solo qualche coccola.
Ero felice della mia vita e soprattutto del mio lavoro, che costituiva la fonte delle mie maggiori soddisfazioni, oltre, chiaramente, alle avventure sessuali - e non romantiche - che talvolta mi allietavano nelle serate in cui non ero impegnata a scrivere. Poi, però, alle volte capitano situazioni come quelle con Ralph che ti costringono a riflettere e inizi a capire che forse non è stata la scelta migliore lasciare che un gioco sconvolgesse la tua esistenza. Stupida, stupida Sam! Tutto è cominciato esattamente quattro mesi fa, qualche giorno prima del matrimonio di Valerie con Jonathan, un affascinante e simpatico cardiochirurgo irlandese. Per rispettare la tradizione, le colleghe dell’ufficio e la sottoscritta avevano organizzato un addio al nubilato degno di questo nome: giro di bevute in alcuni bar e pub e gran finale in uno strip club a Soho, il Pumping Pumpkin. Dio solo sa cosa non vedemmo quella sera! Credo che Amanda, la direttrice delle pubbliche relazioni di MM non dimenticherà facilmente quel body shot da parte di José, un cubano da far girare la testa che avrà avuto quindici anni e due figli in meno di lei.
Come dimenticare poi Ronald con quegli addominali su cui avresti potuto giocare a biglie, o i bicipiti forti di Sean, o… Nicholas. Nick è esattamente la ragione per cui il mio mondo è cominciato a girare al contrario.
Ricordo che quella sera si era avvicinato a noi con fare sicuro, vestito, per così dire, da vigile del fuoco. Più che altro sembrava un pompiere appena scampato ad un incendio in cui doveva essersi bruciata la parte superiore della tuta. Rimanevano soltanto le bretelle sul petto nudo, i pantaloni leggermente abbassati in vita, tanto da mostrare l’elastico dei boxer, e un inutile berretto in testa.
Era alto, fisico scolpito, occhi di un azzurro chiarissimo che mi ricordava il ghiaccio e capelli castano chiaro mossi; per farla breve, quello che si definisce un bel ragazzo, tutto cosparso di olio, come d’altro canto anche gli altri, neanche fossimo ad una gara di body building o su di una spiaggia ai tropici.
Le prime parole che ci rivolse potevano essere state tranquillamente prese da un film porno della più bassa lega esistente.
- Devo forse spegnere un incendio qui? O volete che lo accenda? - aveva detto, ondeggiando il bacino verso Val, indicata da tutte come la festeggiata.
Oddio. Squallido e banale. Ero quasi disgustata, ma dopo qualche secondo mi resi conto che il mio corpo e la mia mente non andavano di pari passo: stavo ridendo come una pazza seguita a ruota da Val, Amanda, Jade e Katy. Tutto si spiegava molto semplicemente con i litri di alcool che avevamo in circolo: tequila, vodka, rum… non c’eravamo fatte mancare nulla. Nick si destreggiava tra noi cinque, dispensando sorrisi, ammiccamenti e conducendo le nostre mani vicino al suo corpo, per sfiorarlo appena, - cosa di cui Jade fu molto irritata.
Sembravamo delle ragazzine al concerto dell’idolo di turno e dovevamo apparire parecchio eccitate perché, ben presto, arrivarono rinforzi da bere e da guardare. Rimanemmo fino alla chiusura, completamente sbronze e fu solo per miracolo se riuscimmo ad infilarci in due taxi per tornare ciascuna alla propria abitazione.
Il giorno seguente mi svegliai a mezzogiorno ancora mezza vestita, mezza truccata, ma con un cerchio alla testa completo. Mi alzai barcollante per specchiarmi; sarebbe stata una tortura, ma sapevo che era necessario per controllare i danni.
Oh cazzo! Era pure peggio di quello per cui ero preparata: i capelli arruffati, il mascara colato, il rossetto sbavato, la camicetta esageratamente aperta con ampia vista sul davanzale e la cerniera della gonna davanti invece che dietro. Guardandomi in faccia pensai che assomigliavo al Joker di Heath Ledger. Mi consolai vedendo che le mie Manolo Blahnik erano sane e salve accanto al letto. Se avessero riportato dei danni, non avrei risposto di me stessa. Tutto ma non le mie scarpe! Avevo persino un armadio tutto dedicato a loro, per preservarle da polvere e sguardi indiscreti.
Mi svestii con noncuranza, con l’intenzione di ficcarmi sotto il getto rilassante della doccia che mi avrebbe fatto dimenticare la nottata; ma fu mentre mi apprestavo a togliermi il reggiseno che notai un piccolo biglietto ripiegato più volte su se stesso infilato tra lo spallino e la coppa. Lo aprii velocemente e ne lessi il contenuto con attenzione: un numero di cellulare e la frase: Mi raccomando quando sarai lucida chiamami. C’è una scommessa in ballo e io odio perderle. P.S: bel seno comunque! N.
Istintivamente mi coprii il petto, dal momento che indossavo solo gli slip. Poi, però, mi ricordai che ero sola in casa e la vergogna lasciò il posto alla rabbia. Chi cavolo si era permesso di nascondere un biglietto tra le mie tette? Chi era questo N.? La sera prima, al momento, era una nebulosa dai contorni troppo indefiniti per fornirmi qualche indizio valido a ricostruire il susseguirsi degli eventi. Mi serviva il cellulare per chiamare le altre e raccogliere informazioni. Già, ma dove cavolo era? Ricordavo solo di averlo messo nella borsa; il problema era che anche quella pareva essersi volatilizzata.
Dopo dieci minuti di estenuanti ricerche, mi arresi pensando che l’unica soluzione fosse quella di chiamare il mio cellulare dal telefono fisso. Agguantai il cordless, composi il numero e mi misi in allerta, pronta a captare qualsiasi rumore provenisse da qualche angolo recondito del mio appartamento. Mi stavo già rilassando al pensiero di ascoltare Wish you were here dei Pink Floyd - sì, d’accordo non era molto adatta come suoneria, ma l’adoravo e mi faceva sempre pensare che fosse qualcuno di piacevole a cercarmi - quando, improvvisamente, realizzai che non solo David Gilmour non stava cantando per me, ma non c’era alcun suono nell’aria. Zero. Oh merda! fu l’unica espressione che la mia mente partorì e la mia mano, in automatico, si portò sulla fronte, sfregandola energicamente. Contattai tutte le ragazze, non riuscendo, però, a cavare un ragno dal buco. Non erano di certo messe meglio di me e Katy aveva persino perso una scarpa da qualche parte nel tragitto di ritorno. Sconsolata decisi che tanto valeva godersi in santa pace la doccia, lasciando i problemi fuori dal bagno per non meno di un quarto d’ora. Fu quando mi stavo sciacquando il balsamo dai capelli che un dubbio mi assalii: come potevo essere rientrata in casa se le chiavi erano nella borsa?! Finii di prepararmi e mi precipitai dal vicino, il signor Hansen, un vecchietto vedovo che abitava da solo proprio di fronte a me che si era offerto di dar da mangiare a Romeo nelle mie lunghe giornate al lavoro; aveva, quindi, un paio di chiavi di riserva.
- Salve, Samantha! - mi disse aprendo la porta. - Sei venuta a riportami le chiavi?
Mistero numero uno risolto.
- No, signor Hansen. Mi servono anche per oggi. Volevo ringraziarla per aver portato Romeo in giardino - mentii, arrossendo.
- D’accordo. Ma guarda che mi hai molto spaventato stanotte. Mica ti puoi attaccare al campanello di una persona anziana come me a quelle ore!
Il suo tono era un poco severo e mi vergognai terribilmente per la figura barbina che avevo fatto. Poi lui proseguì.
- E per Romeo sai che non ci sono problemi - si chinò, guardando un punto dietro di me. - E lo sai anche tu, vero bel micione? - Mi girai e notai che il mio gatto stava per arrivare sul pianerottolo, dove si lasciò accarezzare dal vecchietto che gli porse anche qualche crocchetta.
- Mi scusi, davvero, E’ stata una serata… particolare, diciamo, e ho perso la borsa.
La fronte del signor Hansen si corrugò, lasciando però presto il posto ad un ampio sorriso.
- Ti capisco, Sam. Sono stato giovane anche io. Solo, non ho mai dimenticato le chiavi!
Bene, e via con la figura di merda pure con il vicino. Sorrisi imbarazzata e lui rise, mentre mi congedava, chiudendo la porta. Tornai in cucina per chiamare la società dei taxi, nella vana speranza che avessero ritrovato la mia borsa. Niente di niente. Ma nel frattempo chiesi che mandassero un’auto al mio indirizzo. Aprii il finto barattolo dei biscotti in cui tenevo qualche decina di sterline per le emergenze e scesi in strada ad aspettare che il taxi arrivasse.
 
Il Pumping Pumpkin di giorno faceva tutto un altro effetto: sarebbe sembrato quasi un locale serio, se non fosse stato per quella stupida insegna color arancione che non lasciava di certo dubbi in merito al tipo di attività svolta all‘interno. Mi domandai seriamente a chi fosse venuta l’idea assurda di chiamarlo in quel modo.  Misi da parte le mie perplessità e, vergognandomi come una ladra, entrai nel locale. Era deserto - e certo che ti aspettavi, è pomeriggio! - tranne che per un uomo completamente calvo sulla cinquantina, intento a leggere delle carte sul bancone.
Ebbi la sensazione di essere finita in un’arancia. Tutto era di quel colore: pareti, soffitto, tavoli, sedie e persino le cornici degli specchi. L’arredamento, visto alla luce del sole che filtrava dalle finestre, era tutt’altro che spartano: un lungo palco, ora spento, che la sera si accendeva di mille colori, e corpi, dei lampadari arzigogolati che pendevano dal soffitto e alle pareti innumerevoli quadri ritraenti scene del Moulin Rouge.
Che bello quel film… Sam! Concentrati! Mi ricomposi e mi schiarii la gola, giusto per segnalare la mia presenza al pelato che, nel frattempo, non mi aveva degnato di uno sguardo.
Lui alzò appena lo sguardo dalle scartoffie e mi disse.
 - Che c’è? Sei qui per i provini? Perché, in tal caso, sei in ritardo e quello non è l’abbigliamento adatto. Scoprii di essere più indignata per l’offesa al mio vestiario che per essere stata scambiata praticamente per una cubista; indossavo una normale maglietta, una felpa con la zip aperta, un paio di comodi jeans e uno di Converse. Dovevo andare in uno strip-club, non a Buckingham Palace!
- Veramente, non è niente di tutto questo. Sono stata qui ieri sera con delle amiche - abbassai lo sguardo imbarazzata. - E credo di aver dimenticato la borsa. Le risulta?
L’uomo mi guardò con aria scocciata.
- Ti sembro l’addetto al guardaroba? - ghignò.
Ma vaffanculo! Ero sul punto di sbranarlo a parole e fisicamente, quando sentii i passi di qualcuno provenire dal retro del locale.
- Finalmente sei arrivata, Samantha Grayson.
 Mi voltai di scatto e notai due occhi color ghiaccio puntati su di me. Dove li avevo già visti? Uno, due tre… flashback! Dai, cavolo… uno, due, tre! Sembravo Tobey Maguire nei panni di Spiderman, quando tentava disperatamente di capire come funzionassero i suoi superpoteri. Ma il lampo di genio non arrivò e lui dovette intuire il mio smarrimento perché continuò.
- Non mi dire che non ti ricordi di me! - Cielo, faceva pure il finto offeso. - Eppure mi pareva che ieri sera lo sapessi bene il mio nome, quando mi infilavi i bigliettoni da venti nei boxer.
Perciò i soldi e, quindi la borsa, ce li avevo. La goffa risata del pelato mi riportò alla realtà. Quella specie di adone che avevo davanti mi aveva appena umiliato di fronte ad un altro essere umano. Brutto per giunta… Sam! Cosa c’entra questo? Mi distolsi dai miei pensieri e feci per parlare, paonazza in volto, ma il ragazzo mi precedette.
- Sono Nicholas, comunque. Nick.
Tese la sua mano verso di me, ma io la ignorai.
- Senti, senza tante cerimonie, dammi la borsa che ho fretta.
La voce mi uscì dalla bocca con una durezza non voluta. Anche il mio interlocutore sembrò sorpreso dal mio tono trovando, però, subito una risposta da darmi.
- Calma Sammy, rilassati! La tua borsa è qui.
La prese da dietro il bancone e me la porse.
- Grazie - dissi con un sorriso più falso di una dentiera, strappandola letteralmente dalle sue mani.
Non controllai nemmeno che ci fosse tutto all’interno. Volevo solo andarmene da quel posto e da quei due cafoni. Feci per indirizzarmi verso la porta ma lui mi costrinse a fermarmi.
- Ehi, ehi. Dove pensi di andare? Non dimentichi qualcosa? Dobbiamo discutere meglio i termini della nostra scommessa.
Mi voltai di scatto verso di lui, gli occhi sgranati.
- Tu? – dissi, quasi urlando.
Nicholas annuì, compiaciuto, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
- Sai – cominciò. - Ieri sera sei stata il festival dell’incoerenza. Prima ti sei guardata lo spettacolo con la bava alla bocca e poi ti sei prodigata in mille discorsi sulla morale. Sul perché se un uomo fa questo lavoro - ed indicò il palco alle sue spalle. – È un figo e, invece, se lo fa una donna è una sgualdrina di poco conto. Che filosofia spicciola, Sammy. Niente che non sia già stato sentito e risentito almeno un trilione di volte. Com’è che funzioni? L’originalità la usi solo quando scrivi in quella sottospecie di giornale?.
Lo guardai sorpresa; sulla morale di bassa lega non aveva tutti i torti ma, purtroppo, quella era stata la miglior cosa che il mio cervello ubriaco fosse stato in grado di produrre. Riguardo al resto, però, non potevo starmene zitta, il mio orgoglio dalle dimensioni del Canada ne avrebbe risentito troppo.
- Sarà pure tutto banale... ciò non toglie che io abbia ragione. E, a proposito del mio lavoro, direi che richiede molta più fantasia del tuo. Nel caso in cui tu non te ne sia accorto, - e dicendo questo mi sporsi verso di lui, abbassando il tono della voce, quasi per non farmi sentire dal pelato. - Tutti siamo in grado di agitare un po’ il culo e mostrarci in pubblico in intimo.
Era esattamente in situazioni come queste che adoravo la mia acidità, sfoderabile nei momenti più adatti. E nella mia mente partì una standing ovation per me stessa. Nick, per niente turbato, mi rispose subito. Che palle! Odiavo gli uomini che sapevo come ribattere alle mie frecciatine.
- Ci vuole molta più originalità di quanto tu possa credere. E ieri te ne ho data ampia dimostrazione, quando cercavi di agguantare il mio sedere con quelle manacce.
Azz, colpita e affondata.
Il pelato cominciò a ridere a crepapelle; gli lanciai un’occhiata fulminante che lo indusse a rifugiarsi nel retro, borbottando qualcosa d’incomprensibile. Dovevo dire qualcosa.
- Pensala come vuoi - fu l’unica cosa che la mia bocca riuscì a dire. Tutto qua? La frase più banale del mondo.
 - Banale come sempre, Sammy.
 Fantastico, sapeva pure leggere nel pensiero. Decisi di metterla su un altro piano, stava per cacciarmi all’angolo.
- Nessuno mi chiama più così da quando avevo otto anni e non vedo perché dovrei permettere a uno stripper di farlo.
Nick rise di gusto e mi si avvicinò piano. Per la prima volta, notai quel bel sorriso. I denti perfetti, bianchi, che mi sovrastavano quasi del tutto dall’alto di quel metro e ottantacinque che doveva essere in confronto al mio metro e settanta scarso. In automatico, indietreggiai.
- Non ho bisogno del tuo permesso, Sammy.
Ero sull’orlo di una crisi isterica e lui parve accorgersene. Stavo per ribattere, ma lui non me lo permise.
- In ogni caso non è questo di cui voglio discutere con te. C’è una somma di 2500 sterline in gioco e odio perdere soldi in una scommessa.
Deglutii e probabilmente le mie pupille si dilatarono. 2500 sterline? Erano più o meno il mio stipendio mensile. Già, il mio. Lui quella cifra poteva guadagnarla in due o tre serate: solo noi, la sera precedente avevamo speso una somma vicina alle 500 sterline.
- Non so di cosa tu stia parlando  - dissi.
- Eh no, Sammy. Pensi di cavartela così? Mi hai dato la tua parola e…
- La parola di un’ubriaca quanto conta per te esattamente? - sbottai, interrompendolo.
Mi guardò severo e proseguì.
 - Se mi avessi lasciato finire - mi apostrofò. - Ti avrei detto che sono un gentiluomo e che quindi non ti avrei mai imbrogliato. Per questo sono in possesso anche di un documento con la tua firma.
Okay, mi sta prendendo in giro, vero? VERO?
Nick tirò fuori un foglietto dalla tasca e mi mostrò il punto esatto in cui doveva esserci la mia firma e… cavolo! Eccola lì. Certo, un po’ tremolante, ma era pur sempre la mia.
Fu allora che decisi che era il momento di adottare la tecnica che mia sorella maggiore Lily mi aveva insegnato ancora ai tempi dell’asilo: negare anche di fronte all’evidenza. Poco etica, senza dubbio, pure un po’ rischiosa, ma successo garantito al 99%. Cominciai la pantomima con una risata degna di Ursula, la cattiva de La Sirenetta.
- Tesoro, - Sam, non strafare! - Questa non assomiglia neanche lontanamente alla mia firma.
E ora datemi l’Oscar.
Fu allora che accadde l’imprevisto: lui sorrise, come se si fosse aspettato la mia reazione, sparì per pochi secondi nel retro e tornò con un oggetto in mano. Si avvicinò a grandi passi a me e me lo porse. Una macchina fotografica che stava riproducendo un video.
“Sammy fai ciao con la mano al tuo Nick”. Riconobbi immediatamente i suoi occhi di ghiaccio e la mia mano che salutava l’obbiettivo.
“Nick… - risate infinite. - Come sei bello… ”. Dio, ma come mi riduco quando bevo? D’ora in poi tequila lungi da me.
“Sammy, cucciola, cosa stai facendo? Dillo al tuo amico Nick. Cosa stai firmando?”. Subdolo. Ancora risa. E la mano di Katy davanti alla bocca prima di correre in bagno a vomitare.
“Sto firmando la nostra scommessa”.  La mia risposta era uscita così spontanea e naturale dalla mia bocca che persino io, nel video, sembravo essermene stupita.
Seguiva un primo piano di me che firmavo il foglio.
Porca. Miseria. Ora come mi tiro fuori da questa situazione?
Non solo ero ricaduta nell’1% di probabilità d’insuccesso della teoria di Lily, ma ero stata battuta per KO tecnico.
- Vuoi anche lo zoom per verificare che sia veramente tu quella che scrive? - mi chiese sghignazzando.
E quella risata cristallina mi fece capire che non sarebbe stato così facile liberarsi di una scommessa fatta da ubriaca ad un ballerino sconosciuto di uno strip-club.
 
 
Let’s make a bet 
We'll make a bargain and call this truce 
Let's make a bet 
I'm in loss and win or lose with you. 
   
Il titolo di ogni capitolo fa e farà riferimento ad una canzone di vari autori, modificata o meno a seconda della necessità. Anche alla fine del capitolo c’è una strofa della stessa canzone.
Per questa prima parte della storia ho scelto una canzone dei Foo Fighters, dall’omonimo titolo.
S. 
 
   
 
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