Fictional Dream © 2007 (17 settembre 2007)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa,
Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo
di quest’ultimo), sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop
giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
*****
I sogni mi hanno fatto compagnia fin da quando ero bambino; o
forse dovrei dire il sogno, perché sono stato sempre un tipo molto più
pratico di quel che poteva sembrare a un primo sguardo: troppi obiettivi
mi avrebbero distratto, non averne mi avrebbe condannato alla noia. Il giusto
mezzo era dunque puntare il bersaglio e dire che sì, potevo ottenere tutto quel
che desideravo.
I sogni sono compagni discreti: fanno poco rumore e ti
consolano anche quando non sei popolare. So che nessuno accetterebbe di
ammetterlo, perché c’è anche qualcosa di arreso e triste nel dire che puoi fare
affidamento solo sulla tua ambizione, ma essere onesti vuol dire trasformarsi in
giudici impietosi. Di se stessi prima ancora che di tutti gli altri.
Il mio sogno si era evoluto con costanza, fino a trasformarsi
nella realtà che vivevo: ero il leader di un gruppo straordinario, che nello
spazio di tre anni era passato dal purgatorio indie a una major d’oltre un
milione di copie. Ero il leader di una band ch’era quasi una seconda famiglia,
perché la profondità complice dell’affetto che ci legava era qualcosa che ci
invidiava chiunque; non c’erano solo vincoli contrattuali e d’interesse, cioè.
Quando avevo progettato il mio Arcobaleno avevo fatto in modo
che avesse tutti i colori del mondo, e fossero una tavolozza insostituibile.
Quello che devi ricordare dei sogni, però, è che anche ad
alimentarli con tutto te stesso non avrai mai la certezza possano durare per
sempre. Sono amici fidati finché non li stringi tra le dita, poi ti accorgi che
sono come le rose: e ti ritrovi i palmi straziati dalle spine.
Ecco, i sogni sono come l’amore cantato da haido: qualcosa di
tanto meraviglioso che qualunque accento esplicativo ti pare quasi superfluo;
qualcosa di tanto doloroso che stringere i denti non t’impedirà per questo di
trattenere le lacrime.
Lacrime di spine: pungenti sotto le ciglia come aghi
acuminati.
Della morte del mio sogno ricordo tutto, fosse anche perché
non fu affatto vero che si spense; come ho detto a haido – mentre sdraiati sul
solarium dell’ennesimo hotel fissavamo un cielo okinawano trapunto di stelle
– era solo caduto in uno di quei sonni tanto profondi che fanno
pensare davvero alla fine.
Era anche il segnale che dovevo darmi una scrollata e correre
a riprendermi tutte le mie ambizioni; i sogni non sono mai un affare da
pigri, insomma, ma te li guadagni rinnovando i tuoi propositi ogni giorno.
Mi ero fidato troppo della fortuna e me l’ero dimenticato.
A uccidere l’Arcobaleno, in ogni caso, non fu Sakura. Questa
consapevolezza mi ha investito – e fatto pure un po’ male – quando scusarsi non
avrebbe avuto comunque più senso: quando Perfect Blue era già stata
cantata troppe volte perché non me ne venisse fatta una colpa; persino quando
Fifteen Half aveva già raggiunto e travolto il bersaglio – il bersaglio
sbagliato, per altro, perché che io odiassi haido è stata la più clamorosa
menzogna abbia raccontato a me stesso. Forse, a ben vedere, l’unico errore che
non dovrei perdonarmi.
A uccidere l’Iride, probabilmente, fui proprio io, che per
inseguire il mio sogno mi ero pure dimenticato del dettaglio più importante:
non ero solo. Quel che mi circondava non era la carta troppo patinata
di una brutta rivista, ma un nucleo di ragazzi come me, eppure molto più
vulnerabili del sottoscritto.
A leggere quel che accadde sulla distanza, dovrei dirmi che
sì, uno dei giorni più tristi della mia vita fu anche uno dei più importanti e
rivelatori, perché se solo avessi davvero saputo leggere il senso riposto di
ogni parola, espressione, gesto, allora avrei anche compreso come destare il mio
sogno assopito.
Posto fosse quello che mi interessava davvero, poi. In
realtà, quanto desideravo era baciare la principessa e chiudere così
l’ideale circuito delle mie spropositate ambizioni.
In quei giorni, però, lei mi spezzò il cuore, e lo
fece con la superficiale facilità delle sue lacrime e di quei sentimenti
talmente vivi e scoperti da suonare per questo ancora più oltraggiosi.
Sto parlando di haido, è evidente, com’è evidente che sua
madre avesse un gusto profetico e sadico insieme nel coniare i vezzeggiativi da
dargli.
Nei mesi che avevano preceduto il declino del gruppo
c’eravamo allontanati, noi due, o forse dovrei dire ch’ero stato piuttosto io a
prendere le distanze da tutti gli altri, perché se haido e Sakura erano una cosa
sola, era pur vero Ken intrattenesse rapporti strettissimi con entrambi senza la
minima difficoltà.
Ero io quello che si sentiva a disagio; io, quello che subiva
le voci e i mille condizionamenti di un desiderio inespresso, che dunque
insudiciava tutto quel che mi circondava. Forse avrei preferito ci fosse stato
un qualche atto di rottura deflagrante o una confessione esplicita; forse
speravo addirittura ci fosse quel rapporto sporco e proibito su cui ricamavano
fangirl e doujinshika. Nel momento in cui, per contro, ero
costretto a dirmi ch’erano amici com’ero io amico di Ken, mi ritrovavo spalle al
muro della mia gelosia.
E la gelosia è sempre l’espressione degenerata, contorta e
grigia di una specie d’amore.
Ken si era avvicinato molto a haido. Pensandoci bene, checché
ne dicano tutti, Kitamura l’ha aiutato a rialzarsi molto più di quel che potevo
fare io, perché io a haido avrei dato anche il cuore, e non sarebbe stata
comunque un’offerta abbastanza generosa da soffocare gli inevitabili corollari.
Anch’io, a quel punto, mi sarei sentito in dovere di
pretendere altrettanto.
Anch’io, a quel punto, sarei stato l’ennesimo creditore
pretenzioso e ostile.
Ken, invece, con quella sua intelligenza fatta di gesti
bilanciati e fermissimi, netti e inequivocabili come quelli di un samurai
d’incisione, era solo l’amico di cui aveva bisogno. Solo quello, e in cambio non
chiedeva davvero nulla.
Della fine del mio sogno ricordo soprattutto la solitudine:
me la sentivo incollata alla pelle, per quell’ambizione che potevo ora
seppellire.; per gli amici che sentivo di aver perso irrimediabilmente e che
davvero non sapevo come poter recuperare.
Non c’erano offerte lecite che potessi fare senza avvertire
altrettanto intensamente l’orribile pungolo del rimorso.
Davanti ai miei occhi, la vita continuava: ce n’era persino
nei gesti estenuati ed esauriti con cui haido attraversava il mio campo visivo,
quasi fosse un fantasma o un senso di colpa fatto carne e sostanza. Invece era
un ragazzo di neppure trent’anni che non riusciva a credere d’essere andato in
pezzi.
Era settembre. Eravamo in Germania. Non avevo mai preso in
considerazione l’ipotesi di visitare l’unico paese europeo che non potevo
associare a qualcuno dei miei interessi – se non forse le automobili. Pensandoci
bene, nel male ero stato anche fortunato – e senz’altro non potevo
sentire l’esigenza di farlo ora che a pendermi sul capo era una specie di
condanna capitale.
Non sono un tipo bucolico. Anche se a Hikone Ken e io
scorrazzavamo per le stradine di campagna, ad affascinarmi erano piuttosto i
grandi agglomerati urbani, l’idea di progresso e di invincibilità che vi si
respirava. A ben vedere la stessa che, malgrado lo smog, fa senz’altro di me uno
dei pochi estimatori di Hong Kong.
In ogni caso eravamo tornati in Europa. Nella tarda primavera
di quell’anno eravamo stati a Londra; in teoria avremmo dovuto convenire che sì,
toccavamo con mano la patria ideale di molti dei nostri idoli adolescenziali. In
pratica ci trascinavamo per strade piovigginose e set fotografici a uso
propaganda come reduci disfatti.
Mi ricordo haido, soprattutto. Negli ultimi tre mesi aveva
perso quasi dieci chili. Si era tagliato i capelli da solo ed era orribile. Non
parlava quasi più. Il mio sogno si era trasformato in un incubo; il mio
maldestro tentativo di baciare la principessa, si era risolto in quel che
quotidianamente era sotto i miei occhi.
Siccome non ero un principe, al più l’avevo trasformata in un
rospo. Tutto qui.
Il settembre tedesco era pieno di colori e qualcuno di quei
toni tanto caldi si rifletteva su di noi. Almeno pareva.
Niji era una di quelle canzoni tanto belle e tanto
intense che ti accorgi di poterle solo amare. Era struggente ed era piena di
noi: il video, però, mi spaventava. In qualche modo realizzavo a pelle fosse
altrettanto esplicito delle metafore usate dal nostro vocalist, e recitare la
morte di un sogno, a tratti, fa quasi più male che non accorgersi di aver perso.
Era curioso come, pur avendo la netta percezione di aver del
tutto smarrito il diritto di credere nella stabilità delle mie ambizioni,
seguitassi a muovermi in quella direzione, come una schiacciasassi.
Quando haido me lo rimproverò, non a caso, non solo caddi
dalle nuvole, ma reagii quasi avesse cercato di ferirmi; invece voleva
consolarmi, in un suo modo maldestro, e dirmi che mi ammirava.
Ero la sola persona avesse incontrato ad avere il coraggio
della verità, l’unica, soprattutto, ad aver davvero vissuto per un sogno da
bambini.
haido aveva trascorso qualche settimana con i propri
genitori. Sapevo ch’era stato alle Hawaii, ma ero quasi certo che anche Wakayama
gli sarebbe andata bene. Non gli importava dove, cioè; per haido
l’essenziale era sempre stato il con chi. Solo che a volte me ne
dimenticavo anch’io.
I capelli gli erano ricresciuti, erano nerissimi, spessi e
folti, come forse non li avevo mai visti. Quando ci eravamo conosciuti li
portava già lunghissimi; di lì a poco li avrebbe tinti, arricciati, lisciati,
tagliati e tinti ancora. Come una donna. Peggio di una donna.
Ora vedevo per la prima volta Hideto Takarai, come forse lo
conoscevano gli amici di una vita o i suoi genitori. Mi stupivo a riflettere sul
fatto che non somigliava poi tanto ad una donna. Però era carino. Quello sì.
Quella era senz’altro una verità.
Stava un po’ meglio? Io penso che avesse solo smesso di
compatirsi, perché la ferita che la vita gli aveva aperto dentro non era
comunque qualcosa che potesse guarire facilmente. Però sorrideva, di tanto in
tanto, non solo quando c’erano le telecamere, e lavorava con un accanimento che
non avevo mai visto, neppure nei tempi in cui c’era ancora da sfondare e non era
certo per nessuno potessimo farcela.
Si chiudeva nel loculo in cui registravamo, le cuffie in
testa e un’espressione che non conoscevo, perché concentrata e acuta come quella
di un rapace. Anche il suo modo di cantare era cambiato. Me n’ero accorto fin
dai tempi di True, ma allora entrava in conto anche quel raffreddore che
l’aveva debilitato al punto da portargli via la voce; pensavo che la sua energia
rabbiosa fosse un compromesso estremo per tornare alle sue vertiginose, celebri
altezze.
Invece haido era un’aquila cui avevano tagliato le ali, e non
ci stava a farsi torturare senza sputartelo in faccia.
Era spaventoso ed era sublime; forse capivo per la prima
volta cosa significasse cantare con il cuore: il problema, però, era che il suo
si era rotto in mille pezzi.
Malgrado tutto, resisteva. Resisteva e non chiedeva di me.
Non aveva bisogno di me.
Cominciammo a girare il video di Niji. Ogni sequenza
era un pugno nello stomaco e ogni fotogramma un conato: per la prima volta non
riuscivamo a pensare ch’era solo l’ennesima giostra di vanità e di luci.
Non io, non haido, che pure assentiva e non diceva una
parola. Truccatissimo. Spaventoso.
Erano i suoi occhi a farmi paura, appuntiti come spilli e
giudici contro la mia pelle. Somigliavano alla voce più tetra e maligna della
mia coscienza, quella per cui ero l’unico colpevole di tutto.
Quella per cui, a ben vedere, forse ero stato persino
contento che Sakura avesse pagato quanto – e più di quel che – meritava, perché
si collocava agli antipodi di quello che ero.
Io ero uno che aveva dovuto costruirsi un sogno, arrampicarsi
sulle sue pareti sdrucciolevoli e scalare una vetta ch’era molto più brulla,
aspra e deprimente di come me l’ero immaginata.
Yasunori era nato con tutto quello che io mi ero guadagnato a
caro prezzo, e ci aveva sputato sopra. Ma non era comunque un bel pensiero. Non
era qualcosa che potessi condividere: faceva morire persino pensare che gli
altri potessero immaginare la cifra autentica delle mie riflessioni e
disprezzarmi per questo.
Io, al loro posto, l’avrei fatto, ma io, è risaputo, sono il
giudice che non vorresti mai incontrare.
Accadde un pomeriggio. Senza un perché apparente. Almeno: a
porre loro qualche domanda, non c’è verso ti diano una risposta di senso
compiuto. Non lo fanno perché, senza che possa far loro una colpa, neppure io
sapevo bene cosa stessi cercando. So solo che, all’improvviso, il semplice fatto
di trovarmi accanto ai miei vecchi compagni di squadra mi riuscì insopportabile;
era quasi le voci che sentivo solo nella mia testa divenissero all’improvviso
parte dell’ambiente in cui eravamo costretti.
Era quasi loro – sì, proprio loro – esistessero d’un tratto
unicamente per puntare il dito. Per puntarmelo al cuore.
Così scappai.
Neppure haido aveva mai fatto qualcosa di tanto sconsiderato,
haido che stava spesso per conto proprio, ma sempre con responsabilità; haido
che avvertiva sempre la produzione quando inforcava la bicicletta e scivolava
rapido tra le vie del paese.
Io non lo feci. Era una solitudine che non cercava e non
voleva testimoni. Per dirla come Ken, a volte sembravo quasi godere nel restare
solo, nel procacciarmi una condizione aurea di vittima e carnefice al contempo –
oppure ero solo un vigliacco che cercava ogni mezzo per sottrarsi a quegli
sguardi.
Era autunno. Faceva freddo. Una pioggerella insistente
grondava giù tra le fronde fittissime di un bosco spettrale; all’improvviso era
come sprofondare nel nulla, o in uno specchio fedele di quella ch’era diventata
la mia vita. L’avevo sacrificata a un sogno di carta e ora era esattamente
quello: carta straccia.
In quegli ultimi mesi avevo sezionato ogni evento, ogni
parola, ogni ombra. In un gioco dell’oca immaginario, avevo supposto di poter
deviare a un bivio, di percorrere al contrario la plancia, o di avviare una
nuova partita che si sostituisse a una mano perdente.
Ma la vita non era un gioco, né lo erano i sogni. I sogni,
piuttosto, erano un’illusione che ti faceva morire.
Affondavo nel fango, lasciandomi bagnare da quella
pioggerellina simile a lacrime, ma non stavo piangendo. Io, che potevo farlo per
un nulla, in quei giorni non provavo proprio niente. Era la misura del dolore di
cui aveva parlato haido, un girotondo di sentimenti contratti, sensazioni
deviate e rancore sordo.
Round and round: per non andare da nessuna parte.
Forse volevo solo che mi cercassero, per avvertire la
rassicurante sensazione d’essere importante. D’essere la chiave di volta
dell’Arcobaleno.
Forse volevo che lui mi cercasse, perché solo così
avrei capito che non mi odiava, che non mi dava la colpa di tutto come forse
avrei fatto al suo posto.
Ma io non ero haido: non lo ero fino al punto di non capirlo
affatto.
Venne Yukki, però; Yukihiro che di tutta quella storia era al
più uno spettatore esterno ed estraneo. Yukihiro che avrebbe salvato il mio
sogno senza quasi rendersene conto.
Era quello che mi conosceva meno, forse era anche questa la
ragione per cui non aveva riflettuto un solo istante sull’ipotesi che io non
volessi essere trovato, ma volessi perdermi.
Come un bambino nelle sue fantasie senza senso.
Però, fosse solo per quella voce di buonsenso che mi parlava
la lingua dei più, fu inevitabile che tornassi sui miei passi. Incontro al sogno
che era pure diventato un incubo.
haido, avvolto nel suo brutto cappotto di pelo sintetico,
neppure sollevò il viso dalla tazza di caffè che stava sorbendo. Come se non si
fosse accorto di nulla. Come se il mio esserci o meno non fosse rilevante. Fu
allora che la crepa aperta dall’uscita di Sakura si trasformò nella frattura che
avrebbe sfigurato a lungo ogni mia ambizione.
Gli avrei dato il cuore, se me l’avesse chiesto: mi
ricompensava rimuovendomi dal suo campo visivo.
Come se fossi irrilevante.
Io, che l’avevo creato.
Rabbia, frustrazione, rancore: puoi sognare su sentimenti
tanto bassi? Sì, puoi. La volontà ti spinge molto oltre le tue più
modeste aspettative. La volontà e l’orgoglio possono anche convincerti che
sognare non ha prezzo. Invece ce l’ha e carissimo: si chiama innocenza.
Tu la regali a una fantasia e quella te la mangia, brano dopo
brano, finché non ti resta neppure un pezzetto di cuore. Poi però, quando meno
te l’aspetti, qualcuno ti regala il suo, e tutto muta per l’ennesima volta.
Accadde alla fine dell’Asian Live: un tour faraonico
per un gruppo che cadeva a pezzi. Ci eravamo tollerati e divertiti senz’altro
più di quanto non fosse capitato in studio, ma ciò non implicava comunque
l’atmosfera fosse quella dei nostri giorni migliori. Avevamo raggiunto un
equilibrio compromissorio e professionale: ti parlo se è strettamente
necessario. Comportati bene. Non dimenticare le parole.
Della mia cotta peggiore sembrava restare solo quello.
Prima dell’esibizione la tensione era alle stelle. Ormai
haido era una prima donna intollerabile per me, non un compagno di squadra.
Neppure un amico. Sapeva che aspettavano tutti lui e te lo faceva pesare. Si era
montato la testa, lo scricciolo di Wakayama. Non si ricordava delle mille volte
in cui gli avevo salvato il culo cantandogli all’orecchio.
Ero irritato, ma non avevo voglia di alzare la voce. Non
ancora. Non per chi ascoltava solo se stesso, ma haido mi seguì.
Più mi allontanavo entro il dedalo complicato del teatro, più
mi stava dietro. Mi volsi irritato nella sua direzione, fosse pure per
intimargli di mantenere le distanze. Nessuno lo autorizzava a invadere quel
nulla di vita che avevo salvato. Neppure io.
“Ma tu quando cresci?” mi sibilò a bruciapelo.
Lo fissai come suppongo si fissi l’uomo che morde il cane.
Hideto Takarai che faceva la morale a me sull’unico tema che
non potesse proprio permettersi di dire proprio? Lui, parlare di maturità? Lui
che si era sposato una madre, prima ancora di una donna? Che poteva piagnucolare
dalla mamma per qualunque idiozia?
“Scusa?”
Non abbassò lo sguardo, forse perché sapeva che non l’avrei
fatto neppure io e mi sarei bruciato; perché c’era qualcosa in quegli occhi di
così vivo, nudo e crudele da strapparti a morsi il cuore.
Adoravo Hideto. Più di haido. Era un vero uomo e te lo
sbatteva in faccia senza pietà.
“Puoi scappare quanto ti pare, invece di parlarne. Puoi fare
la parte della vittima e nasconderti. Quando ti entrerà in testa che non ti
verrei mai a cercare?”
Sgranai gli occhi. haido si fece ancora più vicino. “È una
vita che ti sto dietro. Ora è il caso che ti decidi: o cresci o mi lasci
passare.”
Un anno e mezzo più tardi, davanti a una canzone persino
imbarazzante per come era piena di noi, glielo dissi. Avevo avuto sedici mesi
per pensare. Per pensarlo. Non mi ero mai sentito così solo e così
impaurito al pensiero potesse anche essere per sempre.
“Non posso lasciarti passare. Mi dispiace,” gli dissi a mezza
voce.
haido rimase in silenzio, poi mi strattonò per la t-shirt.
“Ripetilo, se ne hai il coraggio.”
Sorrisi: e lo baciai. Chiuse gli occhi. Li chiusi anch’io.
Quando li riaprimmo, eravamo di nuovo in quello stesso sogno
di eoni prima: la foresta che mi aveva inghiottito e imprigionato per tutti
quegli anni non c’era più, ma si era come dissolta.
Era bastato un bacio, come nella favola della Bella
Addormentata.
Un bacio e quel sonno maligno si era dissolto, così le rose
che stritolavano il nostro castello e le lacrime acuminate come mille spine che
avevo lasciato pungere sotto le palpebre.
Se anche le avessi lasciate sfuggire, in ogni caso, ora
sapevo che qualcuno le avrebbe raccolte.
Se anche le avessi lasciate fuggire, non mi sarei vergognato
di nulla, perché è giusto piangere per un sogno che si realizza.
O che rinasce più vivo di prima.