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Autore: Dazel    11/11/2010    4 recensioni
Abbassai lo sguardo a terra e sentii gli occhi riempirsi di calde lacrime che non avevo il coraggio di far scendere. O ora o mai più sussurrò il coraggio al mio cuore, che sobbalzò.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~ Dall'altra parte del mare~

La profonda amicizia che legava me e il Professor Layton era la cosa più preziosa io possedessi, e per quanto potessero sembrare banali e privi di reale significato certi pensieri se espressi da un bambino, erano assolutamente sinceri. Per me Hershel era tutto: un mentore, un amico, forse addirittura un padre. Tra noi c'era un certo tipo di intesa più unico che raro, una sorta di “telepatia”, se mi concedete il termine, con la quale eravamo in grado di capirci con un solo sguardo; specie il professore, che era capace di leggermi come un libro aperto. Se ero triste o turbato per qualcosa se ne accorgeva all'istante, trovando subito il modo per far tornare sulle mie labbra un sorriso. Non importava quanto fossero stupidi i motivi che mi rendevano inquieto, lui con estrema pazienza cercava sempre di calmarmi. Se erano gli incubi a destarmi restava con me tutta la notte, se era una delusione a rattristarmi mi stringeva a sé finché non finivo di piangere. Una persona che si prendeva così tanta cura di me, nella mia vita, non l'avevo mai avuta. Per questo forse i miei sentimenti per il professore si ingigantirono, trasformandosi in una sorta di sciocco amore che adoro definire “fiabesco”, per la sua innocenza e per la tranquillità con cui lo esternavo.
Non so dire con esattezza quando questo mio sentimento cessò di esistere, ne se ha mai avuto una vera e propria fine, ma ricordo con assoluta precisione il giorno in cui fui in un certo senso obbligato a ricacciarlo giù nelle profondità nel mio cuore, chiudendolo in una sorta di scrigno.
Era più o meno l'inizio dell'estate ed io stavo rincasando da scuola. Quando tornai nella casa che condividevo con il professore non potei fare a meno di notare, attaccato all'appendi abiti, una grossa giacca marrone dall'aspetto familiare. Di primo acchito immaginai ci fosse l'ispettore Chelmey e mi sentii piuttosto eccitato al pensiero della sua presenza nella casa dato che sicuramente significava che il professore avrebbe presto avuto un nuovo eccitante mistero tra le mani, e per non farmi cogliere impreparato mi appostai dietro la porta dell'ufficio del professore per origliare. La voce dell'uomo che parlava con Layton era completamente diversa da quella dell'ispettore, ma incredibilmente simile a quella di mio padre.
«Hershel, lei è stato molto generoso a prendersi cura di mio figlio per tutto questo tempo senza chiedere mai una sterlina in cambio, e sono certo che Luke stia bene con lei. Sta crescendo educato e sveglio, niente potrebbe darmi più soddisfazione. Però, purtroppo, c'è un ma...»
Il professore si schiarì la gola «Immaginavo qualcosa di simile, la prego, prosegua.»
«Mi è stato offerto un trasferimento lavorativo oltre oceano, una proposta che non posso assolutamente rifiutare. Tenere mio figlio qua a Londra e abitare a in America non mi sembra decisione conveniente. Né per me e mia moglie, né per il piccolo Luke.»
«Ha assolutamente ragione, signor Triton. Luke ha bisogno di vivere vicino alla sua famiglia, ma se mi permette, non sarebbe un problema per me ospitarlo qua di tanto in tanto.»
«Sono sicuro che Luke apprezzerebbe, ma ho paura che questo possa solo fargli perire di più il distacco. Talvolta un taglio netto è la decisione meno dolorosa.»
Non seppi mai quanto a lungo quel discorso di protrasse perché mi alzai e sfrecciai fuori di casa tanto velocemente da rischiare di inciampare un paio di volte nelle mie stesse gambe. Non mi importava di cadere e di sbucciarmi le ginocchia, perché nemmeno un rivolo di sangue scarlatto sarebbe stato in grado di fermarmi, non in quel momento almeno. Follia, follia! Mio padre era un folle ed io ero la vittima del suo disturbo mentale! Non potevo abbandonare Londra per più di un giorno senza sentirmi angosciato, come potevo abbandonare la mia amata Inghilterra per un periodo tanto lungo come “per sempre”? Non avrei preso quella nave, non sarei andato in America – questo era poco ma sicuro. Non potevo assolutamente abbandonare il professore, ero il suo migliore allievo, lui aveva bisogno di me! Continuavo a ripetermelo come una nenia, certo del fatto quella fosse solo una mia convinzione. Affrontando la realtà ero io ad aver bisogno di lui, non viceversa. C'era stata Emmy prima di me e una volta arrivato nel Nuovo Continente ci sarebbe stato qualcuno a susseguirmi nel ruolo di assistente del professore. Non ero essenziale, che motivi aveva per far desistere mio padre a partire? Già, lui non avrebbe avuto nessun motivo per trattenermi a sé, ma qualcuno doveva pur esserci, doveva. Flora, Flora avrebbe capito, Flora mi avrebbe aiutato... e forse anche Emmy avrebbe cercato di convincere mio padre a farmi restare a Londra! Forse ci sarei riuscito io stesso, no?
Quando smisi di correre ero al molo, in mezzo a un via vai di gente tanto concentrata dai propri pensieri da non accorgersi della mia presenza. Qualcuno mi urtò senza nemmeno voltarsi per scusarsi, ma non ci badai. Cercai di uscire dalla ressa il più velocemente possibile – mi sarei seduto da qualche parte e avrei fissato lo scorrere placido delle acque del Tamigi. Non avrei abbandonato Londra, quindi non era un addio.
Fu esattamente quello che feci: a gambe incrociate mi sedetti sulla stesa di asfalto adiacente al fiume e iniziai a lasciar libera la mia testa. Ero stato uno stupido a precipitarmi così fuori di casa, senza dire nulla. Magari era solo uno scherzo, probabilmente sapevano che li stavo ascoltando! O forse no. Forse no.
«Sta' zitto!» urlai a me stesso. Avrei voluto piangere, avrei voluto scappare, avrei voluto... Probabilmente, l'unica cosa che desideravo davvero era aver l'opportunità di restare affianco a Layton per sempre. Era ingiusta la vita: la sfortuna ti colpiva all'improvviso, come un fulmine a ciel sereno, e ti portava via – e questa volta letteralmente. Affondai in viso tra le braccia incrociate e lasciai che piccoli sbuffi di respiro mi sfuggissero via dalle labbra. Calma, Luke, calma. Non mi calmai affatto, anzi, ottenni l'effetto contrario. Mi ritrovai singhiozzante pochi attimi dopo, ebbi la sensazione di essere un grandissimo stupido. Mi ero allontanato da casa e mi ero buttato per terra a piangere davanti a uno stupidissimo fiume! Ci mancava una bottiglia di rhum vuota e un gatto in calore che si lamentava per completare il quadretto patetico. Per poco non pensai “come può andare peggio di così?” ma, molto banalmente, la pioggia anticipò ogni mia qualsiasi esclamazione. Al diavolo, non mi sarei spostato di lì nemmeno se avesse iniziato a grandinare. Una bella febbre alta poteva essere la soluzione ai miei problemi: se stavo tanto male da necessitare un ospedale non mi avrebbero sicuramente imbarcato. La pioggia smise di cadermi addosso pochi minuti dopo aver cominciato. Alzai la testa dalle braccia e mi accorsi di essere protetto da un ombrello celeste impugnato da una giovane donna dai capelli castani. Non l'avevo mai vista prima, eppure mi fissava con un'espressione tanto dolce da sembrarmi familiare.
«Ti sei perso, piccolo?»

Scossi piano il viso «No, grazie mille signorina.»
«Hai litigato con mamma e papà?» Si inginocchiò alla mia altezza, mantenendo sul volto la sua gentilezza.
«Qualcosa del genere-» mi imbronciai, spostando lo sguardo dalla donna al Tamigi. Com'era tranquillo, lui. Nulla sembrava turbarlo, scorreva ignaro di cosa gli accadesse intorno. Una simile pacatezza era invidiabile.
«Non credi siano in pensiero? Sono sicura che non hai detto loro dove andavi. Non è così?»
Non dissi nulla. Che voleva? Era gentile e carina, ok, ma... Non avevo voglia di parlarne. Non me n'ero andato via dalla casa del professore per cacciarmi tra le braccia di una sconosciuta e esporle i miei problemi! Che gliene importava? Non ci avrebbe guadagnato nulla se anche avessi deciso di dirgli qualcosa.

«Hai voglia di un buon tea con dei biscotti? Sono quasi le cinque e sono sicura che hai fame. Non abito molto distante, e poi ho un po' di giochi da tavola che sono sicura di piaceranno.»
Non so perché ma accettai. Era vero, avevo fame, e poi infondo non sembrava una rapitrice di bambini... Che rischi potevo correre? Di mangiare troppi dolcetti e ritrovarmi con il mal di pancia? Non mi importava. Trasformai il broncio in un sorriso impacciato e afferrai la mano che mi aveva teso senza titubare. Tanto, di tornare a casa, non ne avevo assolutamente voglia.

La luce entrava fioca dalle grandi finestre della sala, forse anche per via del brutto tempo. Le nuvole pallide avevano coperto completamente il cielo londinese, offuscando i timidi raggi solari. Il tempo era cambiato da un momento all'altro, come il mio umore. Che cosa buffa. La signorina Rose – quello era il suo nome – mo portò una tazza di tea fumante e un piattino con dei biscotti glassati. Era una donna graziosa, probabilmente single e con un lavoro importante. Non era da tutti abitare in uno stabile tanto pregiato, non ero un intenditore ma mi era saltato subito all'occhio lo stile vittoriano in cui era costruito, la cura che la portinaia aveva per l'atrio – lucidato tanto da far sembrare il marmo specchio – e le targhette laccate in oro che recitavano i cognomi dei residenti attaccati alle porte. Possedeva un sacco di riviste, una grande macchina da scrivere e una scatola piena di plichi di fogli. L'avevo vista quando mi aveva fatto fare il giro della casa, facendomi vedere la sua stanza. Non avevo potuto fare a meno di notare il numero di bigliettini su cui aveva appuntato informazioni, erano sparsi ovunque: sui libri, sul muro, sui bordi della scrivania. Arrivai alla conclusione che probabilmente doveva essere una giornalista.
Non avevo mai avuto grande stima per i giornalisti, l'ultimo che avevo conosciuto si chiamava Clive e aveva tentato di distruggere Londra. Fare di tutta l'erba un fascio non era comunque una scelta saggia, questa donna si stava dimostrando una buona persona con tutte le sue cure e attenzioni. Il fatto che non ci fosse un fattore esterno a spronarla a comportarsi in questo modo mi colpì particolarmente: la sua bontà d'animo era genuina, non potevo che apprezzarlo.
«Come mai ti trovavi al molo tutto da solo?» domandò sorseggiando il tea da una graziosa tazza su cui vi erano disegnate delle piccole fragoline. Abbassai lo sguardo e fissa il parquet per qualche attimo, prima di decidermi a rispondere.
«Mio padre ha ottenuto un trasferimento, a quanto ho capito» dissi velocemente «e devo seguire la mia famiglia in America, dicendo addio ai miei amici!» le mani mi tremarono con così tanta violenza che dovetti appoggiarle alle ginocchia. Gli occhi si fecero immediatamente lucidi, ignorando su tutta la linea la mia volontà di contenermi. «Non voglio... non voglio assolutamente accada! È una cosa ingiusta ed io-»
«Hai pensato che allontanandoti tutto sarebbe cambiato?»
«No...» tirai su col naso. «come potrebbe cambiare? Questo farà infuriare un sacco mio padre...»
Improvvisamente mi resi conto di quanto stupido fossi stato con quell'atteggiamento. Cosa pensato di ottenere? Non c'era nulla di concreto che una fuga di casa potesse fare, se non preoccupare le persone amate. Chissà cos'aveva pensato il professore non vedendomi tornare a casa da scuola come ogni pomeriggio... Improvvisamente mi sentii in colpa, eppure dentro di me il desiderio di tornare a casa non era ancora abbastanza vivido da impormi di farlo. Sarei restato ancora più po' in quella casa, protetto dalle cure della donna che aveva mi aveva salvato – almeno un po' – dal pomeriggio più triste della mia vita.
«Quando ero piccola» iniziò lei «Vivevo in Francia, con i miei zii. I miei genitori litigavano spesso e non c'era niente che io potessi fare per evitarlo, mi sentivo impotente e stupida, oltre che colpevole. Ovviamente ora so che non è così, ma ai tempi pensavo che se mamma e papà si odiavano tanto la colpa era senza dubbio mia, perché fissando le vecchie foto, quelle prima della mia nascita, vedevo sui loro volti solo sorrisi. Mia madre si accorse del mio malessere e decise di portarmi dai miei zii fino a divorzio compiuto, per poi tornare a prendermi. Dovetti dire anche io, come te, addio a tutti i miei amici e a tutti le persone a cui volevo bene, ma non solo: dovetti anche dire “addio” a mia madre e a mio padre. Passarono anni prima che io potessi rivedere chi amavo e ci furono momenti in cui sospettai di non poterli rivedere mai più. Eppure, ora sono a Londra.» sospirò piano, probabilmente raccontare quella storia non le piaceva particolarmente, ma lo aveva fatto comunque «Vedi, Luke... Magari i tuoi genitori decideranno di non tornare mai più a Londra, ma un giorno sarai abbastanza grande per rincorrere i tuoi sogni, ovunque essi siano diretti. Se è Londra che ami e dove vuoi vivere, allora non dovrai far altro che prendere una nave e tornare qui. Non darti per vinto, Luke, mai. Se io sono riuscita a tornare a casa dopo anni, riuscirai anche tu.»
«Ma...» esalai con un sospiro di voce «Io non posso, non posso dire ad-»
«Certo che puoi, invece, anche se fa paura tu puoi farcela. Sono sicura che andrà tutto bene» ancora una volta mi dedicò un dolce sorriso.

Quando mi risvegliai era notte fonda e, come scosso da un brivido, sentii qualcosa attanagliarmi il cuore. C'era qualcosa di strano nella mia stanzetta, quella sera. Il letto mi sembrava infinitamente più stretto di quanto non riuscissi a ricordare, oltre che più corto. Riuscivo a toccare con i piedini incalzati la sponda, anch'essa stranamente morbida. Il professore avrà messo un rivestimento per evitare che vada a sbatterci? Mi domandai. Allungai la mano verso il comodino per accendere la luce, ma questa cadde nel vuoto. Forse avevo preso male le distanze... ritentai, nulla. Del comodino, alla mia destra, non c'era traccia. Quando finalmente notai la luce fioca che entrava dalla finestra mi allarmai: non era nella parte della stanza corretta, la finestra l'avevo sempre avuta davanti al letto, non al lato. I dubbi divennero certezze: non ero nella mia stanza, e siccome la conoscevo a sufficienza per riconoscerla, realizzai che non era nemmeno la stanza del professore! Non ero a casa mia, e allora dove mi trovavo?!
Come un sogno, i ricordi si impossessarono della mia mente poco alla volta. Mio padre era andato da Layton per parlargli del nostro trasferimento oltre oceano, io preso dall'agitazione ero scappato di casa verso il molo, dove una graziosa donna mi aveva offerto ospitalità. Dunque, ero ancora da lei? Scesi dal letto che scoprii essere un divano e mi avvicinai ad una lampada ad olio. L'accesi rapidamente e la stanza si illuminò. Le mie teorie erano fondate.
I miei pensieri corsero al professore, chissà com'era in pensiero... Me lo vedevo, affiancato da mio padre, a cercarmi per tutta Londra e a chiedere di me senza risultati. Se fossi sparito per sempre? Forse mio padre si sarebbe arreso e sarebbe andato in America da solo. Sarei, solo successivamente, tornato dal professore promettendogli di non abbandonarlo mai più. Mi sembrava un buon piano, utopico, ma un buon piano.
L'orologio segnava le quattro del mattino. Presto sarebbe sorto il sole e il mattino sarebbe giunto, sarei tornato a casa e avrei affrontato il mio destino, qualunque esso fosse. Infilai le scarpe e mi diressi verso il bagno. Fissai il mio riflesso a lungo, vedendoci ritratto il volto di un bambino distrutto! Non volevo abbandonare Londra, non volevo...
Presto sarei partito, presto avrei dovuto dire addio al professore... e sprecavo le ultime ore che avevamo a disposizioni in fughe infantili e prive di senso logico! Ero un folle. No, non avrei aspettato il mattino, sarei tornato a casa seduta stante.

Pochi attimi dopo aver realizzato quell'idea mi ritrovavo per le strade di Londra. Uomini ubriachi barcollavano per le piazze ridendo e cantando come ragazzini, avvenenti signore sostavano agli angoli delle strade fermando i passando e offrendogli il loro corpo, giovani dall'aspetto insospettabile cercavano di vendere merce bandita dal regno a chiunque la desiderasse... Ero disgustato da questo aspetto di Londra.
Quando fui davanti a casa del professore, tutte le luci erano accese, segno che nessuno in casa stava dormendo. Bussai piano e abbassai il volto, consapevole che avrei ricevuto una bella sgridata. Venne Flora ad aprire, aveva gli occhi gonfi di lacrime.
«Luke!» strillò, prima di tirarmi uno schiaffo «Luke, Luke, razza di idiota!» sentii dei passi dietro di lei, «si può sapere dove diavolo eri?! Non puoi sparire così, non-»
«Flora, calmati-» Layton posò una mano sulla spalla della bambina, prima di guardarmi truce. «Sono certo che Luke saprà darci una spiegazione a riguardo.»

Come un fiume in piena sfogai tutto quello che mi tenevo dentro con il professore. Eravamo seduto sul divano ed io non avevo potuto fare a meno di abbracciarlo per piangere tra le sue braccia. Gli parlai delle mie preoccupazioni, di quanto temessi dirgli addio per sempre, di quanto desiderassi passare la mia vita con lui e lui soltanto, di quanto mi fossi sentito solo al molo il pomeriggio precedente e di quanta paura avevo provato al mio risveglio non ritrovandomi sotto la sua protezione. Lui ascoltò senza dire una parola, accarezzandomi di tanto in tanto il capo. Mio padre, seduto al tavolo, mi fissava come si guarda qualcosa di nuovo e sconosciuto, con uno stupore amareggiato e incuriosito allo stesso tempo.
«Bambino mio,» disse poi il professore con una voce dolce. «non è un addio, ma io penso tu lo abbia già capito. Non dubitare della nostra amicizia, non lasciare che l'idea del tempo che passeremo lontani logori i nostri rapporti. Sei un ragazzo prezioso per me, e nemmeno tra mille anni la cosa potrà mai cambiare. Ti aspetterò, tutta la vita se devo, ma non temere di partire solo per questo. Non è un addio, ma un dolce arrivederci.»
Rimasi senza parole. Sapevo me lo avrebbe detto, ma non conoscevo l'effetto che avrebbero avuto su di me quelle parole. Stavo male, ma una parte di me era felice. Credeva in noi, credeva nel nostro bizzarro rapporto, credeva in un nostro futuro assieme.
Mi bastava questo per sentirmi meglio, almeno un po'.

*

La nave era immensa al mio fianco, sovrastava l'oceano e il cielo coprendoli completamente. Mi voltai verso il porto: era l'ultima volta che lo avrei visto, era l'ultima che avrei visto Londra. Abbassai lo sguardo a terra e sentii gli occhi riempirsi di calde lacrime che non avevo il coraggio di far scendere. O ora o mai più sussurrò il coraggio al mio cuore, che sobbalzò.
Se... glielo avessi detto? Quella nave, se fosse andata male, mi avrebbe portato via da ogni possibile conseguenza.
Ed io avevo bisogno di dirglielo.
«Professore-» alzai il volto e sentii le lacrime rigarmi il volto «Io- Io amo solo lei, dunque, mi aspetti la prego!» e senza aver il coraggio di guardarlo in faccia lo abbracciai e iniziai a singhiozzare copiosamente. Mi strinse dolcemente nel suo abbraccio per istanti che mi sembrarono eterni, pi si staccò e si inginocchiò alla mia altezza. «Quello che ti darò ora è molto prezioso, ma ho bisogno che tu mi faccia una promessa: quando sarai diventato un vero gentiluomo tornerai qui per restituirmelo, intesi?»
Con le gote arrossate e il cuore che vibrava per la curiosità, annuii. «Certo professore, manterrò la promessa.»
Ciò che mi diede in quell'istante lo porterò sempre nel cuore, non penso potrò mai dimenticare quell'attimo che concise con la realizzazione di ogni mio più piccolo desiderio. Il professore mi si avvicinò e premette le labbra contro le mie in un contatto dolce e innocente che durò solo pochi secondi.
«Glielo prometto...» sussurrai non appena si staccò, lasciando che un'ultima lacrima cadesse dalla trama folta delle mie ciglia.

 

Da quel giorno impegnai tutte le mie forze
per di diventare un vero gentiluomo
e poter tornare dal mio tanto amato professore.

-Fine-

LxL

   
 
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