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Autore: E u r eka    11/11/2010    5 recensioni
Casa sua aveva smesso di esserlo nell’attimo stesso in cui non l’aveva scelta, preferendovi l’abbraccio caldo e impacciato, la voce incerta e roca, le dita screpolate dal freddo cupo di un inverno inconcluso e le parole graffianti, ruvide di Inuyasha.
Casa era Inuyasha eppure Kagome rise riconoscente come non mai mettendovi piede di nuovo e per la prima volta.
Casa era Inuyasha, ma quella – pareti da riempire, pavimenti su cui sedersi abbracciati, finestre a cui affacciarsi e da aprire per far intrufolare visitatori- quella era casa loro, tutta loro. E un giorno forse sarebbe stata anche della sua famiglia passata. Per questo voleva riempirla di sé e della felicità che provava con Inuyasha, in modo che in quel giorno e tempo futuri anche loro – la mamma, Sota e il nonno- potessero avere un pezzo di sé come lei conservava i loro nella memoria.
“A cosa pensi?” inquisì Inuyasha, il viso a pochi centimetri dal suo. Kagome sorrise sfiorandogli la bocca con la sua, serenamente. “Solo che sono molto, molto felice.”
Ed era vero, così tanto da far paura.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kagome
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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“Spiegami ancora una volta perché lo stiamo facendo” ringhiò Inuyasha posando una pila pericolante di piatti sporchi sul bancone. Kagome sospirò dietro ai fornelli che aveva ricordato amaramente dover essere ancora inventati in quell’epoca, asciugandosi le mani nel grembiule.

“Per aiutare Sango e Miroku” ripeté col tono di chi è stato costretto a fornire quella risposta più volte nel corso della giornata e non ne può più di sentirsela porre.

“Passi per Sango, ma per quale motivo dovrei aiutare il bonzo?” chiese di nuovo il mezzo demone, più corrucciato che mai.

Lei mise le mani sui fianchi voltandosi completamente e trafiggendolo con un cipiglio così marcato che Inuyasha si ritrovò a deglutire ancora prima che aprisse bocca. “E’ nostro amico, padre delle tue figliocce. Ritengo sia il minimo tu possa fare dal momento che hai contribuito con lui alla distruzione di metà villaggio a quanto si racconta.”

“Ehi!” si difese subito, “si dà il caso che il demone stesse scappando.” Kagome scosse il capo sconsolata stringendo le labbra in una smorfia sottile.

“E pensi questo ti desse il diritto di usare la cicatrice del vento? Contro un avversario che tra l’altro avresti potuto sconfiggere anche senza usare la Tessaiga?” continuò imperterrita e severa. Inuyasha si vietò di incassare la testa tra le spalle come un bambino sgridato, ma non poté evitare alle proprie orecchie di agire per conto loro abbassandosi colpevoli.

Kagome distinse chiaramente tra i mugoli bassi e sconnessi di lui le parole “noia” e “fuggire” e ancora “noia” ed increspò le labbra in un sorriso tenue che soppiantò l’espressione truce che aveva accompagnato le sue parole.

Era stato un periodo relativamente calmo quello, troppo tranquillo per i gusti ben poco pacifici di Inuyasha e non si stupiva che le conseguenze del suo umore uggioso e tediato si fossero ben presto fatte sentire.

E se anche essere costretti a lavorare nel piccolo santuario del villaggio scampato per miracolo all’annientamento totale non era propriamente da considerarsi come migliore scappatoia da quell’impasse, Kagome aveva trovato fosse un buon modo per ripagare i paesani senza scucire la paga che Miroku si era rifiutato categoricamente di restituire, adducendo come pretesto la scusa che il lavoro fosse stato portato a conclusione come promesso benché con incidenti di percorso indesiderati.

Era stata Sango a svelarle la realtà e cioè che avesse già speso tutto per comprare dei nuovi giochi alle bambine. Kagome non vi aveva visto nulla di male, oltre l’insospettabile amore familiare di lui ed era stata dunque ben felice di proporsi come aiuto non potendo Sango essere presente perché costretta a letto da una nuova gravidanza e volendo Miroku starle il più vicino possibile.

Ciò che non aveva previsto però era stata la testardaggine iniziale con cui Inuyasha aveva deciso di non aiutarla, la ritrosia dopo un paio di Osuwari e infine la rabbia rancorosa e lamentevole con cui aveva infine accettato dopo infinite promesse di ritorsioni e minacce.

Alzò gli occhi al cielo tornando ad aiutare le altre donne nella preparazione dei piatti da portare agli ospiti e premunendosi tuttavia di sporgersi per poggiare un bacio lieve e veloce sulla guancia del mezzo demone.

Rise del broncio che adesso lui sfoggiava e rientrò nelle cucine a passo svelto mentre Inuyasha tornava nella sala di fianco a cuor leggero e con un velo di rosso intorno alle guance dovuto probabilmente al caldo.

 

 

 

~~~

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Casa dolce casa

 

 

 

 

 

 

 

“Sei stato molto bravo oggi. Forse servire ai tavoli è il lavoro dei tuoi sogni, chi lo sa.”

Kagome lo prese in giro con un sorriso spensierato e dolce che ammutolì la risposta che lui aveva pronta in cantiere. Capitava sempre più spesso da un po’ di tempo a quella parte infatti che il solo sorriso di Kagome riuscisse a farlo tacere in modo orribilmente totale.

Tornò a prestare attenzione all’erba e al lieve scricchiolare sotto i piedi, l’afa che si andava attenuando col calare delle ombre della sera condensandosi in una nebbia sottile e traslucida sul profilo basso dell’orizzonte.    

Stavano tornando al villaggio e quando poco prima Inuyasha aveva intravisto le lanterne di carta che Kagome aveva insistito fossero appese alle porte di ogni casa in occasione del Geshi, entrambi avevano deciso di concedersi una passeggiata al limitare del bosco sacro che un tempo gli era stato dedicato.

Ora Kagome non gli era più accoccolata sulla schiena, ma in piedi al fianco e lui quasi rimpiangeva il calore che la mancanza del suo corpo premuto al suo non gli permetteva più di percepire e la distanza impercettibile tra le loro braccia che si sfioravano ad ogni passo.

“Sei ancora arrabbiato per via di Miroku?” gli chiese d’un tratto fermandosi e costringendolo a fare lo stesso.

Sembrava impensierita, forse preoccupata dal suo silenzio e si ritrovò a borbottare un no che la tranquillizzasse, abbastanza da permetterle di prendergli la mano intrecciando le loro dita come faceva coi fiori, per creare le ghirlande che la piccola Rin le aveva insegnato a fare, e poi riprendere a camminare.

Kagome gli si poggiò contro, dal lato che aveva imparato a rendere proprio da sempre, quello sinistro in cui non c’era la Tessaiga appesa nel suo saya e dove la mano di lui era già col palmo rivolto verso il suo ogni volta che gli si avvicinava.

Lo stato di tensione che aveva provato poco prima si dissolse istantaneamente, sciogliendosi e facendo distendere i muscoli tra scapole e spalle. La stanchezza fluiva via mentre il vento della sera gli portava alle narici aria impregnata del profumo di Kagome e il suo respiro delicato come soffi di un gattino.

C’era il rumore del fruscio prodotto dallo yukata e dei geta che calzava al posto dei soliti zori e che producevano un debole struscio contro il terriccio umido. In sottofondo le cicale frinivano cullandoli nella brezza leggera insieme allo stormire delle fronde scosse degli alberi e al gorgoglio del ruscello poco distante.

Kagome alzò il volto verso l’alto e Inuyasha vide riflessa nei suoi occhi la cupola che la volta celeste era, attraverso quell’aria sognante e ammaliata che la rendevano di una bellezza dolorosa e fragile, da proteggere.

“Sai, questo è uno dei motivi che mi fanno tanto amare quest’epoca” sussurrò incantata, studiando il cielo bluastro e il miliardo di puntini accecanti che costituivano quel fascio di minuscoli pianeti tanto distanti e diversi da quello in cui loro si trovavano. Distanze quelle, su cui lei aveva imparato a sorvolare dall’alto di un’esperienza personale, unica e magica. “Non è meraviglioso?” chiese in un bisbiglio emozionato.

Lo era davvero.

Si chinò imprigionandole le labbra con le sue ancora prima che lei potesse voltarsi, respirando dalla sua bocca e sentendo i suoi pensieri accavallarsi sulla punta della lingua in movimento prima che questi potessero trasformarsi in parole o forse insulti.

Sorrisero l’uno sulla risata dell’altra staccandosi, ma di poco, le fronti unite, i capelli scuri e pieni dei riflessi delle stelle di lei che si mischiavano ai suoi sul petto. Kagome gli strinse l’hitoe all’altezza del collo, facendosi scorrere quella veste rosso fuoco che aveva imparato ad amare quanto chi la indossava tra i polpastrelli. Nulla da ridire, davvero, ma…

“Sei decisamente strano” considerò sovrappensiero.

Inuyasha arcuò le sopracciglia, stupefatto e per alcuni versi disorientato.

Fece per dire qualcosa in sua difesa, ma lei lo zittì con fare imperioso.

“Questo non sei tu o meglio sì, sei tu, ma troppo…” annaspò come cercando una spiegazione che risultasse combaciante alle sue impressioni. La trovò. “Troppo mansueto ecco.”

Fu lui stavolta a scrutarla, scettico e divertito. “Mi stai dicendo che ti lamenti perché…” scelse con cura le parole più adatte nello stesso modo in cui lei aveva fatto, “ti sembro troppo gentile con te?”

Kagome ammutolì cincischiando ancora con l’orlo della sua giacca. “Non è che voglia protestare, certo che no” balbettò imbarazzata. “Ma ammetterai” proseguì puntando gli occhi nei suoi con maggiore sicurezza e una certa luce di determinazione ben conosciuta, “che sia abbastanza bizzarro, no?”

“Ora quindi, a meno che tu non sia Shippo con le sue sembianze e spero davvero tu non lo sia perché in tal caso sarei costretta ad ucciderti e poi a seppellirmi viva per il resto della mia vita e Inuyasha ne morirebbe anche perché non sa prepararsi neanche il bagno, figurarsi un pranzo o cose del genere da solo… -o e non ti offendere!” sbottò in ultimo osservandolo in tralice. “Ad ogni buon conto se tu sei davvero tu, voglio delle spiegazioni, subito” ordinò perentoria, il mento pericolosamente alzato sopra la soglia di massima sopportazione.   

Inuyasha prese un respiro profondo cercando di trattenersi il più possibile, ci provò davvero a tenerla per sé, ma fallì miseramente.

La risata sgorgò roca, naturale dal fondo della gola incontrando cammin facendo la ruga di dispetto di Kagome a solcarle la fronte.

Rise finché l’immagine di Shippo che baciava Kagome da ridicola sfumò a labile fastidio, rise sempre più forte a mano a mano che proseguiva, tanto che divenne quel suono piacevole e poco frequente a scandire il tempo e tutto il resto passò a brusio indistinto, in secondo piano.

“Non c’è nulla da ridere” lo accusò subito Kagome e Inuyasha acconsentì col capo.

“Hai ragione.”

Se possibile il terrore di Kagome ora gli sembrava più tangibile che in tutte le battaglie che avevano condiviso in quegli anni, una paura che schiacciava e superava perfino lo stato di orrore in cui l’aveva trovata all’interno dello spazio in cui la sfera l’aveva imprigionata.

“Ecco, ora ne ho la prova.” Si allontanò di scatto portandosi in una posizione di difesa forse, ma che lui non riconobbe, gli avambracci l’uno poco distante dall’altro posti davanti al viso, i pugni ben stretti, le gambe leggermente divaricate. Un sorriso sghembo questa volta fece capolino, ma lei non si raddrizzò né diede mostra di star scherzando.

 “Kagome…” la richiamò allora spazientito, incrociando le braccia al petto nelle lunghe maniche.

 “Chi sei tu e cosa ne hai fatto di Inuyasha?”

Lui sbuffò apertamente ora. “Cosa ti fa credere che io non sia io?”

“Mi hai appena dato ragione e Inuyasha non lo fa mai, anche quando è evidente a chiunque che sia lui ad essere nel torto.”

“Questo non è vero” replicò lui con stizza, chiaramente toccato da quell’accusa.

“Sì che lo è” ribatté lei.

“No, non lo è” insistette lui a denti stretti.

“Sì!”

“No!”

“Ti ho detto di sì invece!”

“Ah, dannazione!” Le si portò davanti prendendola per la vita ed abbracciandola così strettamente da toglierle il fiato. “Sei contenta ora? Ti sembro abbastanza idiota da essere in me?”

“Io…” pigolò Kagome, ma lui non diede segni di averla ascoltata.

“Possibile che con te debba sempre finire in questo modo?” sbottò seccato.

“Non era mia intenzione…”

“Mi hai chiesto se ero Shippo!” disse lui stralunato alla sola idea e lei arrossì miseramente per l’infondatezza delle sue farneticazioni. “Beh sì” ammise, “ma solo perché tu…”

“Ti sembra così strano” l’interruppe lui con forza, due dita a tenerla ferma premute su una guancia, “che sia semplicemente felice al saperti qui con me?”

Kagome sgranò gli occhi, in silenzio e lui la lasciò andare, chiudendo invece i suoi e ritraendosi.

Le diede le spalle allontanandosi e la sentì subito seguirlo.

“Inuyasha io…” cercò di spiegarsi standogli alle calcagna. Lui andava maledettamente veloce e camminare su quegli affari sarebbe stato complicato per chiunque, figurarsi per lei abituata a mocassini dalla suola piatta. Inuyasha però rallentò sentendola affannarsi tanto alle sue spalle e lei riuscì a raggiungerlo.

“Non dire nulla” l’avvertì.

“Non posso!” Lo tirò all’indietro per i capelli e lui digrignò i denti. “Lasciami.”

“No! Io… mi dispiace, non avevo capito nulla, scusa!” proruppe in un grido strozzato.

“Non fa niente.”

“Sì invece!”

“Ricominci?” sillabò lui con impazienza.

“Acci-… Hai maledettamente ragione.”

Kagome si portò le mani al viso, intimamente sconvolta. “Chi avrebbe mai detto che quella dei due ad essere psicolabile sarei diventata io?” si domandò a voce abbastanza alta ché anche lui la sentisse.

“Ehi!” s’infiammò come previsto Inuyasha. “Io non sono mai stato psico- qualcosa!”

“Si dice psicolabile” lo corresse lei in un riflesso incondizionato, “e per la cronaca sì, lo sei stato per un mucchio di tempo posso garantirtelo.”

Annuì tra sé e sé a conferma, ricordandosi delle innumerevoli volte in cui si era comportato come tale.

“A pensarci bene potresti persino vincere una medaglia d’oro, ovviamente se esistesse una gara del genere cosa di cui dubito, ma…”

“Kagome…” la richiamò lui, vincendo l’istinto di massaggiarsi le tempie nel patetico tentativo di scongiurare l’emicrania in arrivo.

Lei lo fissò spaesata, come ricordandosi solo allora che anche lui fosse lì.

“Oh già, stavamo dicendo…” e lo guardò ancora, quasi chiedendogli di ricordarle l’argomento di conversazione.

L’impulso diventava sempre più intenso.

“Non ne posso più!” quasi le gridò contro interrompendo il suo sproloquiare insensato.

Kagome stese le labbra in una pigra dimostrazione di soddisfazione per niente segreta.

“Era ora” osservò spavalda e Inuyasha l’incenerì senza pietà con l’espressione più odiosa del suo repertorio, una di quelle che a Kagome all’alba del loro comune rapportarsi in base ad un indefinito trattato di dispetti e malevolenza reciproca, aveva fatto temere fosse dovuta più che altro alla mancanza di una qualche elaborata attività intellettuale oltre la fitta cascata di capelli argentati, ma che in seguito era riuscita a comprendere fosse la solita mimica facciale del mezzo demone quando messo alle strette. L’ultimo invalicabile rifugio tra sé e una verità inconfessabile, di un’entità tale da metterlo a disagio al solo pensiero.

Era con quei sotterfugi in fin dei conti che era riuscito a non dirle che l’amava per tutto quel tempo.  

“Felice di essere insopportabile?” domandò in modo irritante.  

“Che vuoti il sacco e la smetta di essere diverso da quel che sei” scandì Kagome scrollando il capo, insensibile a quel comportamento da sbruffone. “Non so perché tu lo stia facendo e non ti costringerò a dirmelo, ma voglio che torni ad essere lo psicolabile mezzo demone di cui io mi sono innamorata.”

Lo vide irrigidirsi e rifuggirla, d’improvviso incapace di sostenere la sua vista. Inuyasha odiava essere messo alle strette, così come odiava manifestazioni tanto esplicite. Lei lo sapeva e ciò nonostante l’aveva costretto in uno di quei momenti di assoluta sincerità che tanto detestava.

“E va bene” borbottò con quel suo dire ringhioso, come se quella semplice constatazione gli fosse stata scucita a forza dalle labbra, serrate nei canini che le martoriavano con un nervosismo palpabile, rabbioso e ferito. L’oro imbrunito dell’iride, oltre il velo dato dalle palpebre chinate sulle ciglia in un gesto impietoso di rifiuto della presenza della sua persona, era soffuso di un disagio e una stanchezza sfiancata.

Non che fosse qualcosa di cui andare orgogliosi, per carità!- ma prenderlo per esasperazione le riusciva sempre benissimo.

Inuyasha si chinò in avanti dandole la schiena. La curva familiare e il tepore che sapeva dell’odore selvatico di lui, del muschio che anni prima lei aveva calpestato arrampicandosi sui rami intrecciati al suo corpo imprigionato al Goshinboku, delle foglie sempreverdi dell’albero secolare e della resina smielata pianta dal legno della corteccia come sangue di linfa.

Inuyasha conservava lo stesso aspetto e lo stesso odore così come lei la bolla di emozione indistinta che le esplodeva in petto feroce ad ogni contatto delle loro pelli. Poggiò la testa nell’incavo del collo mentre Inuyasha le prendeva le caviglie. Le sue mani le carezzarono le gambe goffamente, fermandosi alle ginocchia e lì rimanendovi allorquando iniziarono a muoversi con agilità nel folto della foresta del loro primo incontro, segnato dalle stelle che avevano ammirato.

Il mezzo demone brontolava alla luna che sorgeva, frasi contro di lei in un linguaggio che le scaldò il cuore e la fece sorridere. Perché quel dannata, checché ne potessero pensare gli abitanti che a lei di nuovo si appellavano col titolo onorifico di saggia Kagome-sama, per lei e le proprie orecchie era quanto di più bello potesse esistere, bello quasi quanto il Kagome che lui aveva sussurrato con dolcezza inusuale e nuova il giorno dopo il suo ritorno, riscoprendola reale e vera ancora al suo fianco.

E brontolava Inuyasha in modo tutto suo, contro la curiosità che si sapeva essere donna, ma soprattutto Kagome, nella fiera necessità di risposte che lei si era inchinata a domandare come sempre, dando voce alle sue riflessioni mai segrete. Perché Kagome non teneva mai nulla per sé sola, ma voleva sempre condividere con lui qualsiasi cosa le accadesse, ogni scoperta straordinaria o minimo particolare che le fosse gradito. E per lui era un piacere riscoprire in cose vecchie e date per scontate un’attrattiva sconosciuta.

Non c’erano segreti che tenessero con Kagome, ma per un attimo aveva sperato che solo quello potesse rimanere tale ancora per un poco, il tempo necessario di completarlo portando a termine il disegno originario.

“Spero tu sarai contenta adesso” le disse con maleducata sgarberia, ma Kagome non si lasciò convincere dalla scortesia nella sua voce concentrandosi piuttosto sulla nota di fondo che la rendeva particolarmente agitata.

“C’è qualcosa che ti preoccupa Inuyasha?” gli domandò perciò in un fremito d’apprensione incondizionata.

Lo Tsk poco ortodosso la spinse a poggiare il naso contro il suo mento e a decidere di attendere che fosse lui ad indicarle ciò che era suo desiderio mostrarle.

Giunti poco lontani dallo spiazzo che lei subito riconobbe, quello che conteneva il pozzo e tutto ciò che i ricordi dell’altra vita cui aveva deliberatamente rinunciato rappresentavano per entrambi, Inuyasha la mise giù con delicatezza.

Senza la luce delle fiammelle aranciate nella carta di riso colorata delle lanterne, tutto appariva buio e privo di illuminazione. Gli alberi che li circondavano erano avvolti in una tela di oscurità fitta come neve, ma facilmente diramabile dai fili di ragnatela rappresentati dai raggi lunari.

Kagome dovette sbattere più volte le palpebre per abituarsi al cambiamento, la mano di Inuyasha che la guidava nella cortina di tenebre con sicurezza.

“Potresti dirmi dove stiamo andando?” sussurrò al suo indirizzo.

“Vedrai” lo sentì dire in risposta e poi aggiungere un “donna cocciuta”.

“Era una sorpresa” disse lui dopo momenti di silenzio in cui c’erano stati solo i loro passi e il battito a rimbombare contro le costole ad accompagnarli. “Ma naturalmente chiedere di mantenerti nascosta una cosa del genere sarebbe stato troppo, vero? Una richiesta assolutamente inattuabile con una ficcanaso come te” sibilò.

Sembrava arrabbiato eppure Kagome ancora percepiva quella concitazione che, conoscendolo, avrebbe potuto in altre occasioni bastare a metterla in allarme. Perlomeno era tornato ad essere il solito e intrattabile Inuyasha, pensò con un sospiro che non seppe interpretare neppure lei se fosse di sollievo o rimpianto.  

All’improvviso lui frenò, tanto bruscamente che lei gli finì contro. Non cadde, bloccata in procinto di farlo dalle mani di Inuyasha che l’avevano agguantata pronte. “Siamo arrivati” spiegò e Kagome si allungò sui sandali per vedere ciò che il busto del mezzo demone tentava disperatamente di nascondere alla sua vista ancora per poco.

“Prima che tu possa dire qualunque cosa, sappi che non è ancora finito.”

Kagome non chiese cosa di preciso non fosse finito, concentrata nel mettere a fuoco la sagoma scura e alta e imponente di quella struttura in ombra.

Mosse qualche passo incerto, troppo stordita perché il suo sgomento trovasse voce, tutta stretta in una morsa di subbuglio e palpiti di amore così grande da spiazzarla e farla traballare pericolosamente.

“Inuyasha” mormorò e il mezzo demone che aveva atteso con trepidazione una sua reazione, smise di torcersi la mandibola nell’ansia che lo divorava.

La sua casa o ciò che era stata la sua casa fino a quel momento, il luogo in cui era cresciuta e che aveva visto la bambina diventare ragazzina e poi tramutarsi in donna, era lì di fronte a sé, diversa e uguale al contempo, in una visione meno moderna, ma più recente. Un’imitazione così fedele che le si inumidirono gli occhi al pensiero di quanta fatica e arroventamenti di cervello fossero costati ad Inuyasha per renderla riproduzione tanto scrupolosa.

Inuyasha dovette fraintendere quella commozione perché si affrettò a dirle con un ché di terrorizzato: “Il secondo piano manca, perché non ho avuto il tempo di finirlo, ma conto di riuscirci presto, molto presto. E non ti ho detto nulla perché volevo che tutto fosse in ordine prima che venissimo ad abitarci e che diventasse una casa a tutti gli effetti.”

Il primo singhiozzo di Kagome fu una pugnalata, ma il grazie sincero di gratitudine pulsante, le lacrime e i singulti spezzati che seguirono il primo, lo stordirono come le braccia di lei che gli si avvolsero attorno al petto scaldandolo in ogni parte.

“Grazie… grazie… grazie…” sussurrò lei tra una lacrima e l’altra, un entusiasmo così limpido da lasciarlo confuso e impietrito.

Avrebbe potuto dirle che era nulla in confronto a ciò che sapeva in tutta onestà lei avesse fatto per lui, che la fatica e l’impegno messi in quel regalo non erano che briciole e polvere di sudore rispetto al vuoto, la desolazione e il senso d’abbandono cocente che aveva provato in quei tre anni di lontananza costretta. Che la sua presenza era diventata così indispensabile e ogni sua piccola assenza così insopportabile, da rendere ogni sua azione per lei molto più egoistica di quanto ad occhio imparziale potesse apparire.

La felicità di Kagome era quanto di più prezioso potesse pensare ed era un capriccio il mantenerla tale, che si sarebbe concesso il privilegio di preservare per tutta la vita se lei avesse voluto e acconsentito a ché lo diventasse.

“Ti piace?” domandò sommessamente e Kagome alzò di scatto lo sguardo umido e intriso della gioia che le infiammava il volto, in una sorpresa sgranata e autentica.

“Piacermi?” trasecolò. “Inuyasha è quanto di più meraviglioso nessuno abbia mai fatto per me in tutta la mia vita.”

Un altro pregio di Kagome: sicuramente se la cavava meglio di lui a parole quando si trattava di esprimere un concetto o un’impressione particolarmente difficili perché cari.

“Vuoi vederla all’interno?”

“Posso?”

“E’ casa tua” rispose paziente Inuyasha e la condusse verso l’ingresso, quello in cui secoli e secoli dopo sua madre le avrebbe ogni mattina dato il bento per il pranzo e un bacio sulla fronte, in cui Buyo era solito accoccolarsi come una ciambella tra la soglia e la porta aperta, in cui tutti loro avevano detto un euforico banzai di buona fortuna a Sota in occasione della sua prima vera dichiarazione d’amore, in cui il nonno era solito appendere gli oggetti più strani e disparati come buon auspicio, a protezione della casa dagli spettri maligni.

“Casa nostra” rettificò Kagome e lui roteò gli occhi, impaziente.

“Decisamente Kagome… se vogliamo vivere insieme devi fare qualcosa per quel tuo lato psico-.”

Casa sua aveva smesso di esserlo nell’attimo stesso in cui non l’aveva scelta, preferendovi l’abbraccio caldo e impacciato, la voce incerta e roca, le dita screpolate dal freddo cupo di un inverno inconcluso e le parole graffianti, ruvide di Inuyasha.

Casa era Inuyasha eppure Kagome rise riconoscente come non mai mettendovi piede di nuovo e per la prima volta. Ricordi vecchi e brandelli di passato che si mischiavano alle speranze appena nate e alla fragranza del tempo al suo sboccio. Casa era Inuyasha, ma quella – pareti da riempire, pavimenti su cui sedersi abbracciati, finestre a cui affacciarsi e da aprire per far intrufolare visitatori- quella era casa loro, tutta loro. E un giorno forse sarebbe stata anche della sua famiglia passata. Per questo voleva riempirla di sé e della felicità che provava con Inuyasha, in modo che in quel giorno e tempo futuri anche loro – la mamma, Sota e il nonno- potessero avere un pezzo di sé come lei conservava i loro nella memoria.

Chissà forse avrebbe potuto convincere Inuyasha a costruirle anche il santuario. Di quello suo nonno le sarebbe stato davvero debitore ne era sicura. E come ne aveva dato prova, Inuyasha sapeva essere davvero un gran manovale.

“A cosa pensi?” inquisì Inuyasha, il viso a pochi centimetri dal suo. Kagome sorrise sfiorandogli la bocca con la sua, serenamente. “Solo che sono molto, molto felice.”

Ed era vero, così tanto da far paura.       

 

 

 

 

 

 

 

N/A:

O.o Sinceramente, non so neppure io cosa abbia scritto qui sopra. E’ un qualcosa di stranamente inquietante per me perché grazie al cielo non mi capita spesso – sì, di solito comprendo appieno ciò che scrivo seguendo magari un’idea generale. Beh questa volta non è stato così. E’ come se si fosse scritta da sola e non è stato per nulla complicato. L’altro ieri pensavo a quanto sarebbe stato bello riuscire a scrivere qualcosa su questi due personaggi in onore dell’Inuyasha e Kagome Day che sapevo per l’appunto essere ieri. Ricordo di averlo letto da qualche parte, ma non ricordo bene dove di preciso ^^”.

Come stavo dicendo quindi ieri mattina mi è spuntata l’idea vedendo questa immagine http://photos1.blogger.com/blogger/4598/3531/1600/180px-Maneki-neko-ja.jpg. Si tratta di un Maneki-neko, un gatto portafortuna presente in ogni negozio o ristorante giapponese.

Sì, lo so non c’azzecca un piffero, ma che posso farci se la mia mente segue associazioni mentali tutte sue XD? E da quest’associazioni mentale è dunque nato questo.

Chise che in dialetto ainu significa proprio casa, mi è sembrata la scelta migliore per il titolo.

Spero davvero di essere riuscita a trasmettervi qualcosa, un sorriso, una risata per questa coppia stupenda ;) che tra l’altro ho l’orribile sensazione di non aver reso al meglio.

Mi sembrano un po’ troppo maturi e consapevoli, però boh… mi rimetto al vostro giudizio.

Un saluto a tutti =)

 

  

 

 

 

   

 

 

    

      

 

             

     

 

 

 

    

   

 

         

 

 

   

                                     

  
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