Fictional Dream © 2006 (05 novembre 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa,
Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo
di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
*****
A volte ti domandi se la vita non sia davvero tutta un gioco
di rispondenze, il vorticare circolare e implacabile di suggestioni che ti
pugnalano al cuore, senza che tu possa davvero decidere di opporti.
È il ciclo del karma in cui non credevo, quando con la
presunzione dell’adolescenza irridevo persino la croce che mia madre portava al
collo e che ai miei occhi non rappresentava altro se non un rigurgito di
superstizione.
Poi, quando lo conobbi, mi accorsi che anche quel collo
bianco e sottile – candido e sottile com’era lui – vestiva un analogo simbolo e
appresi un’altra verità fondamentale sui sogni dell’uomo: segno e simbolo sono
l’impalpabile diaframma che introduce all’essenza di uno spirito.
Non vanno mai sottovalutati, o non riusciresti più a leggere
i colori con la fedeltà che meritano. Se poi hai chiamato il tuo gruppo come la
quintessenza di quei toni, è una distrazione che non puoi permetterti,
pericolosa e mortale.
Un’infezione senza ritorno.
Non credeva in Dio, ma ne ammirava il Figlio.
‘Perché?’ gli chiesi mentre studiavo accordi che avrebbero un
giorno cantato dei suoi occhi sfocati, di quelle piccole mandorle lucide e
veggenti, acute nel leggerti dentro, quanto inutili per fissare un orizzonte
aperto.
haido, i suoi boccoli rossi contro la mia spalla, toni caldi
ed accesi come quelli del tramonto oltre le finestre dello studio, canticchiava
una scala senza rispondermi. Poi una replica che poteva rappresentare una
rivelazione, ma ch’eravamo entrambi troppo immaturi per cogliere. ‘Perché è
riuscito a sopravvivere al suo più grande dolore.’
A volte mi chiedo cosa sarebbe cambiato nella nostra storia
se solo l’avessi incalzato con una domanda ancora: un interrogativo che mi
avrebbe servito il suo cuore su un piatto d’argento, senza che per vederlo
dovessi aspettare che il destino glielo strappasse dal petto.
Avrei dovuto domandare a lui, o forse a Sakura; a quei due
ragazzi stretti e immobili davanti a una pellicola respingente e feroce.
L’ultima tentazione di Cristo.
Fin d’allora – senza che riuscissi a capirlo – haido già
sognava i suoi incubi.
Se solo gli avessi chiesto ‘Qual è stato il suo più grande
dolore, haido? Che farnetichi?’ o se solo fossi stato più attento, avrei capito
dalla risposta quel che sarebbe stato infine di noi. Senza essere cristiano o
profeta, forse senza neppure possedere l’intelligenza di leggere davvero nei
simboli, haido aveva costruito a misura del suo cuore la storia spietata di un
destino già scritto.
Il dolore più grande di un uomo è il tradimento di un
affetto.
Chi vedeva davvero su quella croce?
Un Redentore mitologico, venduto da un amico, rinnegato da un
altro, trafitto dall’indifferenza e condannato dall’ignoranza, o se stesso?
Avevamo poco più di vent’anni, allora; persino davanti a un
tramonto ci sentivamo immortali. Credevo che sarebbe durata per sempre, senza
fidarmi di quello strano istinto che in haido era sempre stato una veggenza
obliqua, quasi profetica. O forse, a tratti, si guardava con i miei occhi e
capiva quanto divorante potesse essere la mia ambizione; tanto a bruciare ogni
ostacolo. Tanto da bruciare anche lui.
Non voglio credere alla circolarità del karma, né
all’ineluttabilità del destino, eppure mi chiedo se nella foresta dei suoi mille
simboli, haido non ne abbia cercato ancora uno con cui indicarmi la strada. Il
dubbio amletico è se voglia ricondurmi a sé o chiedermi di sparire e dissolvermi
una volta per tutte, liberarlo di un filo rosso e stretto, che l’ha strangolato
senza riuscire a salvarlo. E allora vorrei tanto seguire quella traccia, se
ancora esiste, per dirgli che di me – di noi – non ha mai capito nulla.
Neppure che ogni suo respiro è una mia concessione.
Neppure che la sua vita è un frammento di un amore
impossibile, di un affetto degenerato, di una notte a Soho in cui potevo
perderlo per sempre, e invece mi sono ritratto per salvare entrambi.
Probabilmente sono un codardo.
Probabilmente, però, sono molto più intelligente di Sakura:
non sono stato al gioco, mi sono ritratto prima ancora che cominciasse, eppure
ora che mi ritrovo a fissare, come uno spettatore muto oltre la cornice di una
pellicola combusta, quel che resta di una nostra memoria, la dolcezza del
rimpianto diventa il fuoco del risentimento.
Ha scelto il ventisette febbraio.
Gli anni l’hanno reso più scaltro e più prudente, è evidente.
Quel che mi domando è se ci sia qualcosa di preordinato dietro, oppure sia io a
voler per forza di cose trovare il segno di un aggancio o una risposta
all’irresolubile dubbio che mi ha tormentato in tutti questi anni: era amore?
E allora cosa legava davvero noi due?
Ha scelto il ventisette febbraio, non il ventiquattro.
Forse sarebbe stato troppo anche per lui.
Forse gli è mancato il coraggio.
Forse ha realizzato che tutti avrebbero compreso, come se non
si fosse già scoperto abbastanza allora, quando si lasciava morire come un fiore
cui avessero tolto la luce.
Eppure era un altro l’albero ch’era appassito.
Shallow sleep, ventisette febbraio duemiladue.
In luogo di una croce, una bara.
Vorrei trovare il coraggio di guardarlo ancora negli occhi e
dirgli ‘Sei sempre stato bravo con i simboli, haido. Hai colto nel segno anche
questa volta’.
Shallow sleep: a distanza di cinque anni, la prova
evidente che ci pensa ancora. Non ha dimenticato niente. Non ha rispettato la
promessa che tentai di estorcergli allora, una promessa con cui speravo non solo
accettasse me, quanto la prospettiva di andare finalmente avanti, riscoprirsi in
un futuro che non fosse un pugno di giorni d’oro, ma un orizzonte in cui, denti
stretti e pugni chiusi, avremmo risalito la china di quel Golgota di merda su
cui ci avevano crocefissi.
Vorrei davvero parlargli e forse persino parlare di quei
giorni. Vorrei ricordargli la tensione e la speranza e la rabbia degli Zombies o
di quei lunghi giorni di Germania, in cui registravamo il sabba della nostra
reincarnazione. E su quella croce, sospesi, Ken e io, a volte lo cercavamo con
lo sguardo, per capire dove fosse, oltre l’apparenza dell’ennesimo simbolo.
Shallow sleep: bravo, haido. Per un anniversario,
davvero, non potevi scegliere nulla di più adatto.
Brimming with tenderness
And somewhere in the calm
A feeling that nothing had ever changed
Your presence close beside me till I wake.
Gli ho sempre invidiato a morte – di un odio vero, poi –
questa sua capacità di non celiare davvero mai: di donarsi con un’integrità
tanto scoperta da somigliare a un insulto. Nei miei confronti, soprattutto, una
maschera Nö di prudenti sottintesi.
Invece l’ha sempre raccontato a chiunque.
L’ha scritto ovunque.
Non ha dimenticato le mille mattine in cui quel good morning,
haido-Hideto-hide (comunque l’avesse chiamato) è pure stato l’unico segno di
vita e di felicità aspettasse per svegliarsi davvero.
Sakura che, nudo e steso accanto a lui – nei tempi in cui era
ancora pulito. Nei tempi in cui ancora non si martoriava con i suoi aghi e un
laccio emostatico inutile, se l’emorragia era piuttosto quella del cuore – lo
guarda dormire.
Sakura che gli allontana forse i capelli dal viso, lo copre
con prudente dolcezza.
Sakura che forse si chiede perché haido non riesca a
crescere, come un’orchidea che muore recisa nel suo vaso senza perdere sino
all’ultimo istante un solo atomo della propria perfetta bellezza.
Sakura che soprattutto domanda a se stesso perché esistano
amori tristi, destinati a dissolversi in un oceano di rabbia e dolore, e il loro
è proprio uno di quelli. Ma è anche un amore che haido non ha dimenticato,
perché haido, nel labile limitare tra il sonno e la veglia, ha continuato a
cercarlo.
Persino quando c’ero io a sedere lungo quel confine.
Persino quando mio era quel buongiorno, buonanotte,
ti-senti-meglio, ti-serve-niente.
I just saw you
A moment far too brief
Before the daylight came
But my heart is beating fast
Perhaps we’ll meet again.
O forse la mia è solo una rabbia cieca, che nasce
dall’apparenza e dalla non comprensione? Vorrei che non avesse scritto davvero
quella canzone, perché c’è così tanto di lui nell’interlinea che c’è pure troppo
di me.
Cinque anni; dovrei dirmi che almeno ha aspettato un intero
lustro, eppure non è stato abbastanza perché quella piaga si chiudesse.
Dovrei purgarmi dal ricordo come ha fatto lui e dunque
convenire che sì, ha fatto bene. Ora che ha una vita e un amore – una donna che
lo ha accolto e che si è lasciata accogliere, senza ingiunzioni prevaricatorie,
senza dimenticare mai la sua fragilità –doveva vomitare anche l’ultimo grumo di
sangue e bile, anche l’ultimo pezzo di cuore contaminato e morto.
Ma se guardo quella cover disperata e cerco dietro il segno,
non posso fare a meno di dirmi che questa è una ballata della disperazione, non
della memoria, e se il cuore di haido sanguina ancora, non so perché, le spine
della sua corona affondano anche nel mio.
Dovrei parlargli. Dovrei spezzare il muro di silenzio dietro
il quale mi sono trincerato per primo e trovare la forza di chiederglielo:
perché ha messo in scena la propria morte?
Per chiudere con il passato o per negarsi davvero un futuro,
oltre quel tumore vecchio di cinque anni?
Soprattutto, pensa ancora che sia io il colpevole? Io, il
Giuda di quel Golgota, quando piuttosto gli ero crocefisso accanto e non avevo
neppure la sua speranza di fenice?
La verità è che proprio non me l’aspettavo, ecco tutto.
Non me l’aspettavo, perché questa canzone l’ho già sentita
cinque anni fa.
Non faceva proprio così, ma le somigliava fin troppo, e io
davvero speravo che fosse un suo lascito unico per me, per la voce che ascoltava
e che spezzava allora il suo silenzio; per l’ombra che gli stava accanto, nel
limitare sottile tra il sonno e la veglia, ma che avrebbe sempre ritrovato,
perché forse l’amavo troppo per lasciarlo davvero solo.
Ecco: ora l’ho detto.
Esistono tante forme di affetto, di amore, di possesso, il
problema è cercarne la consistenza nello sguardo, anziché oltre le superfici.
Una volpe diceva che l’essenziale è invisibile agli occhi, ma aveva torto.
L’essenziale è molto di più: non esiste.
Se davvero un uomo potesse disporre del destino – del
proprio, ma anche di quello altrui – non esisterebbero ricordi che torturano per
un intero lustro, perché io non l’avrei mai permesso. L’affetto di cui non ero
mai stato geloso – perché Sakura mi piaceva quanto Hideto. Perché c’era in me
abbastanza spazio per entrambi – finché era stato vitale e dolce, divenne il mio
peggior nemico quando il ciliegio appassì.
E io, per non essere mai stato un attaccabrighe, so
combattere.
Quello sì.
Quando haido capì d’essere innamorato di me, prese per
entrambi la decisione più dolorosa, e si allontanò del tutto. Forse scelse
Sakura anche per quello, perché era bellissimo e fragile come lui. Perché non mi
somigliava per niente.
Quando capii che amavo haido quasi più della musica – ma
suona come un paradosso, perché per me haido era una voce e la musica stessa.
Non c’erano note senza di lui – per contro, feci il possibile per tenerlo
stretto, ma era tardi.
La finestra che avevamo disegnato in Siesta si era
spalancata una volta per tutte, e haido, senza possedere neppure quelle ali a
brandelli che un tempo avevano orlato le sue scapole di passerotto, si era già
lanciato nel vuoto. Non so se per sfuggire a me o a se stesso – a quello ch’era
diventato, una volta che la storia gli aveva mangiato tutti i sogni. Non so se
per avverare l’orribile profezia che si era fatto da solo – morire a trent’anni,
nel pieno dell’inarrivabile invincibilità della sua straordinaria perfezione:
l’unica consapevolezza che possiedo è la mia verità.
Non toccò mai terra.
Non lo lascia cadere; c’era la mia mano stretta al suo polso,
come una tenaglia e come una speranza. Allora stese le dita, cercò le mie, le
strinse forte. Quella era la nostra promessa.
Adesso ascolto Shallow sleep e penso che fosse solo
l’ennesima delle sue bugie; forse proprio il segno di un amore che non voleva
più ricambiare, perché se non potevo prendere il posto di Sakura, allora non
c’era più posto per me, per il suo primo amore.
Per il suo grande amore.
Per il suo carnefice.
Forse so perché ha scelto una bara; non per Sakura: per me.
Perché quella notte voleva morire e io no.
E io non sarei sopravvissuto alla sua voce.
Accadde a Londra. Mi chiedo anche se non sia tornato là a
incidere il nostro requiem per ricordarci com’eravamo allora; per capire se
c’era qualcosa da salvare tra i nostri ricordi più atroci, persino quella notte
a Piccadilly Circus, nel bel mezzo di una tempesta che non somigliava comunque a
quel che nascondevamo dentro.
Io, almeno.
A tratti mi dico che, a essere onesti, forse haido era già
morto in Aprile.
Eravamo a Londra, senza un perché e per troppi perché.
Sembrava un cocainomane, haido, e in fin dei conti non era un’impressione
fuorviante o errata, perché la sua era comunque un’astinenza. Giorni grigi,
umidicci, avvolti in una cappa di irrealtà ed inerzia. Sorrisi senza sorriso a
un obbiettivo. Poche parole, perché c’eravamo già detti tutto.
Eravamo in quattro, soffrivamo in tre, ma ciascuno era
soprattutto talmente solo da non sopportare neppure la vista dell’altro, perché
non si è mai visto un dolore che si divide davvero.
Il dolore – quello vero – cresce in progressione geometrica
tanti sono i fattori.
Gli avevano detto ‘Scrivi’ ma era piuttosto un ‘Inventa,
haido’ perché ai fan non è mai importato nulla della tua vita distrutta, del
tuo cuore a pezzi, di un futuro che non vedi.
Noi eravamo ancora quelli di Vivid colors: a tratti mi
chiedevo se qualcuno avesse ascoltato davvero True. Ne avevamo vendute
più di un milione di copie, ma a ben vedere non ne avevano ascoltata neppure
mezza.
Mi specchiavo la mattina e cercavo Tetsuya Ogawa. Avevo
ventisette anni e me ne sentivo sulle spalle il doppio. Quella lacerazione
profonda che si era prodotta nella nostra storia aveva fatto ringiovanire haido
e invecchiare me; non saremmo più stati quelli di prima, eppure volevo sapere
come sarebbe andata a finire.
Io, almeno.
haido camminava come un sonnambulo sui parapetti del Tamigi e
forse calibrava bene l’ultimo volo. Non si preoccupava di nulla: non sapeva
nuotare e non gli andava di vivere. Non avrebbe opposto la minima resistenza.
Riuscivo a leggere nella sua mente e nelle sue labbra mute,
come tra le righe di una cronaca troppo colorata.
Raccontava quasi solo di cibo, ma pesava quaranta chili con
gli anfibi.
Diceva di uscite e risate; seduto immobile davanti a una
finestra affacciata sui tetti di Londra, disegnava schizzi furiosi e deliranti,
autoritratti mutilati e rabbiosi, carichi di una volontà distruttiva e
implacabile.
Ken diceva che gli sarebbe passata, prima o poi, come si
asciugano le lacrime dopo un pianto liberatorio. haido non aveva mai pianto
davanti a me; forse non l’aveva fatto neppure davanti a uno specchio, per il
timore di sapere come fosse davvero quell’irreale miraggio che aveva costruito
per sentirsi invincibile, salvo scoprire d’essere scoperto e vulnerabile come
mille altri.
Molto peggio, anzi, perché sotto la maschera non c’era più
abbastanza carne per darsi un volto. Non mi sentivo tranquillo, ma la mia
impotenza era un corollario inevitabile di un’autonomia che dovevo dargli,
perché non ero sua madre, né un guinzaglio, né forse più suo amico, perché non
credeva più a niente.
Perché non credeva più in me.
Poi, una sera, non si presentò a cena.
Seduti ad un tavolo, Ken, Yukki e io inventavamo scuse in cui
non credevamo. Fuori crepitava la pioggia di un maggio tetro e disperato come la
nostra fuga: l’assenza di haido era il simbolo della nostra sconfitta. Salii le
scale con il cuore in gola, dicendomi che non avevo ragioni per terrorizzarmi da
solo, conoscendolo abbastanza da prevederne i tiri peggiori. Il suo ciclo del
sonno era stravolto, malgrado sonniferi e antidepressivi; poteva essersi
addormentato a un orario insolito, senza la minima preordinazione.
La porta della sua camera era socchiusa: a spalancarla, però,
non trovai che il vuoto.
Non c’era. Da nessuna parte.
Sul letto, brandelli di un quaderno. Uno di quei frammenti
raccontava più di mille parole.
asai nemuri awaku yurare
ano hi no youni mujyaki na kimi ga
ryoute ni afureru ansoku wo/yasashiku kanade
soba ni iru yume wo mita
Per un istante infinito il mio cuore si fermò, poi riprese a
correre con l’energia furiosa con cui tornai sui miei passi, quasi travolsi i
manager e i miei compagni e scivolai fuori. Il sole stava tramontando
oltre una spettrale coltre di nubi. Non avrei trovato una luce neppure a
implorare, ma non ne avevo mai avuto tanto bisogno.
Una luce.
Dio.
Una speranza.
Non sapevo quanto tempo fosse trascorso, come fosse riuscito
a sfuggirmi così, dissolvendosi sotto i miei occhi che avevano giurato di non
perderlo mai.
haido era una piccola ombra tra le luci di Soho. Per i gaijin
poteva essere un bambino sperduto, forse persino un homeless minorenne, già
sbandato, digerito, inghiottito dalla storia. Nessuno l’avrebbe avvicinato,
perché la miseria è discreta e invisibile quando passa accanto alla vita. Cosa
faceva lì? Forse cercava la sua fiamma di falena pronta a estinguersi combusta.
Forse nella sua mente devastata, ripercorreva l’Eldorado ingannevole di Shinjuku,
alla ricerca della porta di un vecchio magazzino cui bussare piano. ‘C’è
Sakura?’
Forse era già oltre il tempo e lo spazio, pronto a lasciarsi
inghiottire da un vuoto in cui nulla avrebbe avuto più senso, perché il circolo
dei ricordi sarebbe anche stato il suo ultimo oblio.
Riuscii a rintracciarlo fidandomi del mio istinto, della mia
ansia, della mia metà più irrazionale e, proprio per questo, in grado di parlare
la sua stessa lingua. Si accorse che lo seguivo nei pressi di Piccadilly Circus:
rimase a guardarmi un po’ sulla distanza, prima di attraversare la
circonvallazione più pericolosa del mondo senza guardare.
Forse persino con un sorriso.
C’era Sakura dall’altra parte?
Stridio di gomme e il mio schiaffo secco e violentissimo. Un
tuono era esploso sulle nostre teste fradice, come infradiciato e marcio era
l’odore di ogni sentimento, di quell’attimo sospeso tra la vita e la
morte, la ripulsa e l’attrazione più intensa si possa concepire.
Aveva gli occhi pieni di lacrime, ma non era me che guardava,
e questo fece piangere me.
‘Lasciami andare… È lì che mi aspetta.’
Non era vero: Sakura era vivo. Era persino più vivo di lui,
di me, di quella notte irreale fatta solo di rimorsi.
‘Cosa ho fatto, Sakura? Mi perdoni?’
Già delirava, mentre lo trascinavo lungo strade estranee e
volti indifferenti e un silenzio che la pioggia non riusciva a estinguere,
rendendolo forse ancora più denso e ancora più tetro.
‘Mi dispiace… Mi perdoni?’
Era a me che avrebbe dovuto chiedere scusa; a me che ero
fradicio e lo guardavo tremare tra le mie braccia, senza che si sforzasse di
realizzare che ero lì, che io c’ero: non ero un’ombra del ricordo, non ero
felice, ma non per questo ero meno vivo e pronto a ricominciare.
‘Dio, tetsu. Ti prenderà un colpo.’ Mi asciugavo con energia
e lasciavo che Ken fumasse senza dirgli nulla, una volta tanto, perché delle
tante morti di cui si poteva morire, non era quella la più dolorosa.
Probabilmente lo sapeva anche lui, per questo correva il rischio.
haido, arricciato sotto le coperte, il viso patito arrossato
dalla febbre, mi guardava senza dire nulla. Tutto quel che leggevo nella sua
espressione era l’agonia di una bestiolina ferita a morte. Non c’era rancore,
quello no, eppure una rassegnazione che faceva ancora più male.
‘Mi dispiace tanto.’ Delirava e sussurrava quella formula
come se potesse decidere di tutto. Persino quell’orribile punto di stallo.
Tremava, malgrado tutte le sue coperte. Senza pensarci
troppo, mi spogliai e mi stesi accanto a lui. La sua pelle, contro la mia, era
morbida e rovente.
Chiusi gli occhi per non ascoltare il mio desiderio, senza
immaginare quelli di haido restassero aperti.
Fissi su di me.
Si accoccolò stretto, contro il mio petto.
Avevo voglia di piangere, al pensiero che non era comunque
mio il corpo che voleva e che cercava per l’ennesima volta.
Le sue dita sulla mia pelle, le sue labbra contro i miei
capezzoli: usava il mio corpo per fare l’amore con i suoi ricordi?
Divideva con me fino in fondo quel che avevo sospettato, ma
mai davvero conosciuto?
Per una notte mi regalava il posto di Sakura e un privilegio
per cui forse uccidere non sarebbe stato poco?
Rigido, immobile; haido non era ora che una macchia d’ebano
oltre l’ocra pallido del piumone, la sua bocca scivolava su di me e mi tentava
come nel migliore e peggiore degli incubi insieme. Le sue dita contro l’elastico
dei miei slip: percepivo il mio sesso eccitato e teso, tanto da far quasi male.
‘Mi dispiace… Tetchan.’
Un ultimo, leggero soffiato, prima di baciarmi con una forza
che non pensavo avesse, stretto contro di me.
Duro contro di me.
Leccavo le sue labbra, accarezzavo la sua lingua, mi
scioglievo nei rivoli caldi dell’eccitazione di tanti piccoli morsi contro la
mia pelle.
‘Ho sbagliato tutto. Mi dispiace.’
Che stesse zitto, e non smettesse di baciarmi.
Il mio io, scisso tra l’onda del desiderio e quella del
buonsenso, gli apparteneva e lo respingeva al contempo.
‘Mi dispiace.’
Dispiaceva anche a me; volevo vivesse, non regalargli la mia
vita.
Lo allontanai con decisione. Non dovevo dirgli niente che non
potesse capire da solo. Ci addormentammo comunque vicini e stretti, nella
complementarietà ideale delle nostre conchiglie.
“Good morning, haido,” gli dissi al risveglio.
Mi diede le spalle, si coprì il viso con le lenzuola e
cominciò a piangere, mentre trattenevo tra le dita quelle ciocche d’ebano dense
e nere, resistenti e belle come non c’era nulla di simile in noi.
Non eravamo forti e non eravamo così resistenti.
Raccolsi quella strana poesia, gli chiesi cosa dovessi farne.
‘Buttala via,’ mi disse, rendendomi felice.
Non immaginavo ne limasse gli accenti nel proprio cuore, né
che avrebbe continuato a farlo per cinque anni.
La prima volta in cui ho ascoltato Shallow Sleep mi
sono infuriato come non credevo potesse capitarmi.
La seconda, ho ricordato sentimenti che avevo perduto.
La terza, però, ho pianto le lacrime che non avevo allora,
senza sentirne il minimo sollievo.
Forse ha ragione lui: resteremo immobili, sospesi nel punto
zero tra il sogno ed il desiderio, a cercarci con lo sguardo finché non avremo
il coraggio di augurarci di nuovo il buongiorno.
Insieme.