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Autore: E u r eka    13/11/2010    4 recensioni
Un bussare discreto alle sue spalle e il volto dolce e comprensivo di sua madre a far capolino dalla porta, per nulla sorpresa di trovarla già in piedi accanto alla finestra, a portarle la divisa appena stirata da indossare per la cerimonia.
Un sospiro sincero stavolta.
Un altro anno era trascorso e lei era ancora lì, a sognare e disperarsi per quel che era aldilà di un pozzo magico, incapace di dimenticare e voltare pagina.
Di mettere a tacere la voce che si levava singhiozzante dal proprio cuore in frantumi.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kagome
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Blinding

XI. Blinding
"All around the world was waking, I never could go back
'Cause all the walls of dreaming, they were torn right open
And finally it seemed that the spell was broken (...)
No more dreaming of the dead as if death itself was undone
No more calling like a crow for a boy, for a body in the garden (...)
No more dreaming like a girl so in love with the wrong world."

[Florence and the Machine]

 

 

 

Il chiarore del timido albeggiare trovò modo di filtrare tra le persiane abbassate e lieto di quell’entrata iniziò a rincorrersi sulle pareti rosa pesca della stanza sotto forma di prismi e gocce di rugiada riverberata.
Fasci sottili e dalle tonalità sfumate, spade di luce dal profilo aggraziato e longilineo fenderono l’aria rarefatta conficcandosi nel tappeto di folta pelliccia e nel piumone a fiori.
Nel letto qualcuno mugolò sommessamente, manifestando il proprio disappunto per quell’irrispettoso intrufolarsi nel suo sonno e per l’aver provocato un risveglio che avrebbe ben volentieri posticipato ad un momento più tardo.
Capricciose, due mani abbracciarono il tessuto delle lenzuola portandoselo oltre le spalle e la testa corvina si infilò lesta sotto i guanciali. Breve ristoro dopo il vile colpo agli occhi e il trillo prolungato della sveglia, simile a un lamento dal suono isterico, le giunse alle orecchie trapassando lino e piume e l’irrisorio desiderio di rimanere nel guscio confortevole creato dalle coperte.
Insidiosi, i vari strilli si susseguirono uno dopo l’altro accavallandosi nello spazio cavo, sino a quando gli intervalli divennero inesistenti e il torpore dell’oblio rubato le fu scrollato di dosso tutt’un d’un fiato, come dopo una lunga apnea.
Svegliarsi era qualcosa di fastidioso in qualsiasi modo o momento avvenisse.
Aprire gli occhi, sbatterli due o tre volte per abituarli alla diversa luminosità, stropicciarli con le mani strette a pugno e trovare gocce di acqua infingarda impigliate tra le ciglia e le palpebre frementi, lo era ancora di più. E pur sapendo che si stava dormendo e che si sarebbe potuto sorvolare su quel breve quanto incerto attimo di debolezza, era assodato non lo si sarebbe perdonato mai comunque.
Il tempo passava, i sogni aumentavano e la pioggerellina primaverile si trasformava di pari passo diventando un temporale estivo. Inutile specificare che lei odiasse i temporali e l’estate in generale dacché si era fatta così carica di bagagli scomodi, pieni di ricordi da sopportare e portare con sé in macigni sulle spalle dolenti e catene ai polsi. 

Volse lo sguardo alla finestra, le imposte ancora serrate come lo erano le sue labbra e gli occhi socchiusi. Si alzò piano avvicinandosi con altrettanta cautela, ispirando ed espirando trepidante attesa, di cosa in fondo lo sapeva solo lei.
Lentamente, spostò le tende leggere aprendo il battente e fu uno sbattere deciso seguito da una risata lieve che sapeva di sospiro gorgogliato. Lo sguardo si soffermò a lungo sul cielo azzurro, intenso come i fiordalisi e i nontiscordardimé, sui fusti eretti e ramificati dei palazzi bassi all’orizzonte bianco e grigio, simbolo e sfoggio di una modernità inutile, fastidiosa.
Sugli steli lunghi delle colonne vermiglie del torii, lo shimenawa con i gohei ad ondeggiare al vento. Indugiò su quel rosso ligneo e fu quello stesso indugio a costarle un pizzicotto alla mano stretta ai pantaloni del pigiama e un altro alla guancia.
Nell’aria si respirava l’arrivo della primavera, il profumo al suo sbocciare della natura sacra in ogni sua forma, eterna simmetria ed equilibrio.

Tutt’intorno il mondo si stava svegliando e lei non poteva tornare indietro.
Il collo inclinato, la testa poggiata contro il vetro in segno di triste sottomissione a un volere che non le apparteneva più, non rispondeva a quel che il cuore chiedeva, bramava e lacrimava di desiderio insoddisfatto da tempo oramai.
Inchinata al sole, inconsapevolmente retrocesso a un angolo del suo spazio visivo, al destino che dopo averle offerto uno sprazzo di amo- .. qualcosa, glielo aveva strappato via crudelmente, ai Kami e alle preghiere che silente rivolgeva loro ogni mattina, a chiunque potesse porgerle una mano in aiuto alla sua tesa da tanto, ma a cui nessuno pareva prestare attenzione.
Era bloccata in quel mondo non più suo e non sapeva cosa fare ora.
Non era così che aveva immaginato la propria vita, non era quello il futuro progettato con tanta alacrità, per cui aveva combattuto, in cui aveva creduto! Non era quello che avrebbe voluto per sé e ciò che faceva male non era l’essere bloccata lì, ma il non poter più tornare indietro, solo questo. Non poter rivivere quel sogno poiché tutte le pareti erano state abbattute e per quanto provasse a riunire i cocci, ricostruire quel che era andato distrutto appariva troppo difficile per lei.

E dire che doveva averne di esperienza in fatto di frammenti da riunire.
Quel pensiero stranamente la rincuorò, facendola sorridere discretamente alla boccetta poggiata al solito posto sul comodino, secondo un’abitudine antica e mai perduta.
Era vuota, ma riempita dei colori iridescenti dell’arcobaleno riflesso al suo interno, sfaccettature di mille sfumature e della magia che aveva contenuto un tempo. 

Difficile, ma non impossibile, si rimproverò per il pensiero precedente.
Anche se ad ogni tentativo quel che otteneva come risultato erano schegge ancora più piccole, anche se riattaccarle richiedeva tempo e fatica sempre maggiori, se ad ogni fallimento sentiva un proprio pezzo unirsi a quelli infranti sparsi intorno ai suoi piedi, anche se il dolore e i pensieri nostalgici sanguinavano come ferite aperte e pulsanti tanto da annebbiarle la mente a volte, avrebbe continuato a provare ancora e ancora fino a quando sarebbe stata capace nuovamente di entrare nel sogno e il passato, la sofferenza, qualsiasi altra cosa non fosse lui e il suo nome ripetuto all’infinito, si sarebbe stemperato nel miele dorato.
Un bussare discreto alle sue spalle e il volto dolce e comprensivo di sua madre a far capolino dalla porta, per nulla sorpresa di trovarla già in piedi accanto alla finestra, a portarle la divisa appena stirata da indossare per la cerimonia.
Un sospiro sincero stavolta.
Un altro anno era trascorso e lei era ancora lì, a sognare e disperarsi per quel che era aldilà di un pozzo magico, incapace di dimenticare e voltare pagina.
Di mettere a tacere la voce che si levava singhiozzante dal proprio cuore in frantumi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ƁƖinɖinɡ

Accecante desiderio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La cerimonia si era svolta proprio come si era aspettata e nel corso degli anni aveva immaginato sarebbe stata. Una felicità intima e trasognata che l’aveva avvolta in un bozzolo caldo e protettivo isolandola dal feroce soffermarsi con lo sguardo che, poco prima di salire sul palco a prendere il diploma, si era concessa tra gli spalti, a cercare quella figura sempre stonata nell’ambiente circostante e assente, ma mai più assillante.
Mai più ferocemente desiderata.
Ancora una volta, facendo scorrere gli occhi scuri tra la folla in una ricerca continua, imprescindibile dalla quotidiana delusione inappagata che l’assaliva, ogni sua speranza era stata disillusa.

Ancora.
E ogni giorno andava aggiungendosi a quei famosi frammenti una piccola e confermata frustrazione per la propria impotenza e una debolezza con cui non poteva avere nulla a che fare, tantomeno tentare di cancellare od oscurare dal momento che le era ancora propria quanto la forza con cui rifuggiva ostinata la presa di coscienza della realtà.
E cioè che tornare indietro era impossibile e ciò che aveva dietro di sé pur non avendolo lasciato volontariamente lì, rimaneva dov’era, separato in modo irrimediabile e inconciliabile da lei.
Faceva male, un dolore acuto e lancinante, spine e cunei conficcati tra le pareti del cranio insieme ad immagini che non volevano saperne di abbandonare la sua memoria. Faceva rabbia non essere mai stata capace di ricordare poche formule matematiche e non riuscire ad insabbiare invece quella moltitudine di visi familiari e voci e sorrisi che si sovrapponevano l’uno sull’altro, combaciando in modo perfetto come tessere armoniose di uno stesso interminabile puzzle. Rivedere e riconoscere in quei momenti trascorsi tutti insieme una parte di sé, forse la più importante e profonda, radicata al suo animo.

Doveva smetterla, pensò scuotendo il capo con decisione.
Dare un taglio netto al passato e a tutto ciò che esso comportava. Smettere di vedere cose che non c’erano, sorvolare sugli spiriti che a volte sentiva serpeggiare come aliti tremuli di brezza e scomparire subito dopo nella loro inafferrabile essenza di percezioni, percorrere e intraprendere luoghi ora preclusi ai suoi piedi di semplice umana senza poteri da miko.
Il suono del flauto del demone Tatarimokke e la schiera di bambini danzanti al suo seguito e domandarsi se anche Shippo sarebbe stato capace di fare altrettanto. E la smorfia di suo fratello al berretto di lana che gli aveva regalato per Natale e ipotizzare, domandandosi se avrebbe avuto la stessa forma sulle labbra di qualcun altro, magari una piega più pronunciata agli angoli per via di uno sbuffo a nascondere il sorriso impercettibile affiorato agli occhi penetranti. E la risata di Eri e sovrapporla a quella più matura e spontanea di una donna in sboccio, combattiva e determinata a far della realtà il proprio desiderio di una vita felice, senza incubi ad oscurarla. Il soffiare rabbioso di Buyo così diverso dal digrignare possessivo rivolto ad un nemico invisibile e il drizzarsi nervosamente del busto già proteso e rivolto alla finestra aperta, come attendendo il palesarsi della forma ostile che il suo gatto doveva aver sentito, ma non coincideva mai con quella che lei avrebbe voluto che fosse.
Basta svegliarsi madida di paura e tremante di orrore, il timore che la divorava al non saper, non poter essere sicura che aldilà del muro invalicabile dato da spazio e tempo e dimensioni differenti e remote l’una dall’altra, tutti stessero bene. Ritrovarsi a pregare a volte, crudele, che il nemico ucciso tornasse dal regno delle tenebre in cui era sigillato. L’Inferno che vinceva l’ultima battaglia, anche quella contro la morte, pronto a scontrarsi contro di loro per una guerra, l’ennesima, che sperava potesse non finire. Allora forse le sarebbe stato concesso di rivederli, rivivere tutto ancora e ancora senza stancarsi mai di quel ripetersi inesausto. 

Basta sognare i morti come se la morte stessa fosse stata annientata.
Era tutto così fragile e di una semplicità così fallace, distruttrice. Torturava sé e il proprio senso pratico con quei sogni da ragazzina, ma cos’altro poteva fare? Fingere non le apparteneva né ci aveva provato in alcuna occasione, anche quando si trattava dell’unica possibilità davanti alle insicurezze e all’improbabilità che i sentimenti che provava venissero corrisposti. Niente trucchi, niente giochi, terrori dispettosi come gli spettri di cui assumevano sembianza. Basta figure vaganti nell’ombra e sgargiante carminio ad occuparle l’iride e incoronarla di fuoco ad ogni dove.
Basta gridare come un corvo per un ragazzo, per un corpo nel giardino.
Un albero millenario, il tronco scrostato dalla corteccia nel suo centro come pelle scorticata, lì dove centinaia di anni prima aveva tenuto legato a sé il suo prigioniero addormentato, intrecciato ai rami coperti di muschio su cui si era arrampicata per svegliarlo dal maleficio che lo incatenava. Sospetto, sorpresa, diffidenza e attrazione per quella figura seminascosta, per quel mezzo demone dai tratti scolpiti in una malinconia agrodolce e complicata, una sofferenza elaborata e intessuta insieme alle fiamme dell’abito di hinezumi e alla potenza della zanna protettrice che in seguito avrebbe ottenuto.

Basta sognare come una ragazza così innamorata del mondo sbagliato.
Della persona che le era destinata attraverso secoli di distanza, irrisoria in confronto alla volontà di due individui pronti a colmarla con la tenacia caparbia della loro ferma ostinazione.
La maturità le aveva portato sofferenza e una comprensione amara, la dimestichezza con quella che a volte si rivelava essere una sconfitta schiacciante che rendeva tutto intorno terra bruciata e di nessuno. Altre volte invece serviva a dare la spinta necessaria per scegliere, prendere tra due la decisione più sopportabile pur se difficile.
Kagome scostò il palmo dal bordo del pozzo mangia ossa e si accorse di aver premuto con tale forza da avere impressi anche sui polpastrelli segni della presa graffiante del legno.
Insieme al futuro imminente che prendeva forma nel colore di un cielo, così azzurro da richiamare quello della tranquillità che l’aveva invasa e sollevata nello scorgerlo sul fondo.
Il braccio di sua madre intorno alle spalle, caldo e confortante, leniva le sottili cicatrici che teneva ingarbugliate e celate sotto uno strato di pelle e sangue, ma la mano che stritolò la sua in quel cielo gioioso di fiaba incantata era callosa e reale, screpolata come le foglie secche spazzate via dall’autunno al suo crepuscolo. E si fece salda nella sua ruvidezza mentre circondava quella piccola e morbida
di lei, quasi finalmente si fosse ricomposta dei margini limitati imposti poco prima.
Un abbraccio che l’avvolse tutta con il profumo di Inuyasha soffiatole direttamente nelle narici, insieme alla sua voce respirata, quello accecante di casa. Non doveva più trattenersi dal ricordare e cercare di sotterrare sotto strati di menzogne gli squarci che quel suo fare comportasse.
Finalmente era tornata.       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

N/A:
 

Rispolverare. E’ questo il termine che si utilizza solitamente nel ripulire qualcosa ricoperto dalla polvere.
Il mio quindi tecnicamente non può essere definito come tale.
E’ stato un ritrovamento, non di quelli all’Indiana Jones con tanto di cattivi alle calcagna e fosse colme di serpenti XD ma del tipo più tranquillo diciamo. Per quanto possano esserlo cartelle vecchie anni e sul cui contenuto non mi dilungo- troppa paura  e io sono una fifona… la vita è stata ingiusta nel distribuire il coraggio o forse io ero assente ç__ç, come al solito nei momenti opportuni-.  
Cosa ha fatto Kagome in questi benedetti tre anni? Non mi ci sono soffermata tanto a ben vedere, ma per la semplice ragione che forse la risposta benché banale sia proprio quella più semplice.
E’ andata avanti, giorno dopo giorno con la forza che si sa appartenerle, quel coraggio fermo e ostinato che la caratterizza. Kagome è forte nelle sue paure, fragile nel suo amore persistente per Inuyasha, decisa anche quando è titubante e non sa che scelta prendere, quale strada percorrere.
Perlomeno io la vedo così. Kagome pensa ogni giorno ad Inuyasha, a ciò che ha ad attenderla aldilà del pozzo e nel farlo finge di non pensarci.
Il nome Inuyasha nei suoi pensieri non compare. Kagome prova dolore, ma ne rifugge la consapevolezza perché significherebbe prendere atto di una situazione da cui non si può tornare indietro.
Kagome sceglie finalmente, cresce nel dolore che ciò comporta, un addio stabilito nel momento stesso in cui ha capito di amare Inuyasha e di non poter vivere senza di lui. Kagome deve decidere tra due scelte entrambe non perfette. Non è come tra bene e male perché entrambe prevedono che lei perda qualcosa di fondamentale, comportano una quantitativa dose di sofferenza.
Lei preferisce quello che le appare il male minore. Sceglie il passato dato che è questa la prospettiva che è diventata il suo futuro e l’era presente, futura, invece il passato dell’infanzia, qualcosa che non rappresenta più la sua vita. Saluta la sicurezza dell’amore del nucleo familiare per ritrovarne altro in quello che si prepara a creare con Inuyasha.
Insomma io la adoro, molto semplicemente <3.
Questa donna ha quello che tutti vorrebbero avere: il coraggio e le balle di trasformare il sogno in realtà, di scegliere ciò che è meglio per lei fregandosene altamente del resto.
Non m’importa se è un personaggio cartaceo, Kagome ha tutta la mia stima e il mio rispetto ù__ù
Deliri a parte ehm… OWO
*Imbarazzooooo…*
Mi auguro davvero di non aver fatto scappare nessuno a gambe levate, Dio buono, mi spavento da sola in questo momento ed è tutto dire. Spero – se ci siete ancora e non siete annegati nel mio monologo come i corn-flakes nel latte (perché cavolo prenderli col cucchiaio diventa così difficile?!)- questa mia vi sia piaciuta con l’augurio, più sentito del solito lo ammetto, di essere riuscita a trasmettervi qualcosa di buono.
Prego solo non sia semplice confusione, un saluto e buon sabato sera a tutti, che il divertimento sia con voi (spudoratamente copiato da Star Wars finito di vedere un paio di ore fa) ;)

P.s: cosa più importante… capacità di stabilire priorità pari a 0, wow… alcune frasi in corsivo sono la traduzione della canzone riportata in cima. Mi sembrava appropriata ai pensieri di Kagome ecco tutto. Finito di rompere ora, un risaluto! Questo è tutto, potete rompere le file signori XD

 

    

         

  
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