Correva
per quei corridoi bianchi che le stavano stretti alla ricerca di un posto dove
poter piangere.
Correva.
Roberta
correva.
Aveva
solo undici anni ma già non ce la faceva più di quella vita che le avevano
rivelato sarebbe stata quella dei “grandi.”
Era
stata felice quando andava alle elementari con le sue amiche, bambine quanto
lei, ma almeno sincere e leali, mentre ora, che frequentava le medie, si
ritrovava catapultata in un mondo che non riteneva più suo.
Che
mondo era?
Frequentava
una classe prevalentemente maschile con solo sei ragazze, cinque delle quali
erano false,senza il minimo scrupolo nel divertirsi a giocare con i sentimenti
degli altri.
C’era
Elisa, una ragazzina mora con occhi celesti grandi ed espressivi. Il suo viso
era dolce quasi quanto quello di un cerbiatto, ma in realtà celava solo tanto
sadismo.
Era
Elisa la ragazza che le faceva più male delle altre, con la sua vena di pura
cattiveria che sfogava solo su di lei.
Roberta
non capiva il motivo di tanto rancore verso lei , non ne vedeva di significato.
Per
quanto ricordava lei era sempre stata leale e corretta con tutti in quella
classe e, per quanto il suo animo timido glielo permettesse, si era sempre
mostrata simpatica e socievole.
A
loro non era bastato.
Non
era bastato a Elisa, a Sara, a Michela e nemmeno a Giorgia; non era bastato a
nessuna di loro.
Roberta
posò la testa sulle ginocchia quando raggiunse il bagno e, dopo essersi fermata
in prossimità del termosifone, si lasciò cadere a terra stringendosi le gambe
al petto, come se fossero un’ancora di salvezza.
I
singhiozzi iniziarono a venire meno.
Era
dovuta scappare dall’aula scolastica nel ben mezzo della lezione per evitare di
scoppiare in lacrime davanti a quella plebaglia che erano i suoi compagni di
classe.
Anche
se era solo una bambina, Roberta sapeva che la cosa peggiore che avrebbe potuto
fare era scoppiare in lacrime davanti a loro, per far vedere quanta sofferenza
le causavano le loro accuse.
E
allora, da brava ragazzina orgogliosa, aveva trattenuto le lacrime, senza però
celare la smorfia sofferente del suo viso e, quando oramai sentiva di non
potercela più fare a ignorare gli schiamazzi divertiti di quelle oche e gli
insulti dei ragazzi, si era alzata in fretta e furia urtando il banco di Silvio
per uscire da quella carneficina che era diventata l’aula.
Aveva
corso per i corridoi lasciandosi andare a un pianto disperato e quasi risentito
fino a raggiungere il bagno e lasciarsi scivolare vicino al calorifero.
Roberta
non capiva.
Non
capiva cosa ci fosse di divertente nel deriderla senza motivo.
Non
era un orrore della natura e, anche se non si considerava bella, sapeva di
poter vantare un canone non indifferente; non era povera, ma alquanto
benestante e, per quanto si sforzasse di esserlo, non era nemmeno una ragazza
sfacciata, di quelle che possono risultare antipatiche anche per la loro troppo
allegria.
Era
una ragazzina normale, una giovane undicenne che si domandava il perché del
loro comportamento.
Del
suo comportamento.
Alzando
la testa dalle ginocchia Roberta tirò su con il naso, avvicinandosi al
lavandino per lavarsi le mani.
Nello
specchio di fronte a lei vide il riflesso di una giovane donna confusa, il
volto arrossato dal pianto e, per eliminare le prove di quello sfogo, si
sciacquò con l’acqua gelida del lavandino e, sbuffando, si sfregò le mani sui
pantaloni.
Non
aveva voglia di ritornare in classe, non ne sentiva il vero bisogno e allora,
con più naturalezza di prima, si lasciò cadere di fianco alla porta del bagno,
facendo poggiare la schiena al muro.
Passandosi
una mano tra i capelli castani si mise a riflettere, ancora, come sempre, su
ciò che poteva spingere i suoi compagni a comportarsi così con lei.
Oramai
frequentava quella classe da un anno e mezzo, abbastanza tempo da capire che i
venticinque alunni che la componevano erano solo tante piccole pecore sotto il
comando del caprone più grande.
Lui,
Marco Diligenti, era la vera causa del suo dolore.
Al
solo ricordare il suo nome Roberta strinse la mano a pugno fino a far sbiancare
le nocche e sospirò quando, rilasciando la presa sul suo stesso arto, si
accorse che il segno delle sue unghie risaltava palese sul palmo della mano.
Soffiò
sui segni diventati rossi per attenuare il dolore e chiuse gli occhi.
Il
volto biondo, curato, arrogante, stupido, ingenuo e anche fastidioso di Marco
le balenò davanti come il peggiore degli incubi.
Rivide
il suo sorriso prepotente a ricordarle che lui era più forte di lei e rivisse
il momento in cui la sua agonia era iniziata.
Era
stato lui, Marco, a dare il via a quello strano gioco che era diventato la sua
tortura; era stato lui a deriderla per primo.
Essendo
un ragazzino molto egoista, non si era mai preoccupato dei sentimenti di
Roberta, limitandosi a soddisfare il suo bisogno di divertirsi.
E
quale modo migliore se non far soffrire la povera ragazzina mora intimorita da
qualsiasi novità?
Rammentava
bene com’era iniziato quel circolo vizioso subito dopo che lei si era fatta
cambiare di posto per poter stare vicino ad una ragazza.
Era
stata per circa tre mesi la vicina di banco di Marco e, dopo che questi novanta
giorni erano scaduti, aveva sentito il bisogno di cambiare aria, compagno di
banco e anche amicizie.
Mai
scelta era stata più sbagliata.
Se
prima con Marco era riuscita a instaurare quasi un rapporto di amicizia, ora si
ritrovava in un vero campo minato: lui non le dava tregua.
Sembrava
non dormisse la notte per trovare nuovi insulti, scherzi e soprannomi da
affibbiarle, per deriderla.
Roberta,
per quanto trovasse assurdo il comportamento di Marco, ne era quasi
affascinata: era sicura che dietro di tutto quello si celasse un vero motivo,
ma per quanto si sforzasse, non riusciva a trovarlo. Stava concentrata per ore
ad analizzare i suoi comportamenti, ma senza alcun risultato.
Seguendo
l’esempio di Marco, poi, anche la restante parte della classe si era applicata
nella “dolce” arte di deridere Roberta e, per quanto la cosa la infastidisse,
non sapeva proprio come difendersi.
Aveva
solo undici anni e sentirsi sola a combattere venticinque capre era una sensazione
che non avrebbe augurato a nessuno. Nemmeno al suo peggiore nemico; nemmeno a
Marco.
Facendo
un breve calcolo mentale Roberta considerò che oramai era in quel bagno già da
quindici minuti e che la sua fuga da quel brutto mondo doveva concludersi.
Facendosi
coraggio, troppo per avere solo undici anni, si alzò per aggiustarsi la maglia
e i pantaloni.
Si
riguardò allo specchio, cercando di incurvare le labbra in un sorriso, poi uscì
dal bagno camminando sicura.
A
passo lento, come se questo potesse rimandare la sua tortura, raggiunse la
porta della sua classe.
II
C
Facendo leva sulla maniglia e appellandosi al suo
carattere forte e deciso, Roberta aprì la porta e, soffocando un tremito, entrò
in classe, a testa china.
Era esattamente come l’aveva lasciata: la professoressa
di italiano stava interrogando Bruno Dittotto mentre la restante parte della
classe, chi più e chi meno, faceva casino, disturbando la lezione e divertendosi
sotto lo sguardo confuso ma anche svogliato dell’insegnante.
Senza giustificare nemmeno la sua assenza improvvisa alla
professoressa, Roberta le sorrise timidamente con una leggera smorfia,per poi
dirigersi verso il suo banco.
«Guarda chi è ritornata» la voce di Marco, tanto nota
quanto fastidiosa, la fece tremare visibilmente «Treccia la schifezza» la
derise chiamandola per cognome.
Roberta, da sotto il tavolo, chiuse gli occhi cercando
invano di farsi scivolare addosso quell’insulto frivolo e stupido.
In sè per sè, lo doveva riconoscere, non era nemmeno
tanto offensivo come appellativo quello datole da Marco ma quando un coro si
alzò per l’alula ripetendo come una sinfonia dell’eterno Mozart quella
cantilena assurda, Roberta, non poté fare a meno di sentire gli occhi bruciarle
ancora.
Perché
mi vogliono tutti così male? Si chiese mentre anche la
sua vicina di banco iniziava a ridere per le cattiverie che le stava rivolgendo
Marco e che lei stava ignorando apertamente.
«Allora Roberta» le disse ancora il suo incubo vivente
sporgendosi verso di lei «come sta il tuo fratellino storpio?».
A quell’insulto la ragazzina sbarrò gli occhi facendo
trapelare tutto il suo odio, tutta la sua malinconia e il suo dolore.
Socchiuse leggermente gli occhi per evitare che il dolore
le facesse perdere la lucidità e strinse debolmente le mani intorno alle
forbici come a trovare un appiglio, un’ancora di salvezza.
Il suo fratellino.
Aveva davvero osato deridere anche il suo Luca? Quel
bambino dolce e tenero di soli otto anni che era costretto a camminare sulle
stampelle a causa dell’incidente stradale che avevano avuto solo l’anno prima?
Davvero si era abbassata a insultare il suo piccolo Luca?
Con gli occhi nuovamente lucidi, Roberta evitò di darle
la soddisfazione di vederla cadere e cedere sotto i suoi insulti.
Loro
non vogliono offendere Luca, pensò, loro vogliono offendere ME.
Una volta considerato anche quell’aspetto, la
rabbia di Roberta andò ad attenuarsi ma il bruciore per quell’ingiusto
comportamento la faceva ancora ribollire visibilmente.
Stringendo
le mani più forte sotto il banco si ripromise di non piangere.
«Non rispondi Treccia?» la incitò Gianluigi, il compagno
di banco di Marco dando mano forte al suo supremo
compare.
«Sai com’è ‘Luì» rispose per lei Marco con fare altezzoso
«anche lei sa di esser inferiore per questo non si sente a suo agio per le
nostre troppe attenzioni».
La risata di scherno dei suoi amici fece sì che anche
quell’insulto andasse dritto a colpire il cuore della ragazzina, ma
Roberta sopportò in silenzio anche quel
duro colpo a quel suo povero muscolo, ormai straziato.
Il suo orgoglio la tenne ferma sulla sedia, senza farla
nemmeno rantolare per il dolore.
Era il 1995
- Salve a tutti. Questa storia credo sia una di quelle meglio analizzate da me, meglio descritte..
- Non mi piace la trama, non mi piace come è stata rappresentata ma ho pianto scrivendola. Mi sono immedesimata in Roberta, ho provato a fare mio il suo dolore.Ho cercato di capire Marco, il suo atteggiamento.
- Ho descritto, sottoposto ad un esame dettagliato anche gli altri mille personaggi e spero di averlo fatto bene.
- La storia descritta non è autobiografica ma so per certo che molte persone si sono ritrovate in questa condizione **
- Per loro, per aiutarli a superare questo dolore: non stateci male perchè molte volte il rancore è la cosa più brutta al mondo. Roberta lo capirà,accoglierà, abbraccerà e poi dissolverà! Roberta crescerà, cresciamo con lei.
- Ps_ nel prossimo capitolo la nostra protagonista avrà ventisei anni :)
LA STORIA E NEMMENO I PERSONAGGI IN FOTO NON SONO STATI SCRITTI/USATI A SCOPI DI LUCRO