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Autore: _Breath    18/11/2010    1 recensioni
Una straziante storia riguardo l'amore di due Ebrei costretti a separarsi.
La commovene scoperta di questo amora da parte di una ragazza.
Una romantica lettera che non smette mai di sperare.
Dalla storia
[...] Carissimo Harry;
ti hanno portato via da tanti giorni e ogni respiro che porto ai polmoni è sempre una grande sofferenza per me.
Io che ti ho visto crescere, che ti ho sposato sotto l’alba di prima mattina giurandoti amore eterno a solo sedici anni ora mi sento vuota, persa senza te.
Quando osservo la nostra fotografia è come se tornassi indietro nel tempo.
Nonostante sia oltre un mese che non sento la tua voce ricordo ancora il suo timbro mascolino, il bacio leggero delle tue labbra sulle mie.
A volte mi chiedo perché non ci accettino benevolmente senza odiarci tanto.
Siamo Ebrei,è vero, e allora?
Che problema c’è?
Crediamo nel loro stesso Dio, viviamo nella loro stessa terra, mangiamo lo stesso cibo.
Perché quello che per noi è “Naturale” per loro è “ Vergogna?”[...]
Genere: Malinconico, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per ricordare un amore sincero, di  quelli belli e passionali.
Per non dimenticare che siamo  tutti uguali.
Per ricordare il vero senso della vita.
La verità non invecchia.
«Die Wahrheit altert nicht.»
Dolcemente complicata  è la vita.
Un intruglio di tante cose messe insieme : vita, gioia e miracoli. Lacrime.
Mi verrebbe da piangere quando penso a quello che ho vissuto, quello che ho visto e che non ho mai detto a nessuno.
Ho settanta anni, sono seduta sul letto che è stato mio da quando avevo dodici anni, da quando mi sono trasferita con mia madre in questa nuova casa.
Ora lei non c’è più io, invece, respiro ancora.
Mi giro nelle coperte sentendo un rumore sotto di me, uno di quei rumori fastidiosi che producono i bambini con il pannolino o i vecchi, come me, malati e costretti a stare in un letto seduti e indifesi.
Stringo debolmente con la poca forza rimastami il lenzuolo al mio fianco poi sospiro.
Non ho mai raccontato a nessuno quello che mi ha segnato la vita, quando avevo sedici anni ed ho visto la mia vita cambiare sotto i miei occhi.
Ho aperto le strade ad  una realtà che non credevo possibile, ho strinto i denti fino a farmi male quando ho spalancato le porte di quella casa stranamente silenziosa anche se tanto viva.
Sorrido con la mia dentiera strana e consumata senza vergogna in quanto sono sola in casa e mai nessuno mi vedrà in queste pietose condizioni.
Tossicchiò per la mia malattia che mi sta portando lentamente al consumo e poi poggio la testa sui cuscini.
Chiudo gli occhi mentre calde immagini- come un film dell’horror che vorrei dimenticare- riempiono la mia mente ….  Ancora.
 
 
 
Avevo sedici anni quando mia madre mi costrinse ad andare con lei in Germania per poter visitare i suoi genitori che non vedeva da molto.
Nonna Franca aveva la mia stessa malattia, L’Alzheimer ed era quasi terrificante andare presso il suo letto, vedere il suo volto stanco e confuso e chiederci chi mai fossimo.
Era sconvolgente per mia madre sentirsi sempre additare come una sconosciuta e doloroso per me sentirmi urlare dietro di uscire fuori dalla sua stanza perché non voleva estranei con lei.
Una volta essere stata cacciata quindi dalla sua camera della casa di riposo, sentii le distinte voci di due infermiere tedesche alle mie spalle sibilare qualcosa ma non me ne curai: ero abituata a quelle voci.
I tedeschi non mi erano mai piaciuti, avevo sempre provato una strana sensazione di astio per loro.
Li vedevo falsi, crudi quasi inutili alla società ed odiavo camminare nella loro terra e sentirmi additare come “la straniera.”
A sedici anni provavo un certo ribrezzo per quelle donne pettegole che sembravano odiarmi solo per il fatto che non avessi le loro stesse origini.
Attraversai il corridoio sentendo le loro accuse sul corpo e uscendo fuori respirai aria fresca.
Sorrisi.
Non ero pratica di quel paese che non era il mio ma avevo tanta voglia di esplorare per questo, guardandomi intorno, iniziai a camminare.
Percorsi quel giardino caldo, dolce, timido dove i signori anziani camminavano sorreggendosi l’un l’altro ascoltando e ripetendo per hobby qualche parola tedesca che sentivo senza sapere nemmeno il significato.
Improvvisamente mi trovai in una strada piccola e deserta che non portava a nessuna fine.
Mi spaventai e fui quasi tentata di tornare indietro da mia nonna nell’attesa di poter tornare nella mia Italia ma non lo feci perché la mi attenzione fu catturata da un piccolo albero.
In mezzo a tanto scuro, all’umidità di quel pomeriggio di un luogo isolato cresceva un salice piangente.
Sapevo che quegli alberi non avevano significato ma mi piaceva pensare che avessero una storia.
Li vedevo come il segno di un qualcosa di sofferente e fin da piccola, quando ne vedevo uno, ero abituata a pensare che dietro vi fosse una storia tragica.
 Un gelido brivido mi attraversò la schiena e fui nuovamente tentata di tornarmene indietro  ma una colata di vento mi fece rimanere lì, ferma, impassibile a guardare quell’albero.
Chissà quante cose aveva visto, patito quella pianta.
Forse era stata lì quando c’era stata la Seconda Guerra Mondiale, magari aveva visto da vicino lo sterminio di molte persone.
Chiusi gli occhi stendendo una mano ad accarezzargli la corteccia ruvida.
 Strinsi i denti a quel rugoso contatto ma accarezzai come si fa con un amico la sua pelle  vecchia e ingombrante, poi vi posai la mano su un ramo.
Quando ero piccola amavo farmi le fotografie sugli alberi, adoravo vedermi seduta sul ramo più alto agitando le braccia vittorioso per dire un “  Ce l’ho fatta!”
A sedici anni provai ancora il forte impulso di arrampicarmi ma per rispetto di quel anziano albero rimasi al suo fianco senza usufruire dei suoi rami per avere un ampia visuale del paesaggio intorno a me.
Individualmente  iniziai a guardarmi intorno scorgendo, dietro la fitta vegetazione che si celava dietro a molti e più alberi, un piccolo muro di qualche casa molto vecchia.
Intimidita ma curiosa staccai debolmente un mano dal salice e avanzai verso quella fonte strana e compatta che mi aveva incantato.
Mi feci strada con le mani, attraversando e scansando i rami spinosi di qualche cespuglio o l’erba alta che da molto non veniva tagliata.
Mi tagliai anche in mezzo le dita con un ramo spezzato e gemetti affranta quando inizia a perdere sangue.
 Io odiavo la vista del sangue.
 Iniziai a tamponare la ferita sulla maglia macchiandola di rosso continuando ad avanzare sempre più curiosa di scoprire cosa mai nascondesse tutto quel verde.
Più mi avvicinavo e più il muro di quella che pareva essere una casa diventava vicino, nitido e reale.
Il respiro mi si mozzò nel petto quando ebbi tutto di fronte gli occhi.
Una casa, avevo visto bene, rovinata, dai muri abbattuti dai colpi di una forza superiore.
Il tetto era deceduto all’interno della casa e potevo scorgere solo la porta rotta da colpi di spalla per fare irruzione.
 La mia mente andò subito a qualche donna stuprata da qualche uomo ma quando mi guardai intorno e vidi quante vecchie fossero le macerie capii di aver sbagliato.
Allungai nuovamente una mano tentata di entrare a mia volta in quella casa stando però attenta a non rovinare maggiormente quei resti che sembravano storici quasi, oserei, preistorici.
Ero sempre stata una ragazza curiosa, vogliosa di sapere.
Era stata la mia curiosità -macabra a volte- a farmi scoprire il tradimento continuo che mio padre faceva a mia madre in quanto avevo capito che lui nascondesse qualcosa  ed allora egoisticamente ricordo di averlo seguito alla dolce età di tredici anni venendo a sapere- quindi- che si frequentasse con altre donne all’infuori di mia madre.
Al solo ricordo mi avvolse un senso di nausea che scacciai scuotendo la testa e concentrandomi nuovamente su quella casa che sembrava chiamarmi ma spaventarmi, anche.
La guardai, allungando il collo per vedere cosa nascondesse al suo interno senza entrarci definitivamente, ma il buio mi rendeva il tutto impossibile.
Sbuffai  chiudendo gli occhi e chiedendomi cosa dovessi fare.
Alla fine, come c’era da aspettarsi, la mia curiosità vinse ancora e, stringendo la maglietta sul dito come a voler tamponare la ferita e cercare un luogo di appiglio per le mie paure, entrai.
Un odore di muffa, morto e vecchio mi avvolse le membra facendomi venire voglia di scapparema coprendomi il naso con una mano continuai ad avanzare.
 Qualcosa mi diceva che c’era dell’altro.
 Stetti attenta a non danneggiare maggiormente i resti di qualche muro, il vetro infranto e di non sfiorare quegli oggetti probabilmente portatori di qualche malattia.
All’improvviso un ratto mi passò accanto facendomi spaventare e indietreggiare con un urlo.
Mi portai una mano al cuore cercando di placare il respiro e sorrisi di me stessa.
“E’ solo un topo” dissi per tranquillizzarmi continuando a camminare.
Attraversai quello che probabilmente fu un arco di qualche porta e mi ritrovai in quella che era stata una camera da letto: nel centro della stanza, in un tondo pallore, vi si nascondeva un antico letto matrimoniale le cui lenzuola bianche e rosa erano macchiate dalla polvere e umidità.
Provai l’impulso di sedermici sopra per riposarmi ma al ricordo del  topo non osai minimamente avvicinarmi anzi, mi guardai intorno scorgendo una cornice di uno specchio scalfito dal tempo.
Mi guardai in quella superficie spaventandomi della cera bianca cadaverica che avevo.
Arretrai e voltai le spalle anche a quello cercando un modo per poter calmare il battito accelerato del mio cuore quando un altro topo mi corse davanti.
Avevo il terrore dei topi, accidenti!
Troppo occupata a cercare di placare  il mio cuore non mi accorsi che poco distante da me- probabilmente l’unica superficie non demolita dal tempo- un comodino con una foto sopra mi fissava in silenzio.
Una volta che il mio occhi ricadde su essa la presi tra le mani fermandomi a studiare i due volti giovani che sorridevano insieme: un uomo e una donna, abbracciati, il mento di lui sulla spalla di lei.
I loro cuori erano vicini, i loro sorrisi uniti in un’unica risata.
Si amavano, lo capii anche io che ero fredda verso qualsiasi sentimento affettivo solo guardando quel vecchio stampo.
 Un moto di dolcezza mi colpii quando vidi i loro corpi tanto vicini e innamorati stringendo la fotografia al petto incurante che fosse sporca ed estranea.
Per breve tempo mi sentii come se io  fossi quei due ragazzi, come se quello  fosse un mio ricordo gentilmente custodito.
Piansi come una stupida e, senza rendermene conto, presa dalla foga di scrutare i loro genuini lineamenti, mi sedetti su quel letto che prima avevo solo guardato.
La fotografia era vecchia, macabra e ammuffita ma conservava la sua bellezza romantica che mi fece riscaldare il cuore.
Avvicinai la cornice di più al viso per poter guardare  appieno i due ragazzi che mi fissavano di rimando: erano belli, avevano suppergiù la mia età, qualche anno in più magari.
Lui sembrava più virile e maturo con la sua leggera barbetta a contornargli il viso poteva avere al massimo ventitré anni; lei invece, dai capelli biondi e legati in due treccine disordinate, mi ricordava quelle graziose contadinelle che un tempo erano costrette a sposarsi a sedici anni.
Dal sorriso che splendeva sulle sue labbra, dal suo modo di stringere possessivo al suo corpo quello del compagno, però, dedussi che il loro forse era uno di quei pochi amori sinceri di quell’epoca tanto vecchia.
Supposi che quello scatto risalisse agli inizi del 1900 e rimasi sorpresa nel constatare che oramai quei due ragazzi ritratti in foto probabilmente erano morti.
Di vecchiaia, forse, o magari di qualche malattia.
Mi si strinse il cuore a immaginarmeli così innamorati anche nella vita privata, forse creatori di qualche leggendaria discendenza.
Mi sarebbe piaciuto se fossero stati miei antenati, pensai.
Voltai la fotografia tra le mani più volte fino a quando non cadde da dietro la cornice un pezzo di carta.
Mi affrettai a raccoglierlo desiderosa di rimetterlo a posto per non rovinare quel ritratto d’amore ma quando me lo ritrovai tra le mani sbarrai gli occhi facendo cadere la cornice a terra e rantolando dal dolore.
Nei resti di quella cornice ai piedi si nascondeva la fotografia di quei due giovani innamorati ma non la raccolsi troppo presa nel cercare di calmare il mio respiro.
 Calma,  ripetei ,  calma!
Dopo aver placato il respiro voltai il pezzo di carta facendo scorrere avido e timido il mio sguardo tra le prime parole: avevo avuto ragione, era un lettera.
 
Carissimo Harry;
 
 
Non osai andare oltre per non violare la loro privacy; magari in quel testo la ragazza parlava del tradimento del compagno, forse raccontava i suoi problemi prima di scappare dal loro nido d’amore. Qualsiasi cosa fosse stata era privata, era loro  ed io non ero nessuno per infrangere i loro segreti.
Piegai la lettera poggiandola sul letto raccogliendo con le mani i resti della cornice attenta a non tagliarmi e poggiandoli poi sul piumone del letto al mio fianco.
Sbuffai guardando la fotografia tra le mie mani e perdendomi nuovamente negli occhi di quei due innamorati.
Erano belli, dolci, innamorati. Sarei tanto voluta essere come loro.
Loro da vivi dovevano essere stati molto felici e gemetti quando mi avvolse il tormento che forse  a causa di qualche cosa non lo fossero più stato.
Guardai la lettera e la presi tra le mani.
Forse in quel testo veniva svelato il mistero, magari lì si spiegava che fine avessero fatto quei due ragazzi di cui ero perdutamente innamorata.
Forse avrei avuto delle risposte.
 Guardai il cielo, chiusi gli occhi e strinsi la lettera al mio petto, ancora.
Lo zampettio di qualche topo che correva sul pavimento mi fece socchiudere più forte gli occhi ma non arretrai concentrandomi solo sui due ragazzi che erano stati- un tempo- padroni di quella dimora.
Feci un grosso respiro aspirando quell’odore di chiuso e terrore sigillando i denti fino a farmi male, poi aprii gli occhi.
Lo scricchiolare della carta vecchia e arrugginita che si apriva mostrando il  suo contenuto  sotto il tocco delle mie mani era l’unico rumore che si udiva  in quel tacito silenzio …
 
 
 
 
Sono passati oltre cinquanta anni e io ancora ricordo alla perfezione cosa citasse quella lettera.
Ogni volta che la  ripeto nella mia mente sento sempre caldi brividi attraversarmi la debole schiena indolenzita dalla mia malattia.
La malattia mi sta portando debolmente via tutte le forze, tutti i ricordi ma credo che fin quando resterò attaccata al ricordo di questi due innamorati Alzheimer non vincerà mai veramente su di me.
La vita è un gioco, un grande gioco senza vincitori ne vinti.
Ci sono gli scorretti, quelli che imbrogliano pur di avere la meglio su qualche altro ma non per questo sono i reali  giocatori.
Bisogna saper voltare le carte in tavola, gestirle e giocarle a proprio piacimento.
La vita è come una grande lettera senza mai fine, un enorme racconto in continua stesura.
Il gioco della vita è un qualcosa di indescrivibile che io ho imparato a vivere attraverso gli occhi di quei due ragazzi tedeschi che ho incontrato a sedici anni.
Probabilmente non avrò mai il piacere di guardarli da vicino, nemmeno nella miglior vita ma io sono convinta che un giorno- quando saremo tutti uniti sotto lo stesso terreno- vedendoli li riconoscerò tra mille.
Li vedrò insieme seduti sotto l’ombra di un salice piangente abbracciati e sorridenti mentre lui le cingerà il collo con le sue braccia muscolose e lei gli bacerà il mento.
Li sorriderò radiosa raggiungendoli dietro l’ombra di quella casa che fu loro, che fu anche  mia .
Mi siederò accanto a loro a osservare il compiere dei nostri giorni infiniti sotto il tiepido raggio di sole.
 
 
 
Carissimo Harry;
ti hanno portato via da tanti giorni e ogni respiro che porto ai polmoni è sempre una grande sofferenza per me.
Io che ti ho visto crescere, che ti ho sposato sotto l’alba di prima mattina giurandoti amore eterno a solo sedici anni ora mi sento vuota, persa senza te.
Quando osservo la nostra fotografia è come se tornassi indietro nel tempo.
Nonostante sia oltre un mese che non sento la tua voce ricordo ancora il suo timbro mascolino, il bacio leggero delle tue labbra sulle mie.
A volte mi chiedo perché non ci accettino benevolmente senza odiarci tanto.
Siamo Ebrei,è vero, e allora?
Che problema c’è?
Crediamo nel loro stesso Dio, viviamo nella loro stessa terra, mangiamo lo stesso cibo.
Perché quello che per noi è “Naturale” per loro è “ Vergogna?”
Quando mi sono ritrovata sola senza di te ho sentito il tetto di questa casa cadermi sulle spalle e ho desiderato chiedere al Cielo di raggiungerti, per poter almeno morire abbracciati così come siamo venuti al mondo.
Ti amo e forse questo è il dolore più grande che potesse capitarmi.
Non sapere se tu hai smesso di  respirare, immaginare i tuoi polsi marchiati a fuoco in quei campi di concentramento nel quale ti hanno portato mi porta la nausea.
Piango immaginando il tuo  dolore, amore mio.
Chissà se un giorno smetteremo di lottare, di giocare questa grande partita che è la nostra vita.
Mi chiedo se un dì potremmo tornare a  sedere sotto il faggio di quel salice piangente insieme, bearci dei raggi lunari.
Spero di sentire ancora una volta le tua braccia intorno ai miei fianchi prima di cadere vittima della morte.
Ecco, Dio ha ascoltato le mie preghiere.
Sento il rumore di qualche carro nelle vicinanze di casa nostra, forse i Tedeschi sono venuti a prendere anche me.
Sorrido, sai amore, sorrido perché so che questa lettera sta avendo fine.
Sorrido perché so che quando mi caricheranno con loro sul carro sorriderò per la gioia.
Sorrido pregustando un ultima volta il tuo bacio leggero.
Sorrido, Harry.
Sorrido perché sto per raggiungerti.
Maria.



Salve a tutti; so che è un argomento dolente e penso anche di non averlo descritto bene.
La frase sull'odio dei tedeschi non è scritta con cattiveria, è solo per far capire che la ragazza non aveva amiche lì... per far capire la sua solitudine e spingerla ad andarsene dalla casa di cura.
Spero di non aver fatto gravi errori e non aver offeso nessuno in caso contrario la cancellerò.
La storia non è scritta con scopi offensivi; non è scritta con cattiveria ma solo con tanto, tanto 
 amore. 
A Loro, a noi, All'amore.
Al Ricordo!
  
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