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Autore: Mattimeus    19/11/2010    3 recensioni
Riedita!
La morte arriva cantando una filastrocca infantile, vestita di nero e pallida in volto. Non te lo aspetti, che la morte abbia l'aspetto di una gracile ragazzina. Si fa vedere prima del decesso: assiste al trapasso senza battere ciglio; poi prende il cadavere e se ne va, come fosse venuta solo a buttare la spazzatura. Il suo volto non lascia mai sfuggire alcuna emozione.
Credits:
Fabrizio De Andrè - La ballata degli impiccati
Roberto Vecchioni - Samarcanda
Fabrizio De Andrè - Terzo intermezzo
Angelo Branduardi - Ballo in fa diesis minore
Rino Gaetano - Ma il cielo è sempre più blu
Genere: Drammatico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Dramma umano in tre atti

Personaggi

In ordine di ingresso:

Isidoro – Narratore

Banditore

Bernardo

la Morte

Duca

Leonora

Mendicante

Custode

Suora

Carceriere

Contadino

Adelaide

Direttore

Sguattera

Stefanio



Comparse:

Condannati

Guardie

Folla

Carcerieri

Musici

Nobiltà

















Atto primo



Tutti morimmo a stento

ingoiando l'ultima voce

tirando calci al vento

vedemmo sfumare la luce.


L'urlo travolse il sole

l'aria divenne stretta

cristalli di parole

l'ultima bestemmia detta.


Prima che fosse finita

ricordammo a chi vive ancora

che il prezzo fu la vita

per il male fatto in un'ora.


Poi scivolammo nel gelo

di una morte senza abbandono

recitando l'antico credo

di chi muore senza perdono.



(La ballata degli impiccati)



Prologo

La Morte arriva cantando una filastrocca infantile, vestita di nero e pallida in volto. Non te l'aspetti, che la Morte abbia l'aspetto di una gracile ragazzina.

Si fa vedere subito prima del decesso: assiste al trapasso senza battere ciglio, poi prende il cadavere e se ne va, quasi fosse venuta per gettare la spazzatura. Il suo volto non lascia mai trasparire un'emozione.

Io mi chiamo Isidoro. Sono l'apprendista del mastro boia del ducato di Milano, Bernardo Sasso. Il mio lavoro mi porta molto spesso a contatto con la Morte, praticamente ogni domenica, dato il gran bisogno di esecuzioni. Di questi tempi, sembra che infrangere la legge valga sempre la pena di farsi impiccare o mozzare qualche parte del corpo. Sono tempi orrendi. Eppure, tutti hanno una paura folle della Morte, per primi quelli che vengono a vedere le esecuzioni. Ormai sono solo feticci per scongiurare la paura che un giorno toccherà a chiunque.

Ormai ho quasi imparato la sua canzoncina. Spesso mi scopro a canticchiarla nella mia testa, mentre assisto il maestro sul patibolo: siamo tutti lì in piedi – io, il maestro, le guardie, il banditore e lei – e a me frulla nel cervello quel motivetto infantile.

In un'occasione come questa, la Morte mi ha guardato. Subito ho notato i colore dei suoi occhi, verde freddo. Forse credevo di averci fatto l'abitudine, forse ormai la sua presenza non mi impressionava più, fatto sta che non l'avevo mai notato. Credo che avrei dovuto spaventarmi, ma per il valore che davo alla vita, guardare negli occhi la Morte risultava una cosa del tutto normale. Fu a quel punto che lessi nel suo sguardo curiosità. Mi stava studiando, mentre intanto l'esecuzione procedeva. Dovetti aiutare il maestro a legare il condannato al cappio; il suo sguardo era tornato fisso nel nulla. La botola si aprì, il condannato cadde e morì dopo un minuto o poco più, lei lo prese e lo portò via.

Mi resi conto di essere rimasto turbato. Se per me era normale guardare la Morte, per lei non era per niente usuale posare lo sguardo su qualcosa che non fosse un cadavere. Il fatto che l'avesse fatto non cambiava la sua posizione di astratta inumanità, ma di colpo mi accorsi che la Morte ha un corpo, un volto e un colore degli occhi, non è solo una paura lontana o un momento fastidioso alla fine della vita di ciascuno.

Eppure quel piccolo cambiamento alimentò i miei pensieri fino alla domenica successiva, data fissata per l'esecuzione di un gruppo di briganti.



Scena uno

Questa volta le guardie sono dieci, due per ogni condannato. Otto circondano il palco, due sono sul patibolo. Il banditore prende a strillare il suo annuncio, mentre io e il maestro controlliamo la tenuta dei cappi. Dietro alle forche c'è la Morte.

Il banditore termina di urlare e noi ci apprestiamo a far salire i condannati sul palco; dopo di che io mi posiziono accanto alla morte e il maestro li informa che hanno diritto di parola. Mi volto per vedere la sua espressione e scopro che mi sta ancora fissando, sempre con quella curiosità aliena.

I condannati sono chiusi in un silenzio ostinato e rifiutano di parlare. Il maestro quindi, partendo da sinistra, apre una ad una le botole ed i cinque condannati cadono con un tonfo e un rantolo.

Ci sono due modi di morire durante un'impiccagione: il primo, più rapido e frequente, è spezzarsi il collo; il secondo, se il condannato è piuttosto robusto, è il soffocamento.

Quattro dei cinque muoiono subito, il quinto resiste all'urto e comincia a dibattersi, emettendo dei suoni strozzati. La morte, che fino a quel momento aveva avuto lo sguardo fisso su di me, d'un tratto si dirige verso i quattro deceduti. Io le sussurro:

ISIDORO: Aspetta!

Confesso che non mi sarei mai aspettato di fermarla, eppure si ferma e riprende a fissarmi. Ora che siamo faccia a faccia però non ho idea di cosa dirle. Mentre ci penso i lamenti dell'uomo agonizzante proseguono. Normalmente per strangolamento si muore in meno di due minuti, lui li ha quasi raggiunti e la folla comincia a insultarlo e a tirargli pietre.

MORTE: Se hai qualcosa da dire, ti prego di farlo in fretta.

La Morte si sta rivolgendo proprio a me. Così la Morte ha anche una voce. Non l'avevo immaginata così. Non l'avevo immaginata affatto. Era una voce normale: femminile, acerba, dolce.

MORTE: Sono passati due minuti. Perdonami, ma devo...

ISIDORO: Perché mi fissavi?

MORTE: Ti ho sentito cantare la mia filastrocca. Ero curiosa. Cercavo di capire

che tipo è uno che guarda la Morte in faccia.

ISIDORO: Quanti anni hai?

MORTE: Non lo so. Più di quelli che tu e io possiamo contare. Comunque il tempo per me non ha significato, quindi non saprei davvero. Quell'uomo invece è oltre il suo tempo, devo andare. Mi piacerebbe parlarti ancora.

E, detto ciò, sull'ultimo condannato sopraggiunge la Morte, che porta via anche gli altri quattro.



Scena due

Mentre stavo studiando il grosso volume del codice penale del Ducato, il maestro è venuto a chiamarmi. Ha detto semplicemente: “Il duca ci ha convocato”.

Sono rimasto abbastanza sorpreso, dato che il Duca non è il tipo da prendere un'iniziativa, o almeno non lo è più. È vecchio e stufo e di solito affida tutte ai suoi funzionari, consiglieri e tirapiedi. Il suo ruolo non è quasi nemmeno più di rappresentanza: firma i proclami senza leggerli e assiste di malavoglia alla esecuzioni, preferendo di gran lunga le festicciole tra nobili che lui stesso sovente organizza. Per questo la nostra convocazione mi è sembrata allarmante, o quanto meno strana, ma ora, in piedi davanti a lui, sono informato del motivo.

DUCA: Ho assistito all'impiccagione di ieri.

La sua voce è nasale e mielosa, molto più vitale del solito.

DUCA: Ho assistito e ho visto. Mi avete molto impressionato.

BERNARDO: A cosa vi state riferendo, vostra signoria?

DUCA: Mastro Bernardo, il tuo apprendista ha fermato la morte.

BERNARDO: Vostra signoria, è stato un errore. Isidoro, diglielo.

DUCA: Credo che il ragazzo abbia una voce e un cervello tutto suo. Non occorre che tu parli per lui.

Il Duca pareva molto irritato. Quando si rivolse a me, invece, apparve traboccante di untuosa gentilezza.

DUCA: Ragazzo... Isidoro, credi si sia trattato di un errore?

Stavo iniziando ad agitarmi, mentre non sapevo che rispondere.

ISIDORO: Sì... sì, vostra signoria.

DUCA: Sì, forse hai ragione, ragazzo. Forse invece, è un'opportunità.

Io e il maestro ci scambiamo un'occhiata preoccupata.

DUCA: Bernardo, da quanto lavori al mio servizio?

BERNARDO: Quarant'anni, vostra signoria.

DUCA: Quindi sai quanto io sia stanco, sai quanto presto io debba morire. E sai anche che di morire non ne ho alcuna voglia. Vedi, io sono un amante della vita: amo la musica, i balli, il buon cibo e anche le donne, sì, anche adesso, e non sopporto il pensiero del poco tempo che mi rimane. Ma oggi ho visto ciò che mai ho creduto fosse possibile: la morte, la morte ha esitato! Quello schifoso delinquente ha vissuto più di quanto avrebbe dovuto e chi ha reso possibile questo è qui davanti a me.
Bernardo, voglio che il tuo apprendista convinca la Morte a non portarmi mai con sé.

BERNARDO: Vostra signoria, è uno sbaglio. Avete detto voi stesso che quell'uomo ha vissuto più di quanto concesso.

DUCA: Vuoi forse porre fine ai sogni di un povero vecchio?

BERNARDO: No, vostra signoria.

DUCA: E allora non voglio più sentirti dire idiozie del genere. Io sono il Duca, deciso io cosa è concesso e cosa non lo è. Ora farai bene a sparire, prima che io perda il mio buonumore.

BERNARDO: Subito, vostra signoria.



Scena tre

Il maestro è furibondo, ma naturalmente non lo da a vedere. Non è abituato ad essere contraddetto, tanto meno ad ingoiare un rospo grosso come quello appena propinatogli dal Duca. Sta appoggiato al muro con le braccia conserte, immobile. Siamo in casa, io, il maestro e Leonora, la sua compagna. Lei è il suo esatto contrario: espansiva, socievole, ma soprattutto riflessiva. Non ho mai saputo il motivo che spinse il maestro a prenderla con sé, come non ho mai saputo cosa lo spinse a prendermi all'orfanotrofio. La conobbe ad una qualche festa del duca, credo fosse una serva, e le chiese se avesse voluto venire con noi. Da allora è la sua coscienza e spesso, come in questo caso, dona l'esatta dose di buon senso di cui c'è bisogno.

LEONORA: Se è davvero come dici non possiamo andarcene.

BERNARDO: Certo che possiamo. Non avrò difficoltà a prendere servizio in qualche altra signoria, sono abbastanza famoso. Sappiate che non ho alcuna intenzione di accontentare il Duca: lavoro da una vita con la Morte e ho imparato che queste cose non vanno toccate. Meno che mai per vanità.

LEONORA: Eppure conosci altrettanto bene il Duca. Sai che ha troppa paura della morte per perdere questa occasione. Se ce ne andiamo, non se ne starà in panciolle sul suo trono di velluto senza fare nulla. Non questa volta.

Il silenzio in cui si chiude il maestro significa che le ha dato ragione.

LEONORA: Isidoro, credi di poterci riuscire?

ISIDORO: Non lo so... prima di tutto devo trovare un modo di parlarle. Non possiamo certo aspettare la prossima esecuzione ogni volta.

LEONORA: La Morte non si trova solo al patibolo. Prova all'ospedale, magari hanno qualche paziente moribondo.



Scena quattro

Il campanile rintocca le quattro quando mi accingo a varcare la soglia dell'ospedale. Il pomeriggio proietta ombre di colonne ed inferiate sul muro intonacato di bianco del porticato. Fuori dal portone di ingresso, un vecchio mendicante mi fissa. Il suo sguardo è gelato, mentre i suoi stracci sono pieni di mosche.

MENDICANTE: Una moneta per la buona sorte...

ISIDORO: Mi dispiace, non ho denaro con me.

Tanto è penetrante il suo sguardo, quanto è spezzata la sua voce. Distolgo lo sguardo, perché mi sembra che mi stia guardando dentro.

MENDICANTE: Oh, non fa nulla. Buona sorte ugualmente...

Nel frattempo compare il custode dell'ospedale, un uomo grasso e rasato male.

CUSTODE: Il vecchio ti sta importunando?

ISIDORO: No, no.

CUSTODE: Ma tu non sei il giovane boia? Entra, entra pure!

D'ovunque vada in città, basta farmi riconoscere come l'apprendista del maestro per farmi trattare con ogni cortesia. Entriamo nell'ospedale, dove la voce rimbomba sui muri intonacati.

CUSTODE: Cosa ti porta qui?

ISIDORO: Devo visitare l'ospedale. È per l'interesse del Duca.

CUSTODE: Oh, ma certo! Ma certo! Ti faccio accompagnare da un'inserviente, seguimi.

Il custode mi lascia nelle mani di una delle suore in servizio, che mi fa strada per gli ariosi corridoi sui quali si affacciano le stanze dei ricoverati.

SUORA: Ragazzo, sai come si chiama questo luogo, vero? Si chiama Santo Ricovero delle opere di Carità Celeste, sì, proprio così! Guarda la pulizia, guarda l'ordine! Perfino un cugino del Duca venne qui a farsi curare da un insidiosissimo morbo e, naturalmente, guarì benissimo. Puoi stare ben tranquillo a raccomandare questo ospedale al Duca, sì, è così! Nessuno corre alcun rischio qui dentro, sì!

ISIDORO: Bene. Avete qualche paziente in punto di morte?

SUORA: Senti ragazzo, questo è un ospedale con una certa reputazione, la quale non è affatto immeritata. Qui vengono le personalità più illustri e importanti, è rarissimo che chi entra qui, ne esca peggio di prima. E ancora più rari sono i decessi. Quindi no, non abbiamo pazienti in punto di morte.

La voce della suora è sonoramente stizzita. Non sembra le piaccia che la reputazione del Ricovero venga messa in dubbio.

SUORA: Comunque comunica al Duca che per lui possiamo offrire un salasso con le sanguisughe più pregiate ad una somma ridicolmente bassa. Ora levati di torno, non abbiamo tempo da perdere.

Torno all'ingresso senza aver concluso nulla, ritrovando il grosso custode.

CUSTODE: Hai fatto la domanda sbagliata, sai? Qui tutti si offendono se metti in dubbio il loro senso di carità. Sembra quasi che si dimentichino quanto sborsano i pazienti per quelle stanzette bianche.

ISIDORO: Avrei dovuto immaginarlo.

CUSTODE: Se ci tieni a visitare un paziente moribondo, comunque, dovresti tentare alle segrete sotto il tribunale. Lì i malati non li trattano bene come noi.

Scendo i due gradini dell'uscio e mi guardo intorno. Il mendicante non c'è più: la Morte l'ha portato via mentre ero all'interno del Santo Ricovero delle opere di Carità Celeste, da cui si esce sempre più sani di prima.



Scena cinque

Arrivo al tribunale dopo aver attraversato l'affollato centro della città. Qui l'accoglienza è più scortese, del resto i carcerieri non sono famosi per la loro condiscendenza.

CARCERIERE: Perché dovresti andare nelle segrete?

ISIDORO: Sono affari del Duca. E ho il benestare di mastro Bernardo.

CARCERIERE: D'accordo, apprendista boia. Andiamo a vedere. Non ho la minima idea di come stiano i prigionieri.

Il carceriere mi accompagna attraverso un puzzolente cunicolo di cella in cella, mostrandomi un campionario di infezioni, fratture ed ematomi.

ISIDORO: Picchiate tutti i prigionieri?

CARCERIERE: Sono i condannati a morte. Tanto poi devono comunque morire. Solo che non è facile, sai? Non possiamo fare troppo forte o ci muoiono prima, anziché sul patibolo da voi.

ISIDORO: Questi qui sono stati picchiati tutti.

CARCERIERE: Oh, bé... saranno tutti condannati a morte. Non avvicinarti troppo, hanno anche le pulci.

ISIDORO: A parte le pulci e il pestaggio, mi sembra stiano bene.

CARCERIERE: Te l'ho detto, non è adesso che devono morire.

ISIDORO: Va bene, portami su.

Ormai fuori è il tramonto, mi siedo sui gradini del tribunale a tirare il fiato. Nella luce arancione le vie di Milano sono attraversate da gente di ogni tipo occupata in altrettante svariate faccende: chi porta una tela del tale famosissimo pittore, chi sfacchina per il suo padrone, chi fa una passeggiata con aria annoiata. È strano da dire, ma non sono abituato a osservare le persone normali. Una visione molto più usuale per me è quella dei prigionieri, nelle segrete. L'unica differenza tra loro e i passanti che mi trovo davanti è come considerano il momento in cui moriranno. È un dato di fatto, l'ho dimostrato con l'esperienza di boia: mentre tra i prigionieri c'è una moltitudine di sentimenti verso la Morte – chi ne ha ancora una paura folle, chi spera che arrivi presto, chi la affronta con coraggio e via dicendo – nelle persone ancora libere c'è uno e un solo modo di rapportarsi alla Morte. Rimandare. Perché cosa varrebbe quel quadro per quella persona, se sapesse di dover morire tra poco? Nulla, nulla avrebbe più valore. E allora le persone rimandano quella paura, perché se se ne ricordassero, la loro vita sarebbe vuota come vaso forato. Eccoli, tutti indaffarati in qualche allegra occupazione. Io invece no. Io cerco la Morte.

Un'idea. È folle, assurda. Eppure comincio a sentire la sua filastrocca in lontananza, quindi so che funzionerà. Torno di corsa nel tribunale, sfilo la spada alla prima guardia che trovo e me la avvicino alla gola.

Eccola. Mi sta fissando di nuovo.

ISIDORO: Ciao.

MORTE: Cosa stai facendo?

Forse c'è una nota di apprensione nella sua voce.

ISIDORO: Credevo fosse evidente.

MORTE: È molto evidente. Ma mi sorprende che sia tu a farlo.

ISIDORO: Cosa vuoi dire?

MORTE: Ne ho visti tanti... innamorati, disperati, moralisti. A queste cose uno ci pensa parecchio. Tu non hai alcun motivo di farlo, tanto più che è da un bel po' che non hai paura di morire.

ISIDORO: Potresti aver ragione. Perché sei venuta, allora?

MORTE: Non ero tenuta a farlo. Trattandosi di te, però... non so, avevo intenzione di dissuaderti. Non sono molti quelli che parlano con la Morte, di solito sono persone che credono io sia Dio, oppure asceti, che risultano abbastanza monotoni. Mi dispiacerebbe non poter parlare più con te.

ISIDORO: Se ti dico che non ho intenzione di sgozzarmi, tu te ne vai?

MORTE: Sì.

ISIDORO: Come posso parlati ancora?

Non ottengo risposta: è già andata via. Nel frattempo si è formato un capannello di soldati attoniti intorno a me. Restituisco la spada e corro a casa.



Scena sei

ISIDORO: Ho trovato il modo di parlarle.

BERNARDO: Sarebbe?

ISIDORO: Le ho fatto credere che mi sarei suicidato.

BERNARDO: Ah.

Il maestro non si lascia impressionare da nulla.

BERNARDO: Cos'hai ottenuto?

ISIDORO: Nulla. Però mi ha detto che... le piace la mia compagnia.

LEONORA: Ottimo. Sfrutta questa cosa. Devi scoprire se si può far convincere da qualcosa. E deve convincersi che quello che le chiediamo non è un male.

Pur essendo iniziata da poco, già non sopporto più questa discussione. Quella ragazzina è l'unica che sembra essere sincera in tutto il ducato. Dice le cose come stanno, una cosa rara. Mi da il voltastomaco pensare a come raggirarla per soddisfare l'ennesima follia del duca.

ISIDORO: Non mi piace. Non mi piace per niente. Se quello che le chiediamo effettivamente è un male, come posso convincerla del contrario?

LEONORA: Per noi è un male, per noi infimi esseri mortali che sappiamo di chiedere una cosa che non ci è dovuta. Per lei invece, che differenza vuoi che faccia una vita in più o in meno?

ISIDORO: Rimane il fatto che devo fare una cosa sbagliata. E che non voglio fare.

LEONORA: Il mondo gira in questo modo, Isidoro. Il Duca non vuole l'immortalità perché è una cosa giusta, ma per soddisfare il suo capriccio di vita eterna. Nostro malgrado siamo coinvolti in questa storia che indubbiamente non porterà nulla di buono né a lui, né a noi, ma dalla quale comunque non possiamo esimerci. Siamo umani, non possiamo fare altro che tentare di sopravvivere nonostante l'infame sorte che il destino ci assegna volta per volta.

Sono talmente inviperito che non mi trattengo dal sibilarle contro la risposta.

ISIDORO: Complimenti per la retorica, Leonora. Da quando hai questa capacità oratoria?

BERNARDO: Isidoro, portale rispetto.

Il tono del maestro non ammette repliche.

LEONORA: Una volta ho studiato teatro. Mi ero unita ad una compagnia di attori di strada, poco più che straccioni. Non è che abbia imparato molto, ma una cosa sì: bisogna fare buon viso a cattivo gioco. Se non lo farai, ci andremo di mezzo tutti.

Me ne vado senza risponderle. Le sue massime sulla vita mi hanno messo appiccicato addosso una tristezza che nemmeno il sonno e la notte riesco a lavare via.



Scena sette

L'indomani è una pessima giornata. Il cielo è grigio, grigio quanto la città. Sono seduto sul bordo di un naviglio, la cui acqua se non grigia può essere definita verde fogna.

All'improvviso, mi giunge alle orecchie quella filastrocca. Dapprima quasi impercettibile, poi sempre più forte, finché la Morte compare di fianco a me.

MORTE: Dopo lo scherzo di ieri, non so più se hai davvero l'intenzione di morire.

ISIDORO: Beh, nemmeno io.

MORTE: Se ti siedi sul bordo di un canale putrido però qualche sospetto mi viene. Perché stai pensando di ammazzarti?

ISIDORO: Non ho mai avuto paura di te. Non che mi ricordi. Ho sempre pensato che fosse perché, a furia di impiccare le persone, mi fossi abituato alla tua presenza.

MORTE: Questa volta non basterà una favoletta a mandarmi via. Conosco il genere umano da molto tempo: ormai riconosco chi rimugina sull'idea di morire.

ISIDORO: Avrai ben presente allora quanto può essere squallido l'animo degli uomini. Sono nauseato dall'egoismo tramite il quale l'umanità cerca costantemente di riscattare la sua miseria. Tutto questo frastuono di desideri, volontà, fallimenti... tutta questa selva di parole e sorrisi e pianti non mi appare mai tanto vana e sbagliata come quando vedo la brama muovere un uomo, e in questi momenti mi sembra che tu sia la sola ad avere una dignità.

MORTE: Tu vedi di continuo la miseria più nera dei condannati a morte; come sei capitato a fare il boia nonostante questo?

ISIDORO: Il maestro mi prese con sé quando ero all'orfanotrofio, così, in modo naturale, divenni il suo apprendista. Ma non è questo. Non è perché sono abituato agli impiccati che non ho paura di te.

MORTE: E allora perché?

ISIDORO: Cosa c'è in questo mondo, in questa vita, di così prezioso da poterla rimpiangere? Le persone si affannano a cercarlo perché credono di avere poco tempo, ma non trovano nulla di soddisfacente perché sanno che non durerà.

MORTE: Rimane il fatto che tu continui a fare il boia, nonostante non ti piaccia farlo.

ISIDORO: A te piace quello che fai?

MORTE: Non capisco.

ISIDORO: Ti piace portare via le persone dal mondo?

MORTE: No.

ISIDORO: Quindi siamo nella stessa situazione.

MORTE: Non capisci. Intendevo che non ne ricavo piacere, non che ne provo disgusto.

ISIDORO: Perché allora porti via le persone?

MORTE: Non dovrei?

ISIDORO: Il genere umano ti odia.

MORTE: Che dovrei farci?

ISIDORO: Se ti odiano per quello che fai, potresti smettere di farlo. Sei obbligata da qualcuno?

MORTE: No.

ISIDORO: Ma tu lo fai ugualmente. Perché?

MORTE: Perché sono io. Perché è quello che sono. Rinunceresti alla tua identità perché qualcuno ti odia?

ISIDORO: Non lo so. No, credo di no. Però con me continui a fare eccezioni alle tue regole.

MORTE: Questa è una cosa che ho imparato da voi, dopo tutto questo tempo passato ad osservarvi: non importa quali siano le regole o le imposizioni, se qualcosa vi sta a cuore non c'è regola che tenga, né che valga la pena rispettare.

ISIDORO: Quindi è in tuo potere... smettere?

MORTE: Rinunceresti alla tua identità per qualcosa che ti sta a cuore?

Rimango silenzioso alla sua domanda.

MORTE: Posso dirti questo: ho notato anche un'altra cosa osservandovi. Che per quanto voi vediate misera la vostra sorte, per quanto vi crediate infimi e mi odiate, non ho mai visto l'umanità smettere di ridere e cantare. Oh, sembra che tu non voglia più morire. Devo andare.



Sipario



Chi derise la nostra sconfitta
e l'estrema vergogna ed il modo
soffocato da identica stretta
impari a conoscere il nodo.

Chi la terra ci sparse sull'ossa
e riprese tranquillo il cammino
giunga anch'egli stravolto alla fossa
con la nebbia del primo mattino.

La donna che celò in un sorriso
il disagio di darci memoria
ritrovi ogni notte sul viso
un insulto del tempo e una scoria.

Coltiviamo per tutti un rancore
che ha l'odore del sangue rappreso
ciò che allora chiamammo dolore
è soltanto un discorso sospeso.


(La ballata degli impiccati)



   
 
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