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Autore: samy88    19/11/2010    175 recensioni
"E' possibile aver bisogno dell'unica persona a cui mai ci si rivolgerebbe, se non sotto tortura? A me è capitato. La tortura in questione? Il matrimonio della mia odiosa cuginetta. La persona sbagliata? Il fratello, tremendamente sexy, della mia migliore amica..."
Genere: Romantico, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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c16


 

NOTE INIZIALI ( rosso perchè si avvicina natale, avete già fatto i regali? io sono ancora in panne!)


Non sono mai stata brava nelle note, e benché meno nel farmi perdonare.
Trovo una difficoltà immensa nel scrivervi questa nota, quasi quanto per scrivere questo capitolo. Ho scritto tempo fa un avviso nel mia pagina di FB e riporto alcuni punti solo perché non trovo le parole giuste per scusarmi: lì sono stata sincera e mi sembra corretto continuare ad esserlo.
Sono passati quattro mesi dalla mia ultima pubblicazione, tralasciando il missing moment della raccolta che era già per metà scritto. Non voglio parlare di blocco dello scrittore perché non sono affatto uno “scrittore”. Sono semplicemente una persona a cui piace scribacchiare e buttare su Word tutte le idee che mi frullano nella testa.
Chi scrive, o scribacchia come nel mio caso, sa che c’è il rischio di imbattersi in un periodo NO nel quale sembra difficile persino scrivere una recensione con un minimo di senso logico, figurarsi un capitolo intero.
Abbozzi una frase, la rileggi, non ti piace ma decidi ugualmente di lasciarla e magari revisionarla in un secondo momento. Quando poi la rileggi, la cambi totalmente, così ti fermi sempre e solo su quella. Questo è capitato a me. Cancellavo e riscrivevo sempre le stesse cose. Ogni santissimo giorno. Non andavo mai avanti. Ed è per questo che non ho messo un vero avviso in cui sospendevo questa storia, perché di fatto non l’avevo sospesa. Speravo ogni giorno di portare a termine il capitolo e pubblicare con la solita ansia mista all’euforia.
Perché da lettrice so quanto è grande l’impazienza di leggere un nuovo aggiornamento.
 
Quindi vi chiedo scusa per questo mio mancamento, non era mia intenzione spondere la storia
Vi chiedo scusa, se potessi moltipicandolo all’infinito,  per questo mio ritardo e per avervi fatto attendere così tanto tempo.
Ringrazio Marika per avermi spronata OGNI GIORNO, ‘meglio’ di uno STALKER. Grazie davvero!! Mi sei stata d’aiuto,  più di quanto tu possa immaginare!
Ringrazio coloro che hanno letto il capitolo in anticipo frenando ogni mia sega mentale (e me ne faccio davvero tante): Congy, Fallsofarc e Luxsemprenoi (Baleria, andò sei stata?)
Ringrazio quella ‘stronza’ della mia manager che mi ha torturato e continua a torturarmi le ovaie. Nana, non smettere mai!
Ringrazio coloro che mi hanno sostenuta e cercata su Fb, Twitter e privatamente, chiedendo costantemente mie notizie. Vi adoro. E per finire, ringrazio chi, nonostante tutto, ha atteso un mio ritorno e continuerà a seguirmi e leggere il seguito di questa storia.
Grazie davvero.
 
Ps: con tutti questi ringraziamenti sembra che questo sia l’ultimo capitolo ma non è così, ve lo garantisco.
Pps: AAA OFFRESI FIDANZATO MOMENTANEO è una raccolta di missing moment. Presto ne aggiungerò altri.
Ppps: con la nuova modifica apportata da Erika potrò rispondere a ciascuna vostra recensione, negativa o positiva che sia! Quindi… state in campana. 
Pppps: Una piccola nota per Francesca: Prof, guarisci presto!  Le  parti zuccherose sono tutte tue!

(con tutte queste P il cervello è andato in fumo)


Piccola nota personale, per quanto possa interessare:
Per il carattere di James mi sono ispirata a mio fratello. E' un diavolo dai capelli rossi: me ne combina di tutti i colori ma non riuscirei mai a smettere di amarlo. Per la parte finale invece a quell'insopportabile del mio fidanzato, che nonostante tutto, continua ad amarmi!
 
Ho parlato tanto, troppo.
Vi lascio al capitolo.
Buona lettura.

 




CAPITOLO 16
 


…«Ti avrei baciata anche se fossimo stati da soli.»…

Quella maledettissima e paradossale frase da film era stata la causa dello stato confusionale in cui ero entrata, permanendoci, mio malgrado, per un arco di tempo indefinito.
Aveva risuonato nella mia testa, di continuo, nemmeno fosse stata una di quelle canzoni che al mattino ti svegliano e ti perseguitano per il resto della giornata finché non trovi un modo per scacciarle, magari con un’altra canzone; non mi aveva abbandonata nemmeno quando avevo danzato con zio Eleazar, l’unica persona che potesse ampiamente vantarsi di non aver ricevuto mai, in nessuna occasione, un mio rifiuto in tema di ballo. Non ne avevo mai avuto il coraggio per quante volte avesse cercato con infinita pazienza di insegnarmi a muovere i piedi con un minimo senso di coordinamento – almeno tante quante di giocare a scacchi. In effetti, nel secondo caso l’allieva aveva quasi superato il maestro; nel primo invece aveva dovuto abbandonare l’idea quasi da subito.
Sfortunatamente, l’età per salire sui suoi piedi e ciondolare tra le sue braccia l’avevo ormai oltrepassata da anni, motivo per cui ci eravamo semplicemente limitati a dondolare da un lato all’altro, sebbene qualche piroetta non fosse mancata all’appello.
Molto probabilmente la stessa cosa che avrei fatto con Charlie se fosse venuto al matrimonio. Sapevo che l’assenza di papà non era dovuta solo al suo lavoro: c’entrava anche la mamma. Renée tendeva a cambiare idea molto facilmente. Si erano rivisti per la prima volta alla mia laurea dopo molti anni di separazione e già lì l’imbarazzo era salito alle stelle, figurarsi ad un matrimonio colmo di parenti dagli sguardi curiosi e privi di tatto, pronti a giudicare e confortare dopo anni di silenzio. Perfino zio Eleazar aveva compreso e accettato l’assenza di papà al matrimonio di sua figlia.
Tuttavia, come ogni figlia con un po’ d’occhio acuminato, sapevo che oltre alla mamma c’entrava anche un’altra donna: Sue Clearwater, la nuova fidanzata di papà. L’avevo conosciuta nei due mesi in cui ero tornata a Forks per un infarto scampato di Charlie. Si era presentata ogni giorno alla porta di casa con una nuova pietanza tra le mani, tutte che stranamente collimavano con i gusti di papà, finché una sera lo stesso Charlie non l’aveva obbligata a restare a cena e, di soppiatto nella cucina, lui l’aveva baciata sulle labbra trattenendola dalla nuca mentre lei arrossiva vistosamente. Il mio petto, silenziosamente, si era gonfiato di gioia. Papà aveva ritrovato finalmente un po’ di felicità.
Quello era il periodo in cui avevo lasciato Mike, rifiutando la convivenza e, cosa ancora più importante, un fidanzamento ufficiale.
Avevo pensato che se era bastata una semplice sbandata per uno sconosciuto – un condomino medico e strampalato - a mettere in dubbio i miei sentimenti, allora non ero assolutamente pronta per un vero e proprio matrimonio. E sebbene fossi stata del tutto cosciente e sicura della mia scelta, inizialmente i sensi di colpa mi avevano divorato il fegato perché lo sguardo e le parole che mi aveva rivolto Mike prima di abbandonare definitivamente Seattle erano stati amari e crudeli.
Ad ogni modo, il mio vero rinvigorente era stato James. Una vera manna dal cielo. Ed ora più pensavo a James, e più mi chiedevo per quale misterioso motivo Edward avesse suonato alla mia porta e ne avesse taciuto in seguito.
Dopo la rottura con Mike, per più di due mesi, Alice aveva trascorso gran parte del suo tempo nel mio appartamento, eccezion fatta per Jasper e il suo lavoro. Io, per scelta, non ero più andata a casa Cullen. Edward era l’ultima persona che avrei voluto incontrare; ero entrata in uno stato confusionale degno di uragano – ogni certezza era crollata al suolo - e in un certo senso, ingiustamente o lecitamente, lo incolpavo dell’accaduto. Ma sapevo perfettamente che la colpa non era affatto sua.
Io mi ero infatuata come una ragazzina dagli ormoni impazziti, non lui. Avevo addirittura pensato, stupidamente, che un po’ di distanza avrebbe freddato quel mio fermento. Ma nei quei quattro mesi a seguire, nei quali lui aveva lavorato fuori Seattle, avevo sentito la sua mancanza. Terribilmente.
La contraddizione delle contraddizioni.
Al suo ritorno poi, avevo assunto un atteggiamento totalmente assurdo ed infantile da lui stranamente contraccambiato: le frecciatine erano aumentate così come le occhiatacce e le provocazioni.
Infine, dulcis in fundo, era subentrata Alice con la sua trovata, tutt’altro che rivelatrice: il fidanzato in affitto. La permanenza in Alaska si era rivelata esattamente l’opposto di ogni mio pronostico e le sue azioni non mi avevano di certo aiutato a districare le mie dannate incertezze.
Mi aveva baciata e provocata anche nei momenti più insensati, quando nessun mio familiare aveva potuto assistere e, pertanto, non c’era stato alcun bisogno di interpretare il ruolo dei fidanzatini.
…«Ti avrei baciata anche se fossimo stati da soli.»…
Inevitabilmente il mio pensiero correva sempre e solo a lui.
Se il mio corpo aveva seguito meccanicamente zio Eleazar, esattamente come un automa, la mente era stata altrove, concentrata su ciò che i miei occhi non avevano abbandonato nemmeno per un istante, su Edward che, in mia assenza, aveva chiacchierato e riso tranquillamente con James. Quasi come se quella bizzarra tensione, inizialmente tra loro creatasi, si fosse disciolta con la mia dichiarazione di parentela.
In effetti, quello apparentemente teso era sembrato più Edward che James, come se quest’ultimo sapesse per certo più di quanto io avessi forse e solo ipotizzato.
Cercai di avvicinarmi al tavolo giungendo alle loro spalle nel modo più silenzioso possibile, in punta di piedi nonostante la musica attenuasse il picchiettio delle mie scarpe, con l’intento di origliare un minimo stralcio del discorso che i due uomini avevano intavolato. Edward non aveva smesso un attimo di ridere, e ciò non poteva presagire nulla di buono considerandone l’artefice.
Quando si trattava di riportare alla luce vecchi aneddoti imbarazzanti, James andava su di giri come un bimbo nel giorno di natale: in quei casi la sua lingua s’allungava
«Possibile che in tutti questi anni tu non abbia ancora capito che è impossibile fregarmi, cuginetta
L’occhio invece era stato sempre lungo.
Lentamente voltò il capo e sfoggiò un sorrisetto poco rassicurante, il che mi fece pronosticare che forse aveva già spifferato più di quanto avrebbe potuto. C’erano cose che sapeva solo lui, specie sulle mie questioni di cuore.
Afferrò al suo fianco una sedia dalla spalliera e la trascinò fino a posizionarla nel mezzo, tra lui ed Edward. Mi accomodai scrutandoli con meticolosa attenzione: due paia d’occhi – rispettivamente azzurri come il cielo e verdi come il mare – erano vispi ed estremamente vivaci e le loro labbra era così ricurve quasi da sfiorare le orecchie. Forse, a vederli bene, erano fin troppo briosi.
Mi guardarono ancora per un attimo finché non sghignazzarono contemporaneamente trattenendo a stento una risata molto più aperta di quella.
Sferrai un colpo sul braccio di James. «Brutto infame traditore, che cosa hai raccontato?!»
Lui si massaggiò la parte offesa e tossicchiò camuffando altre risate. «Nulla di compromettente, giuro.»
Giuda. Aspettavo con impazienza solo che mi baciasse una guancia.
Infatti lo fece. Si allungò stampandomi un sonorissimo bacio sulla mia guancia sinistra. Arrossii un poco e trattenni un sorriso affettuoso. Non era il momento di mostrarsi sentimentali anche se certi gesti mi erano mancati come l’aria.
Sogguardai Edward, il quale continuava a fissarmi con quell’infantile luccichio divertito negli occhi. Aggrottai la fronte, sentendomi fastidiosamente sulle spine. Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma lo anticipai facendogli morire le parole sul nascere. «Qualsiasi cosa ti abbia detto, non credergli. James è sempre stato il re, delle frottole.»
Il re delle frottole sfoggiò un sorriso sornione.
Edward si raschiò la gola con un colpetto di tosse. «Quindi non hai ingoiato un uovo crudo solo perché ti avevano detto che quello era l’unico modo per far crescere il seno, vero?»
Ma cosa cavolo…
Per il disappunto, rischiai di soffocare all’istante. James non era solo il re delle frottole, ma anche quello degli infami. Che razza di episodi andava raccontando?! Lanciai un’occhiataccia a mio cugino, degna di Clint Eastwood in un film western. «James, avevo solo otto anni!»
Quella era stata la prima ed ultima volta che mi ero fidata di Tanya.
Quale bambina non avrebbe smaniato all’idea di avere un po’ più di seno al posto di una tavola piatta da surf? Nessuna, e nemmeno io nonostante fossi tutt’altro che femminile. A quei tempi ero rimasta letteralmente sconcertata quando la mia premurosa cuginetta mi aveva docilmente svelato quella preziosissima nozione di bellezza; avevo compreso le sue intenzioni solo dopo aver ingoiato tutto il disgustoso e giallognolo contenuto dal bicchiere perché lei e le sue sorelline avevano riso fino a star male, come se avessero assistito in tempo reale ad una vera e propria candid-camera..
A dispetto di quella mia precisazione, Edward continuò ineluttabilmente a sogghignare, come se oltre all’episodio avesse collegato qualche altro suo strambo pensiero. Infatti, aggiunse: «Beh, in ogni caso, a quante pare per te sembra aver funzionato ingoiare un uovo crudo.»
Quella fu la volta di James: rise fino alle lacrime. La loro alleanza era quasi insopportabile, e figurarsi che si conoscevano da meno di ventiquattro ore, non riuscivo nemmeno ad immagine cosa avrebbero potuto combinare se fossero stati amici da più tempo.
Tuttavia, se l’aneddoto di James non mi aveva granché imbarazzata, la puntualizzazione di Edward invece mi aveva fatto avvampare fino alla radice dei capelli e non per timidezza, ma semplicemente perché, nella mia mente, era tornato a galla uno stravagante spogliarello fatto proprio davanti ai suoi occhi.
«Di te non hai raccontato niente, eh?!» sibilai a quel fedifrago di parente.
Proprio in quell’istante, quando Kate e Garrent diedero inizio all’ennesimo ballo al centro della pista, sopraggiunse Victoria che con un sorriso sornione si sedette in braccio al suo futuro marito. «Cosa avrebbe dovuto raccontare, quest’uomo che dice di esser stato un bimbo tanto ligio e silenzioso?»
Inarcai un sopracciglio. «Silenzioso, James?» Era stato il bambino più chiassoso e sfrenato che io avessi mai conosciuto. Zia Carmen aveva sempre sostenuto che l’esuberanza di suo figlio, tuttora come allora, compensava quella dell’intera famiglia Denali.  
Mi portai un dito alle labbra, reprimendo un risolino. «C’è un particolare che ricordo con maggior intensità»
Lui mi inchiodò con lo sguardo del tipo ‘stai attenta a quello che dici’, ma non avrei taciuto per nulla al mondo. Sapevo come rammollire quella sua maschera di sfrontatezza.
Sorrisi. «Ricordo che rubasti il pettine rosa delle bambole ad una delle tue sorelle: lo portavi sempre con te, fissato all’elastico degli slip e ogni volta che incontravi una bella bambina fingevi di pettinarti come John Travolta. Cercavi anche di fare l’occhiolino ma non ci riuscivi, e stringevi entrambi gli occhi contemporaneamente.» James contraccambio il mio sorriso al ricordo - l’ego maschile può prendere svariate direzione per la vetta – pensando che, forse, avessi già terminato di raccontare quel particolare, ma mancava ancora la parte più divertente e imbarazzante, almeno quanto il mio uovo crudo.
«Una volta invece hai indossato perfino la parrucca bionda di Halloween, quella di Tanya, e le scarpe col tacco di tua madre: hai ballato sulle note di Grease lungo tutto il corridoio. Devo dire che il ruolo di Sandy ti si addiceva di più.» Victoria rise sommessamente, forse immaginando il suo uomo in gonnella, che in quell’istante le pizzicava i fianchi un po’ risentito.
Ma lo scopo di quel nostro scambio di ricordi, utilizzandoli come se fossero quasi dei contraccolpi, non era in nessun caso quello di mettere l’altro in imbarazzo. Non c’era cattiveria, ma solo un misto di nostalgia e felicità nel rimembrare alcuni episodi di vecchia data.
Per l’appunto James, dopo quella piccola lotta con la sua fidanzata da lui definita ‘impertinente’, mi rivolse un dolce sorriso e strinse maggiormente la vita di Victoria. «Quello era il giorno in cui Renée ti aveva annunciato il tuo trasferimento da zio Charlie, ricordi?»
Per un attimo strabuzzai gli occhi ed una consapevolezza si fece strada tra i meandri della mia mente come la riversata frettolosa di un torrente: all’epoca James aveva potuto avere all’incirca dodici anni, un’età piuttosto avanzata per certe sceneggiate. Lui si era ridicolizzato per me, perché avevo pianto tutto il giorno rannicchiata in un angolo della sua cameretta.
Possibile che dopo tutti quegli anni, avessi compreso solo adesso quel suo affettuoso gesto? I miei occhi si inumidirono e se avessi potuto mi sarei lanciata per stringerlo forte a me fino a che le braccia non avessero urlato di dolore. Una carezza mi fece quasi sobbalzare; la mano di Edward si era posata sulla mia schiena. Mi rivolse uno sguardo dolce e comprensivo.
Victoria si schiarì la gola distraendoci l’uno dall’altra. «Bella, dove vi siete conosciuti tu ed Edward?» Con quella domanda riuscì quasi a stabilizzare l’equilibrio iniziale.
«Viviamo nello stesso palazzo.»
«E lì, vi siete incontrati per la prima volta?» chiese ancora, sorridendo in un modo tutto affabile.
Non feci in tempo a rispondere perché Edward mi anticipò spingendosi un po’ più in avanti. «Veramente, mi è piombata addosso il giorno del suo trasloco.»
Lo guardai a bocca spalancata, come se aspettassi da un momento all’altro che qualche mosca facesse il suo ingresso, o magari proiettassi l’intero ricordo come una diapositiva a mia difesa. «Non è vero! Mi sono sbilanciata, e sei stato tu ad avvicinarti per afferrarmi prima che io finissi per terra!»
Edward ammiccò. «Appunto, grazie a me non sei caduta e non ti sei ammaccata quel bel sederino che ti ritrovi.»
Inarcai un sopracciglio incrociando le braccai al seno. «A quanto pare non lo hai fatto certo per galanteria.»
Lui schioccò la lingua fintamente seccato. «Avrei potuto prendere gli scatoloni anziché te, non credi?»
Gli scoccai un’occhiataccia. «Sei insopportabile, te l’ho già detto?»
Si fece più vicino e sorrise con malizia. «Forse un paio di volte, forse anche più. E tu comunque sei ripetitiva.»
Era così vicino che riuscivo quasi a percepire completamente il profumo muschiato della sua pelle, contare le sue ciglia, una ad una, o ammirare quel leggero strato di barba che gli ricopriva la mandibola.
…«Ti avrei baciata anche se fossimo stati da soli.»…
«Ti detesto.» sussurrai con un filo di voce, bramando come un’affamata le sue labbra sulle mie e ovunque lui volesse posarle.
«Non è vero.» disse con spontaneità, spostando oltre la mia schiena alcuni boccoli venuti in avanti. Successivamente, la sua mano restò ancora a contatto con la mia pelle. Tratteggiò leggero con due dita l’osso sporgente della mia clavicola.
«Sembra tanto una dichiarazione di guerra.» mormorò James dopo aver assistito alla nostra battaglia di freccette e carezze implicite. Noi lo ignorammo.
Una dolce risata femminile. «Io direi d’amore, James. Anche tu ed io abbiamo fatto così all’inizio del nostro rapporto.»
Un brivido salì lungo la mia schiena incentrandosi alla mia nuca.
D’amore. Una dichiarazione d’amare. A conti fatti allora, c’eravamo amati quasi  sin da subito, dal momento che quella guerra andava avanti già da un bel po’di tempo.
Mi girai velocemente: avrei dovuto e voluto replicare, magari con qualche frase pungente, ma nel movimento, maldestramente feci rovesciare un flute di prosecco sul tavolo. Il liquore si riversò completamente sulla tovaglia e sulle mie dita quando cercai di evitare il disastro. Edward mi porse una salvietta sogghignando. Il suo sguardo fu più che eloquente.
«Non fiatare.» sibilai, ma un sorriso sfuggì al mio controllo.
Ricordavo ancora quando una volta gli avevo versato un intero bicchiere di vino addosso macchiandogli la sua camicia preferita perché mi aveva dato della ‘burattina nelle mani di uno idiota’. Nell’ultimo litigio prima della sua partenza da Seattle.
E mentre io cercavo di pulirmi alle bell’e meglio con la salviettina, vidi Kate sbracciarsi e sventolare il suo mazzo di fiori informandoci dell’imminente ed ennesimo intrattenimento matrimoniale: il lancio del bouquet. Il matrimonio non sembrava mai trovare fine. Un motivo in più per odiarlo: oltre ai vestiti pomposi e scomodi e privi di praticità da indossare, la lunghezza dei festeggiamenti stessi.
Victoria seguì il mio sguardo e con uno sbuffo si alzò in piedi tamburellando sulla mano di James incollata al suo pancione.
«Bella, tu vieni con me, vero?» Si lisciò il vestito color malva sui fianchi. «Fortunatamente il matrimonio è quasi finito. Sono stanchissima.»
Ormai era sera: le stelle brillavano alte nel cielo scuro del crepuscolo e nell’aria si sentiva la tipica frescura estiva dei luoghi di mare. La pelle delle braccia era piacevolmente fresca, se non addirittura fredda.
A mia volta mi alzai con lo stesso identico sbuffo emesso da lei qualche attimo prima. «Se vuoi, possiamo restare qui al tavolo.»
Lei ridacchiò dolcemente. «Non mi tentare, Bella. Facciamo quest’ultimo sforzo. Non siamo maritate e purtroppo ci tocca.»
Victoria si era presentata come una ragazza alla mano: simpatica, spigliata e solare. Palesemente titolare delle tre ‘s’, le principali qualità che avrebbero fatto capitolare un qualsiasi uomo dalla cresta lunga e dura come quella James.
Quest’ultimo le baciò velocemente, ma pur sempre preso e con totale devozione, una mano. «Vic, cerca di non prendere il bouquet così non sarò costretto a sposarti.»
Lei con la stessa mano gli diede un buffetto sulla guancia. «Contaci, amore. E se eventualmente arriva tra le mie braccia lo passo subito a Bella.»
Tossicchiai ed Edward rise sotto i baffi. Un finto fidanzamento, per quanto incasinato, a suo modo era fattibile ma un finto matrimonio era letteralmente inconcepibile.
Edward mi lanciò uno sguardo divertito. «Dovrei già sposarti per la partita a scacchi, non infieriamo pure col bouquet.»
Il mio sguardo si accese di sfida. «Non preoccuparti, amore, al massimo trovo qualcuno disposto a sposarmi entro l’anno. Magari… potrei sempre chiederlo a Mike»
Fui pienamente compiaciuta di quel suo proverbiale sopracciglio visibilmente inalberato.
 

***

 
Se è vero che agli uomini bastano pochi secondi per spogliarsi ed infilarsi in un letto, e non solo in senso metaforico o affettivo, è altrettanto vero che le donne in certe occasioni sono tutt’altro che veloci,  a meno che non sia la passione a prevale su entrambi i sessi, perché in quel caso i vestiti non verrebbero semplicemente sfilati, ma strappati, perfino con i denti e non si perderebbe nemmeno una briciola di tempo in bagno per quisquilie femminili.
Questo, per l’appunto la prima parte, fu uno dei motivi per cui, io e Victoria, disertammo l’ultima parte dei festeggiamenti lasciando Edward e James a bere l’ultimo drink della serata e disquisire affabilmente su argomenti tipicamente maschili, aventi lo sport come testa e le auto come coda (il sesso nel mezzo).
Perciò, una volta sopraggiunte al piano superiore, raggiungemmo le nostre camere da letto, non molto distanti l’una dall’altra, augurandoci reciprocamente la buonanotte.
Con l’intento di sfilarmi di dosso quell’abito da cerimonia, ero entrata nel bagno chiudendomi la porta alle spalle lasciando ancora una volta la chiave sul mobiletto; una parte di me sperava quasi in un’improvvisa apparizione di Edward con tanto di avviluppamento e arrancata sino alla doccia.
Ero perfino riuscita a sciogliermi da sola l’insidiosa acconciatura, togliendo gli innumerevoli ferretti, anche se una volta liberi, i miei capelli, somigliavano ad una gigantesca criniera leonina fresca di permanente: una vera e propria cascata di voluminosi ricci.
Purtroppo, era l’abito, quello che mi aveva dato del filo da torcere: avevo combattuto coraggiosamente con la cerniera lampo per più di dieci minuti, sebbene quella non avesse mostrato alcuna intenzione di collaborare. Ad ogni strattone la stoffa s’arricciava frenandone la calata.
Pensai a Victoria e al suo, di abito, in seta e privo di cerniere o fronzoli inutili; magari avrebbe potuto darmi una mano con quest’arnese infernale. Avevo già capito l’antifona: era una battaglia persa in partenza.
Quando uscii dal bagno provai anche a slacciarmi la collana ma il gancio era ingarbugliato con alcune ciocche di capelli. Infastidita, sbuffai: oltre alla cerniera, ci si mettevano anche i gioielli.
«Problemi?»
La voce di Edward giunse improvvisa alle mie orecchie. Alzai lo sguardo e lo ritrovai a ridosso della porta finestra senza giaccia, con il colletto aperto e la cravatta allentata, intento a sbottonarsi i polsini. Aveva spento i faretti incassati nel soffitto: la stanza era scesa nella penombra rischiarata solo dalla fioca luce di un’abatjour. I suoi capelli in alcuni punti sembravano bagnati dalla luna che alle sue spalle brillava alta e fulgida nel cielo notturno, in altri, invece, umidi dalla stessa notte per quanto all’apparenza sembrassero scuri. I tratti del suo viso erano distesi, sciolti come se fosse totalmente avvolto da un’aura di bizzarra e sensuale tranquillità.
Sorrise in modo vagamente malizioso. «Bella, ti serve una mano?»
Ero rimasta inebetita a fissarlo per chissà quanto tempo, senza realmente rendermene conto, proprio come nei nostri primissimi incontri, conquistata dal suo fascino. In tutti quei mesi ero riuscita a fare dei passi in avanti, ma in quella settimana ne avevo compiuti altrettanti indietro, se non di più.
Con una mano stranamente tremante indicai la mia schiena. «Non riesco a… a tirare giù la lampo del vestito e sciogliere la collana.»
L’imbarazzo, esattamente l’ultima cosa di cui avevo bisogno, formava un’irreale e sottile patina sulla pelle, mentre la frenesia era ineluttabilmente radicata alle ossa, nelle fibre, impossibile da svestire, impossibile da levare.
«Girati» sussurrò con voce roca e gutturale facendosi più vicino.
Mi voltai e con una mano alzai dalla schiena i miei capelli per facilitargli il lavoro.
Inizialmente percepii una leggera sollecitazione alla cerniera lampo, poi qualcosa di freddo – le sue dita – a contatto con la mia pelle. «E’ inceppata.» spiegò spingendo delicatamente con i polpastrelli tra le mie scapole.
Con Edward avevo sempre avuto uno strano senso di inadeguatezza, come se avessi sempre dovuto creare io stessa la propulsione per una determinata situazione, ma quella sera la sensazione era diversa. Forse non avrei avuto bisogno di alcun pretesto per avvicinarlo: probabilmente lo avrebbe fatto anche se non avessi trovato difficoltà con il mio abito.
Mi raschiai leggermente la gola. «Hai le mani fredde.».
Con le dita premute sulla mia pelle, riuscì a tirare giù la lampo con calma, come se volesse osservare ogni porzione di epidermide che man mano veniva scoperta – o magari, semplicemente, speravo che fosse quello il vero motivo di artefatta lentezza. «Scusa, non sono abituato alle temperature dell’Alaska, e sinceramente non sono sicuro di volermici abituare.»
Un dito scivolò dalla nuca alla base della mia schiena, segnandone ogni vertebra esposta.
La sua non era lentezza. Ma concupiscenza.
Fermai in tempo la calata del vestito sul davanti bloccandolo sul seno con la mano libera. Ero così distratta da scordarmi persino i gesti più naturali, quelli più pudichi.
«Ti sciolgo anche la collana?»
«Oh.» esclamai con un risolino nella voce. «Questa mattina mi hai chiuso l’abito, sebbene non fosse questo, e mi hai agganciato anche la collana. Il servizio è incompleto, non credi?»
«Hai ragione.» rispose Edward ridacchiando appena. «Perdona la mia mancanza.»
Frasi sensuali e beffarde, parole morbidamente sussurrate: un innato e inguaribile gioco di seduzione.
Le sue dita sfioravano appena la mia nuca e tiravano deliacamente i capelli incastrati nel gancio. C’era una squisita calma nella stanza, caratterizzata unicamente dai nostri sospiri – il mio astrusamente più veloce.
Avevo quasi il timore che, la tensione, da sensuale potesse oltrepassare quella linea sottile e trasformarsi in un imbarazzante silenzio. E in effetti qualcosa di impellente e importante da dire c’era. Dovevo solo trovarne il modo. Per cui tirai un profondo sospiro ed iniziai a parlare
«Allora» mi schiarii la voce. «Sono in debito con te, non trovi?»
Lui ridacchiò. «Per il servizio completo in merito alla collana e al vestito? Beh, sì, direi proprio di sì.»
Risi spostando tutti i capelli sul lato destro; il braccio cominciava a dolore dallo sforzo. «No sciocco, non mi riferivo a quello.»
Edward sospirò e fermò un dito per un istante sulla mia nuca. «Lo so a cosa ti riferivi.» Nel tono non c’era stata alcuna traccia di accusa. Riprese a sciogliere il nodo tirando appena un capello dalla radice.
«Suppongo che al ritorno dovrai uccidere Alice. Questa settimana per te deve essere stata proprio un bel cambio di programma.» Mi morsi le labbra avvertendo un poco d’ansia. «L’hai trovata così noiosa?»
«Al contrario. Direi…» Da parte sua ci fu una lunga pausa, silenziosa e tesa: un respiro trattenuto, poi rilasciato quasi bruscamente. «…piuttosto illuminante
Illuminante: insolita definizione.
«Illuminante.» meditai. «Per te o per me?» domandai poi con un filo di voce ed una curiosità emozionante.
Edward sopirò. «Chissà… forse per entrambi.»
La sua risata, improvvisa e sottile, vibrò nell’aria. «Mettiamola così: le tue considerazioni sono sempre le stesse?»
Alice tutto potrebbe sembrare tranne il mio fidanzato.
Edward, date le tue esperienze, non credo che tu possa essere definito un perfetto fidanzato.
…se mi fai passare per la stupida della situazione ti ammazzo con le mie stesse mani.
I pregiudizi sono i paraocchi e i tarli della mente: ne limitano e ne distorcono fastidiosamente i pensieri. C’è soddisfazione o rassegnazione quando questi risultano esatti e lo si manifesta a gran voce; c’è invece imbarazzo e pentimento quando accade l’esatto contrario e confessarlo risulta più che improbabile.
Come semplici e friabili biscotti al burro, i miei pregiudizi erano stati sgretolati senza alcuno sforzo dalle sue mani.      
A volte  si camuffano anche in scudi con cui difendersi, armi con cui contrattare, o appigli a cui aggrapparsi per non scivolare lungo un pendio sconosciuto – foderato da spine o petali, o da intere rose in tutta la loro morbidezza e nocività.
Lo avevo mal giudicato per un gesto di autoconservazione, per sfuggire da lui e da tutto quello che all’apparenza gridava instabilità, autoconvincendomi che fosse immaturo e fin troppo volubile come uomo, l’ultimo di cui potessi e dovessi mai innamorarmi.
Il primo di cui mi ero totalmente innamorata.
Le mie considerazioni erano decisamente cambiate, ormai senza alcun dubbio. Ora, con un po’ di coraggio e orgoglio sepolto, avrei dovuto solo raccogliere quelle briciole e, a palmo aperto, mostrargliele.
Inspirai profondamente congiungendo le mani sul mio grembo. «Mi sono sbagliata sul tuo conto: non sei lo sbruffone che credevo tu fossi.»
Lui rise allegramente. «Sbruffone? Da te mi sarei aspettato qualche epiteto più colorito. Di solito non sei così delicata.»
Lo ringraziai mentalmente per aver alleggerito la tensione.
«E adesso te lo saresti pure meritato!» Gli diedi una leggera gomitata nello stomaco smorzandogli un’imprecazione divertita dalle labbra.  «Accidenti, e pensare che a volte riesci a fare anche la persona seria.»
Edward sogghignò ancora facendosi d’un tratto più vicino: poggiò una mano sul mio fianco e incollò il suo busto alla mia schiena. Poi sentii la sua mano, quella libera, sfilare languidamente la collana dalla mia gola e strisciarla sulla mia spalla per poi allungare il braccio e abbandonare il gioiello sul copriletto.
«Anch’io mi sono sbagliato» mormorò ad un soffio della mia pelle. Lo sentii inspirare profondamente. «Sono giunto a troppe conclusioni affrettate.»
Cuginetta?
Sì, è mio cugino.
Ho fatto la figura dell’idiota, vero?
Sicché non ero stata l’unica ad aver fatto delle considerazioni errate; ognuno, a modo suo, aveva sbagliato. C’erano state fin troppe incomprensioni, e ce ne stavamo rendendo conto solo ora. Ma non era tardi. Chi più o chi meno, presto o tardi, ormai non aveva importanza.
Sussultai lievemente quando percepii il suo fiato infrangersi sulla mia spalla, un bacio soffiato caldo e morbido come una carezza di velluto. I brividi si spansero come onde a pelo d’acqua dovute da un sassolino lanciato in mare. Un sospiro uscì dalle mie labbra dischiuse, e a nulla valsero i miei sforzi per trattenerlo. Un’evidente ostentazione di abbandono.
«Si può sempre rimediare.»
Le mie parole si dispersero docilmente nella stanza senza trovare alcuna risposta perché ,quando girai il capo per cercare i suoi occhi, le sue labbra furono subito sulle mie, come se aspettasse quella mia mossa già da tempo. Quel bacio, che sapeva quasi di disperazione, risvegliò brutalmente ogni mia particella forzatamente sedata, spogliandomi dall’imbarazzo e lasciando spazio solo alla frenesia che, da un momento all’altro, aveva preso il sopravvento.
Quando mi alzai sulle punte per avvicinarmi maggiormente a lui, un suo gemito basso e gutturale, un misto di liberazione e abbandono, si sciolse nelle mia bocca mentre la stretta alla mia vita si accentuava fino a diventare quasi dolorosa, in modo piacevole; l’altra sua mano risaliva lungo il collo fermandosi sulla mia guancia trattenendo il mio viso riverso, come se ce ne fosse bisogno, come se io non stessi facendo altrettanto con le mie, di mani: una, salda e ancorata alla sua nuca con le dita intrufolate nei suoi capelli, e l’altra sulla sua arpionata al mio fianco.
Un bacio strano, dolce, passionale e travolgente, che si prolungò nel tempo accrescendo sempre più di intensità, foggiato dai nostri corpi attorcigliati come due scale a chiocciola intrecciate. Un bacio al retrogusto di wisky e crema pasticciera. Con la mia testa inclinata, la sua lingua aveva potuto raggiungere i più piccoli punti inesplorati del mio palato, della mia gola, dei miei denti.
Mi girai solo quando avvertii l’impazienza di toccarlo fremere nelle mie mani, un bisogno quasi insostenibile. Ma non mi allontanai nemmeno in quel caso perché lui non me lo permise. Ruotai nel suo abbraccio ritrovami col petto completamente schiacciato al suo.
Mi aggrappai alla sua cravatta e con mani febbrili gliela slegai gettandola sul pavimento. Un gesto significativo, carico di sottintesi e di consensi silenziosi niente più freni né inibizioni.
Ero lì, tra le sue braccia, e nulla intorno aveva più consistenza né importanza. Nessuna riflessione né sul passato né sul futuro, né su ciò che sarebbe accaduto il giorno dopo, o quello dopo ancora. Solo noi.
Con indicibile impazienza slacciai i bottoni della sua camicia non prima che lui la tirasse fuori dai pantaloni. Edward continuò a baciarmi il viso: le guance, gli zigomi, gli occhi, per poi soffermarsi sul mio collo e lasciarmi, intenzionalmente, tutto il tempo e lo spazio necessari per denudarlo. La camicia scivolò oltre le sue spalle e lungo le sue braccia vigorose.
Con curiosità carnale saggiai la consistenza della sua pelle: liscia, soda e vellutata sotto le mie mani tremanti. Conoscevo i suoi gusti, le sue preferenze ma il suo corpo era per me un territorio totalmente inesplorato Ad ogni carezza Edward socchiudeva gli occhi, al di sotto delle mie dita i suoi muscoli guizzavano e il suo respiro diveniva sempre più frenetico. Quelle sue reazioni causarono in me un senso di potere, un orgoglio tutto femminile che mi portarono a sentirmi bella e desiderabile a suoi occhi.
Con altrettanta impazienza lui abbassò l’unica bretella del mio vestito stoicamente aggrappata alla mia spalla. Come una cascata nella notte, l’abito blu si riversò sul pavimento insieme alla mia volubile audacia. Il primo istinto fu di chiudere le palpebre, ma non ne fui in grado perché la prima cosa che lui fece, non fu guardare il mio corpo seminudo, ma tenere i suoi occhi inchiodati ai miei. Solo dopo, quando la voglia di essere guardata fu anche mia, con altrettanta curiosità, così carnale da incendiare la mia pelle nemmeno fosse stata steppa arida, studiò il mio corpo con uno sguardo bruciante di desiderio. Le sue dita vagarono sulla mia pelle ancora coperta di pizzo, e sospiri spezzati uscirono dalle mie labbra. Poi, inspiegabilmente, si sedette sul letto attirandomi tra le sue gambe. Con le mani ancorate ai miei fianchi, e le mie intrufolate ancora una volta nei suoi capelli, aspirò la mia pelle dall’ombelico allo sterno in una carezza lenta e intima. Un decelerazione volontaria, come se stesse frenando ogni suo istinto primordiale e sfacciatamente maschile per darmi tutto il tempo di comprendere ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.
Avrei voluto dirgli ‘non trattenerti, amore, perché l’urgenza che tu senti la condivido anch’io’, ma anziché parlare e rischiare di dire qualcosa di inappropriato, glielo feci intendere tuffandomi sulle sue labbra con struggente avidità. Quella fu la proverbiale goccia di passione che fece traboccare il vaso. Afferrandomi dalla vita, si stese sulla schiena trascinandomi su di lui per poi rotolare lateralmente e invertire le posizioni.
Ancora impazienza.
Tutto ciò non fu pelle, e d’intralcio ai nostri corpi, venne annullato. Ci sfilammo i vestiti con un’impellenza tale da rendere i movimenti quasi goffi. Un groviglio di mani frenetiche e indumenti svolazzanti. Una mia risatina e un’occhiata divertita da parte sua quando i suoi pantaloni si incespicarono nelle nostre gambe intrecciate.
Ancora curiosità.
Intreccio e lusinghe di lingue e di sguardi, scontri di denti e di nasi, morsi di labbra morbidi e forti al limite del dolore. Baci infuocati, intimi, appassionati, impudichi e irrefrenabili in ogni parte del mio corpo. Laddove rabbrividivo lui succhiava, come a voler catturare con le labbra quel piccolo e visibile tremito a fior di pelle.
Con l’incolta e sottile barba mi solleticò lo stomaco, la pancia, l’interno delle cosce e lo spazio tra  i seni consapevole di ciò che lui e quella parte di lui erano in grado di provocarmi: gemiti e brividi e mancamenti. Edward aveva sorriso più di una volta. Ma quel suo sorriso non sembrava affatto di compiacimento, bensì di complicità.
Le sue carezze, di mani e di occhi, furono morbide sulla mia pelle scoperta, voluttuose sul mio seno, vigorose sui miei fianchi e impudiche dove i nostri corpi si scontravano ritmicamente con impazienza.
Ancora passione.
Un incastro intimo così armonioso che sembrò quasi irreale. Quelle sue spalle così larghe e ponderose mi diedero un vero senso di protezione. Le mie gambe allacciate al suo bacino e le sue mani incollate alle mie natiche per affondare più in profondità; od io tirata su a sedere, issata sulle sue gambe di poco piegate con le mie invece attorcigliate alla sua vita: le nostre mani premute sulla rispettiva schiena dell’altro pressando fino ad illuderci di divenire un tutt’uno anche con la pelle. Petto contro petto. Cuore contro cuore.
Ancora ed ancora passione.
Ad ogni spinta fu una goccia di sudore spillata, un battito cardiaco mancato, un bacio rubato, un ansito pronunciato, uno slancio verso il paradiso e un brandello di anima remissivamente ceduto. Toccammo l’apice allo stremo della sopportazione, allo stremo delle forze, stringendoci l’uno all’altro così forte da smorzarci il respiro, la sua testa sepolta tra i miei seni imperlati di sudore.
Tenerezza.  
Edward continuò ad accarezzarmi la schiena, le braccia e i fianchi  - nemmeno fossi diventata d’un tratto tenera e fragile come un cristallo –,  e a baciarmi i capelli , il naso e palmi delle mani anche dopo l’amplesso, quando ormai non sembrava più essercene bisogno. O perlomeno, quello era sempre stata una mia stupida convinzione, che dopo il sesso non fossero necessari altri gesti.
Ma questa volta, per me, non era stato affatto solo e semplice sesso.  
Amore?
Mi addormentai tra le sue braccia che, calde e possessive, mi strinsero per tutta la notte al suo fianco cullandomi deliziosamente in quell’abbraccio che sapeva ancora di noi e dell’amore appena consumato.
E sebbene mi avesse trattenuta a lui per tutta la notte, all’albeggiare del giorno seguente stranamente mi risvegliai ritrovandomi un poco distante da lui, quel tanto da distanziare i nostri corpi l’uno dall’altro. L’unica notte in cui avrei potuto ancora travolgerlo, mi ero inspiegabilmente allontanata. Ma non del tutto, perché Edward, ancora una volta me lo aveva impedito tenendosi attaccato con una mano alla mia vita, come ad accertarsi della mia presenza al suo fianco.

 

   
 
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