NOTE INIZIALI ( rosso perchè si
avvicina natale, avete già fatto i regali? io sono ancora in panne!)
Non sono mai stata brava nelle note, e benché meno nel farmi perdonare.
Trovo una difficoltà immensa nel scrivervi questa nota, quasi quanto per
scrivere questo capitolo. Ho scritto tempo fa un avviso nel mia pagina di FB e
riporto alcuni punti solo perché non trovo le parole giuste per scusarmi: lì sono
stata sincera e mi sembra corretto continuare ad esserlo.
Sono passati quattro mesi dalla mia ultima pubblicazione, tralasciando il
missing moment della raccolta che era già per metà scritto. Non voglio parlare
di blocco dello scrittore perché non sono affatto uno “scrittore”. Sono
semplicemente una persona a cui piace scribacchiare e buttare su Word tutte le
idee che mi frullano nella testa.
Chi scrive, o scribacchia come nel mio caso, sa che c’è il rischio di
imbattersi in un periodo NO nel quale sembra difficile persino scrivere una
recensione con un minimo di senso logico, figurarsi un capitolo intero.
Abbozzi una frase, la rileggi, non ti piace ma decidi ugualmente di lasciarla e
magari revisionarla in un secondo momento. Quando poi la rileggi, la cambi
totalmente, così ti fermi sempre e solo su quella. Questo è capitato a me.
Cancellavo e riscrivevo sempre le stesse cose. Ogni santissimo giorno. Non
andavo mai avanti. Ed è per questo che non ho messo un vero avviso in cui
sospendevo questa storia, perché di fatto non l’avevo sospesa. Speravo
ogni giorno di portare a termine il capitolo e pubblicare con la solita ansia
mista all’euforia.
Perché da lettrice so quanto è grande l’impazienza di leggere un nuovo
aggiornamento.
Quindi vi chiedo scusa per questo mio mancamento, non era mia intenzione
spondere la storia
Vi chiedo scusa, se potessi moltipicandolo all’infinito, per questo mio
ritardo e per avervi fatto attendere così tanto tempo.
Ringrazio Marika per avermi spronata OGNI GIORNO, ‘meglio’ di uno STALKER.
Grazie davvero!! Mi sei stata d’aiuto, più di quanto tu possa immaginare!
Ringrazio coloro che hanno letto il capitolo in anticipo frenando ogni mia
sega mentale (e me ne faccio davvero tante): Congy, Fallsofarc e Luxsemprenoi
(Baleria, andò sei stata?)
Ringrazio quella ‘stronza’ della mia manager che mi ha torturato e continua a
torturarmi le ovaie. Nana, non smettere mai!
Ringrazio coloro che mi hanno sostenuta e cercata su Fb, Twitter e
privatamente, chiedendo costantemente mie notizie. Vi adoro. E per finire,
ringrazio chi, nonostante tutto, ha atteso un mio ritorno e continuerà a
seguirmi e leggere il seguito di questa storia.
Grazie davvero.
Ps: con tutti questi ringraziamenti sembra che questo sia l’ultimo capitolo ma
non è così, ve lo garantisco.
Pps: AAA OFFRESI FIDANZATO MOMENTANEO è una raccolta di missing moment. Presto
ne aggiungerò altri.
Ppps: con la nuova modifica apportata da Erika potrò rispondere a ciascuna
vostra recensione, negativa o positiva che sia! Quindi… state in campana.
Pppps: Una piccola nota per Francesca: Prof, guarisci presto! Le
parti zuccherose sono tutte tue!
(con tutte queste P il cervello è andato in fumo)
Piccola nota personale, per quanto possa interessare:
Per il carattere di James mi sono ispirata a mio fratello. E' un diavolo dai
capelli rossi: me ne combina di tutti i colori ma non riuscirei mai a
smettere di amarlo. Per la parte finale invece a quell'insopportabile del
mio fidanzato, che nonostante tutto, continua ad amarmi!
Ho parlato tanto, troppo.
Vi lascio al capitolo.
Buona lettura.
CAPITOLO 16
…«Ti avrei baciata anche se fossimo stati da soli.»…
Quella maledettissima e paradossale frase da film era stata la causa dello
stato confusionale in cui ero entrata, permanendoci, mio malgrado, per un arco
di tempo indefinito.
Aveva risuonato nella mia testa, di continuo, nemmeno fosse stata una di quelle
canzoni che al mattino ti svegliano e ti perseguitano per il resto della
giornata finché non trovi un modo per scacciarle, magari con un’altra canzone;
non mi aveva abbandonata nemmeno quando avevo danzato con zio Eleazar, l’unica
persona che potesse ampiamente vantarsi di non aver ricevuto mai, in nessuna
occasione, un mio rifiuto in tema di ballo. Non ne avevo mai avuto il coraggio
per quante volte avesse cercato con infinita pazienza di insegnarmi a muovere i
piedi con un minimo senso di coordinamento – almeno tante quante di giocare a
scacchi. In effetti, nel secondo caso l’allieva aveva quasi superato il
maestro; nel primo invece aveva dovuto abbandonare l’idea quasi da
subito.
Sfortunatamente, l’età per salire sui suoi piedi e ciondolare tra le sue
braccia l’avevo ormai oltrepassata da anni, motivo per cui ci eravamo
semplicemente limitati a dondolare da un lato all’altro, sebbene qualche
piroetta non fosse mancata all’appello.
Molto probabilmente la stessa cosa che avrei fatto con Charlie se fosse venuto
al matrimonio. Sapevo che l’assenza di papà non era dovuta solo al suo lavoro:
c’entrava anche la mamma. Renée tendeva a cambiare idea molto facilmente. Si
erano rivisti per la prima volta alla mia laurea dopo molti anni di separazione
e già lì l’imbarazzo era salito alle stelle, figurarsi ad un matrimonio colmo
di parenti dagli sguardi curiosi e privi di tatto, pronti a giudicare e
confortare dopo anni di silenzio. Perfino zio Eleazar aveva compreso e
accettato l’assenza di papà al matrimonio di sua figlia.
Tuttavia, come ogni figlia con un po’ d’occhio acuminato, sapevo che oltre alla
mamma c’entrava anche un’altra donna: Sue Clearwater, la nuova fidanzata di
papà. L’avevo conosciuta nei due mesi in cui ero tornata a Forks per un infarto
scampato di Charlie. Si era presentata ogni giorno alla porta di casa con una
nuova pietanza tra le mani, tutte che stranamente collimavano con i
gusti di papà, finché una sera lo stesso Charlie non l’aveva obbligata a
restare a cena e, di soppiatto nella cucina, lui l’aveva baciata sulle labbra
trattenendola dalla nuca mentre lei arrossiva vistosamente. Il mio petto,
silenziosamente, si era gonfiato di gioia. Papà aveva ritrovato finalmente un
po’ di felicità.
Quello era il periodo in cui avevo lasciato Mike, rifiutando la convivenza e,
cosa ancora più importante, un fidanzamento ufficiale.
Avevo pensato che se era bastata una semplice sbandata per uno sconosciuto
– un condomino medico e strampalato - a mettere in dubbio i miei sentimenti,
allora non ero assolutamente pronta per un vero e proprio matrimonio. E sebbene
fossi stata del tutto cosciente e sicura della mia scelta, inizialmente i sensi
di colpa mi avevano divorato il fegato perché lo sguardo e le parole che mi
aveva rivolto Mike prima di abbandonare definitivamente Seattle erano stati
amari e crudeli.
Ad ogni modo, il mio vero rinvigorente era stato James. Una vera manna dal
cielo. Ed ora più pensavo a James, e più mi chiedevo per quale misterioso
motivo Edward avesse suonato alla mia porta e ne avesse taciuto in seguito.
Dopo la rottura con Mike, per più di due mesi, Alice aveva trascorso gran parte
del suo tempo nel mio appartamento, eccezion fatta per Jasper e il suo lavoro.
Io, per scelta, non ero più andata a casa Cullen. Edward era l’ultima persona
che avrei voluto incontrare; ero entrata in uno stato confusionale degno di
uragano – ogni certezza era crollata al suolo - e in un certo senso,
ingiustamente o lecitamente, lo incolpavo dell’accaduto. Ma sapevo
perfettamente che la colpa non era affatto sua.
Io mi ero infatuata come una ragazzina dagli ormoni impazziti, non lui.
Avevo addirittura pensato, stupidamente, che un po’ di distanza avrebbe
freddato quel mio fermento. Ma nei quei quattro mesi a seguire, nei quali lui
aveva lavorato fuori Seattle, avevo sentito la sua mancanza. Terribilmente.
La contraddizione delle contraddizioni.
Al suo ritorno poi, avevo assunto un atteggiamento totalmente assurdo ed
infantile da lui stranamente contraccambiato: le frecciatine erano aumentate
così come le occhiatacce e le provocazioni.
Infine, dulcis in fundo, era subentrata Alice con la sua trovata, tutt’altro
che rivelatrice: il fidanzato in affitto. La permanenza in Alaska si era
rivelata esattamente l’opposto di ogni mio pronostico e le sue azioni non mi
avevano di certo aiutato a districare le mie dannate incertezze.
Mi aveva baciata e provocata anche nei momenti più insensati, quando nessun mio
familiare aveva potuto assistere e, pertanto, non c’era stato alcun bisogno di
interpretare il ruolo dei fidanzatini.
…«Ti avrei baciata anche se fossimo stati da soli.»…
Inevitabilmente il mio pensiero correva sempre e solo a lui.
Se il mio corpo aveva seguito meccanicamente zio Eleazar, esattamente come un
automa, la mente era stata altrove, concentrata su ciò che i miei occhi non
avevano abbandonato nemmeno per un istante, su Edward che, in mia assenza,
aveva chiacchierato e riso tranquillamente con James. Quasi come se quella
bizzarra tensione, inizialmente tra loro creatasi, si fosse disciolta con la
mia dichiarazione di parentela.
In effetti, quello apparentemente teso era sembrato più Edward che James, come
se quest’ultimo sapesse per certo più di quanto io avessi forse e solo
ipotizzato.
Cercai di avvicinarmi al tavolo giungendo alle loro spalle nel modo più
silenzioso possibile, in punta di piedi nonostante la musica attenuasse il
picchiettio delle mie scarpe, con l’intento di origliare un minimo stralcio del
discorso che i due uomini avevano intavolato. Edward non aveva smesso un attimo
di ridere, e ciò non poteva presagire nulla di buono considerandone l’artefice.
Quando si trattava di riportare alla luce vecchi aneddoti imbarazzanti, James
andava su di giri come un bimbo nel giorno di natale: in quei casi la sua
lingua s’allungava
«Possibile che in tutti questi anni tu non abbia ancora capito che è
impossibile fregarmi, cuginetta?»
L’occhio invece era stato sempre lungo.
Lentamente voltò il capo e sfoggiò un sorrisetto poco rassicurante, il che mi
fece pronosticare che forse aveva già spifferato più di quanto avrebbe potuto.
C’erano cose che sapeva solo lui, specie sulle mie questioni di cuore.
Afferrò al suo fianco una sedia dalla spalliera e la trascinò fino a
posizionarla nel mezzo, tra lui ed Edward. Mi accomodai scrutandoli con
meticolosa attenzione: due paia d’occhi – rispettivamente azzurri come il cielo
e verdi come il mare – erano vispi ed estremamente vivaci e le loro labbra era
così ricurve quasi da sfiorare le orecchie. Forse, a vederli bene, erano fin
troppo briosi.
Mi guardarono ancora per un attimo finché non sghignazzarono contemporaneamente
trattenendo a stento una risata molto più aperta di quella.
Sferrai un colpo sul braccio di James. «Brutto infame traditore, che cosa hai
raccontato?!»
Lui si massaggiò la parte offesa e tossicchiò camuffando altre risate. «Nulla
di compromettente, giuro.»
Giuda. Aspettavo con impazienza solo che mi baciasse una guancia.
Infatti lo fece. Si allungò stampandomi un sonorissimo bacio sulla mia guancia
sinistra. Arrossii un poco e trattenni un sorriso affettuoso. Non era il
momento di mostrarsi sentimentali anche se certi gesti mi erano mancati come
l’aria.
Sogguardai Edward, il quale continuava a fissarmi con quell’infantile luccichio
divertito negli occhi. Aggrottai la fronte, sentendomi fastidiosamente sulle
spine. Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma lo anticipai facendogli morire
le parole sul nascere. «Qualsiasi cosa ti abbia detto, non credergli. James è
sempre stato il re, delle frottole.»
Il re delle frottole sfoggiò un sorriso sornione.
Edward si raschiò la gola con un colpetto di tosse. «Quindi non hai ingoiato un
uovo crudo solo perché ti avevano detto che quello era l’unico modo per far
crescere il seno, vero?»
Ma cosa cavolo…
Per il disappunto, rischiai di soffocare all’istante. James non era solo il re
delle frottole, ma anche quello degli infami. Che razza di episodi
andava raccontando?! Lanciai un’occhiataccia a mio cugino, degna di Clint
Eastwood in un film western. «James, avevo solo otto anni!»
Quella era stata la prima ed ultima volta che mi ero fidata di Tanya.
Quale bambina non avrebbe smaniato all’idea di avere un po’ più di seno al
posto di una tavola piatta da surf? Nessuna, e nemmeno io nonostante fossi
tutt’altro che femminile. A quei tempi ero rimasta letteralmente sconcertata
quando la mia premurosa cuginetta mi aveva docilmente svelato quella
preziosissima nozione di bellezza; avevo compreso le sue intenzioni solo dopo
aver ingoiato tutto il disgustoso e giallognolo contenuto dal bicchiere perché
lei e le sue sorelline avevano riso fino a star male, come se avessero
assistito in tempo reale ad una vera e propria candid-camera..
A dispetto di quella mia precisazione, Edward continuò ineluttabilmente a
sogghignare, come se oltre all’episodio avesse collegato qualche altro suo
strambo pensiero. Infatti, aggiunse: «Beh, in ogni caso, a quante pare per te
sembra aver funzionato ingoiare un uovo crudo.»
Quella fu la volta di James: rise fino alle lacrime. La loro alleanza era quasi
insopportabile, e figurarsi che si conoscevano da meno di ventiquattro ore, non
riuscivo nemmeno ad immagine cosa avrebbero potuto combinare se fossero stati
amici da più tempo.
Tuttavia, se l’aneddoto di James non mi aveva granché imbarazzata, la
puntualizzazione di Edward invece mi aveva fatto avvampare fino alla radice dei
capelli e non per timidezza, ma semplicemente perché, nella mia mente, era
tornato a galla uno stravagante spogliarello fatto proprio davanti ai suoi
occhi.
«Di te non hai raccontato niente, eh?!» sibilai a quel fedifrago di parente.
Proprio in quell’istante, quando Kate e Garrent diedero inizio all’ennesimo
ballo al centro della pista, sopraggiunse Victoria che con un sorriso sornione
si sedette in braccio al suo futuro marito. «Cosa avrebbe dovuto raccontare,
quest’uomo che dice di esser stato un bimbo tanto ligio e silenzioso?»
Inarcai un sopracciglio. «Silenzioso, James?» Era stato il bambino più
chiassoso e sfrenato che io avessi mai conosciuto. Zia Carmen aveva sempre
sostenuto che l’esuberanza di suo figlio, tuttora come allora, compensava
quella dell’intera famiglia Denali.
Mi portai un dito alle labbra, reprimendo un risolino. «C’è un particolare che
ricordo con maggior intensità»
Lui mi inchiodò con lo sguardo del tipo ‘stai attenta a quello che dici’, ma
non avrei taciuto per nulla al mondo. Sapevo come rammollire quella sua
maschera di sfrontatezza.
Sorrisi. «Ricordo che rubasti il pettine rosa delle bambole ad una delle tue
sorelle: lo portavi sempre con te, fissato all’elastico degli slip e ogni volta
che incontravi una bella bambina fingevi di pettinarti come John Travolta.
Cercavi anche di fare l’occhiolino ma non ci riuscivi, e stringevi entrambi gli
occhi contemporaneamente.» James contraccambio il mio sorriso al ricordo - l’ego
maschile può prendere svariate direzione per la vetta – pensando che,
forse, avessi già terminato di raccontare quel particolare, ma mancava ancora
la parte più divertente e imbarazzante, almeno quanto il mio uovo crudo.
«Una volta invece hai indossato perfino la parrucca bionda di Halloween, quella
di Tanya, e le scarpe col tacco di tua madre: hai ballato sulle note di Grease
lungo tutto il corridoio. Devo dire che il ruolo di Sandy ti si addiceva di
più.» Victoria rise sommessamente, forse immaginando il suo uomo in gonnella,
che in quell’istante le pizzicava i fianchi un po’ risentito.
Ma lo scopo di quel nostro scambio di ricordi, utilizzandoli come se fossero
quasi dei contraccolpi, non era in nessun caso quello di mettere l’altro in
imbarazzo. Non c’era cattiveria, ma solo un misto di nostalgia e felicità nel
rimembrare alcuni episodi di vecchia data.
Per l’appunto James, dopo quella piccola lotta con la sua fidanzata da lui
definita ‘impertinente’, mi rivolse un dolce sorriso e strinse maggiormente la
vita di Victoria. «Quello era il giorno in cui Renée ti aveva annunciato il tuo
trasferimento da zio Charlie, ricordi?»
Per un attimo strabuzzai gli occhi ed una consapevolezza si fece strada tra i
meandri della mia mente come la riversata frettolosa di un torrente: all’epoca
James aveva potuto avere all’incirca dodici anni, un’età piuttosto avanzata per
certe sceneggiate. Lui si era ridicolizzato per me, perché avevo pianto tutto
il giorno rannicchiata in un angolo della sua cameretta.
Possibile che dopo tutti quegli anni, avessi compreso solo adesso quel suo
affettuoso gesto? I miei occhi si inumidirono e se avessi potuto mi sarei
lanciata per stringerlo forte a me fino a che le braccia non avessero urlato di
dolore. Una carezza mi fece quasi sobbalzare; la mano di Edward si era posata
sulla mia schiena. Mi rivolse uno sguardo dolce e comprensivo.
Victoria si schiarì la gola distraendoci l’uno dall’altra. «Bella, dove vi
siete conosciuti tu ed Edward?» Con quella domanda riuscì quasi a stabilizzare
l’equilibrio iniziale.
«Viviamo nello stesso palazzo.»
«E lì, vi siete incontrati per la prima volta?» chiese ancora, sorridendo in un
modo tutto affabile.
Non feci in tempo a rispondere perché Edward mi anticipò spingendosi un po’ più
in avanti. «Veramente, mi è piombata addosso il giorno del suo trasloco.»
Lo guardai a bocca spalancata, come se aspettassi da un momento all’altro che
qualche mosca facesse il suo ingresso, o magari proiettassi l’intero ricordo
come una diapositiva a mia difesa. «Non è vero! Mi sono sbilanciata, e sei
stato tu ad avvicinarti per afferrarmi prima che io finissi per terra!»
Edward ammiccò. «Appunto, grazie a me non sei caduta e non ti sei ammaccata
quel bel sederino che ti ritrovi.»
Inarcai un sopracciglio incrociando le braccai al seno. «A quanto pare non lo
hai fatto certo per galanteria.»
Lui schioccò la lingua fintamente seccato. «Avrei potuto prendere gli scatoloni
anziché te, non credi?»
Gli scoccai un’occhiataccia. «Sei insopportabile, te l’ho già detto?»
Si fece più vicino e sorrise con malizia. «Forse un paio di volte, forse anche
più. E tu comunque sei ripetitiva.»
Era così vicino che riuscivo quasi a percepire completamente il profumo
muschiato della sua pelle, contare le sue ciglia, una ad una, o ammirare quel
leggero strato di barba che gli ricopriva la mandibola.
…«Ti avrei baciata anche se fossimo stati da soli.»…
«Ti detesto.» sussurrai con un filo di voce, bramando come un’affamata le sue
labbra sulle mie e ovunque lui volesse posarle.
«Non è vero.» disse con spontaneità, spostando oltre la mia schiena alcuni
boccoli venuti in avanti. Successivamente, la sua mano restò ancora a contatto
con la mia pelle. Tratteggiò leggero con due dita l’osso sporgente della mia
clavicola.
«Sembra tanto una dichiarazione di guerra.» mormorò James dopo aver assistito
alla nostra battaglia di freccette e carezze implicite. Noi lo ignorammo.
Una dolce risata femminile. «Io direi d’amore, James. Anche tu ed io abbiamo
fatto così all’inizio del nostro rapporto.»
Un brivido salì lungo la mia schiena incentrandosi alla mia nuca.
D’amore. Una dichiarazione d’amare. A conti fatti allora, c’eravamo
amati quasi sin da subito, dal momento che quella guerra andava avanti
già da un bel po’di tempo.
Mi girai velocemente: avrei dovuto e voluto replicare, magari con qualche frase
pungente, ma nel movimento, maldestramente feci rovesciare un flute di prosecco
sul tavolo. Il liquore si riversò completamente sulla tovaglia e sulle mie dita
quando cercai di evitare il disastro. Edward mi porse una salvietta
sogghignando. Il suo sguardo fu più che eloquente.
«Non fiatare.» sibilai, ma un sorriso sfuggì al mio controllo.
Ricordavo ancora quando una volta gli avevo versato un intero bicchiere di vino
addosso macchiandogli la sua camicia preferita perché mi aveva dato della ‘burattina
nelle mani di uno idiota’. Nell’ultimo litigio prima della sua partenza da
Seattle.
E mentre io cercavo di pulirmi alle bell’e meglio con la salviettina, vidi Kate
sbracciarsi e sventolare il suo mazzo di fiori informandoci dell’imminente ed
ennesimo intrattenimento matrimoniale: il lancio del bouquet. Il matrimonio non
sembrava mai trovare fine. Un motivo in più per odiarlo: oltre ai vestiti
pomposi e scomodi e privi di praticità da indossare, la lunghezza dei
festeggiamenti stessi.
Victoria seguì il mio sguardo e con uno sbuffo si alzò in piedi tamburellando
sulla mano di James incollata al suo pancione.
«Bella, tu vieni con me, vero?» Si lisciò il vestito color malva sui fianchi.
«Fortunatamente il matrimonio è quasi finito. Sono stanchissima.»
Ormai era sera: le stelle brillavano alte nel cielo scuro del crepuscolo e
nell’aria si sentiva la tipica frescura estiva dei luoghi di mare. La pelle
delle braccia era piacevolmente fresca, se non addirittura fredda.
A mia volta mi alzai con lo stesso identico sbuffo emesso da lei qualche attimo
prima. «Se vuoi, possiamo restare qui al tavolo.»
Lei ridacchiò dolcemente. «Non mi tentare, Bella. Facciamo quest’ultimo sforzo.
Non siamo maritate e purtroppo ci tocca.»
Victoria si era presentata come una ragazza alla mano: simpatica, spigliata e
solare. Palesemente titolare delle tre ‘s’, le principali qualità che avrebbero
fatto capitolare un qualsiasi uomo dalla cresta lunga e dura come quella James.
Quest’ultimo le baciò velocemente, ma pur sempre preso e con totale devozione,
una mano. «Vic, cerca di non prendere il bouquet così non sarò costretto a
sposarti.»
Lei con la stessa mano gli diede un buffetto sulla guancia. «Contaci, amore. E
se eventualmente arriva tra le mie braccia lo passo subito a Bella.»
Tossicchiai ed Edward rise sotto i baffi. Un finto fidanzamento, per quanto
incasinato, a suo modo era fattibile ma un finto matrimonio era letteralmente
inconcepibile.
Edward mi lanciò uno sguardo divertito. «Dovrei già sposarti per la partita a
scacchi, non infieriamo pure col bouquet.»
Il mio sguardo si accese di sfida. «Non preoccuparti, amore, al massimo
trovo qualcuno disposto a sposarmi entro l’anno. Magari… potrei sempre
chiederlo a Mike»
Fui pienamente compiaciuta di quel suo proverbiale sopracciglio visibilmente
inalberato.
***
Se è vero che agli uomini bastano pochi secondi per spogliarsi ed infilarsi in
un letto, e non solo in senso metaforico o affettivo, è altrettanto vero che le
donne in certe occasioni sono tutt’altro che veloci, a meno che non sia
la passione a prevale su entrambi i sessi, perché in quel caso i vestiti non
verrebbero semplicemente sfilati, ma strappati, perfino con i denti e non si
perderebbe nemmeno una briciola di tempo in bagno per quisquilie femminili.
Questo, per l’appunto la prima parte, fu uno dei motivi per cui, io e Victoria,
disertammo l’ultima parte dei festeggiamenti lasciando Edward e James a bere
l’ultimo drink della serata e disquisire affabilmente su argomenti tipicamente
maschili, aventi lo sport come testa e le auto come coda (il sesso nel mezzo).
Perciò, una volta sopraggiunte al piano superiore, raggiungemmo le nostre
camere da letto, non molto distanti l’una dall’altra, augurandoci
reciprocamente la buonanotte.
Con l’intento di sfilarmi di dosso quell’abito da cerimonia, ero entrata nel
bagno chiudendomi la porta alle spalle lasciando ancora una volta la chiave sul
mobiletto; una parte di me sperava quasi in un’improvvisa apparizione di Edward
con tanto di avviluppamento e arrancata sino alla doccia.
Ero perfino riuscita a sciogliermi da sola l’insidiosa acconciatura, togliendo
gli innumerevoli ferretti, anche se una volta liberi, i miei capelli,
somigliavano ad una gigantesca criniera leonina fresca di permanente: una vera
e propria cascata di voluminosi ricci.
Purtroppo, era l’abito, quello che mi aveva dato del filo da torcere: avevo
combattuto coraggiosamente con la cerniera lampo per più di dieci minuti,
sebbene quella non avesse mostrato alcuna intenzione di collaborare. Ad ogni
strattone la stoffa s’arricciava frenandone la calata.
Pensai a Victoria e al suo, di abito, in seta e privo di cerniere o fronzoli
inutili; magari avrebbe potuto darmi una mano con quest’arnese infernale. Avevo
già capito l’antifona: era una battaglia persa in partenza.
Quando uscii dal bagno provai anche a slacciarmi la collana ma il gancio era
ingarbugliato con alcune ciocche di capelli. Infastidita, sbuffai: oltre alla
cerniera, ci si mettevano anche i gioielli.
«Problemi?»
La voce di Edward giunse improvvisa alle mie orecchie. Alzai lo sguardo e lo
ritrovai a ridosso della porta finestra senza giaccia, con il colletto aperto e
la cravatta allentata, intento a sbottonarsi i polsini. Aveva spento i faretti
incassati nel soffitto: la stanza era scesa nella penombra rischiarata solo
dalla fioca luce di un’abatjour. I suoi capelli in alcuni punti sembravano
bagnati dalla luna che alle sue spalle brillava alta e fulgida nel cielo
notturno, in altri, invece, umidi dalla stessa notte per quanto all’apparenza
sembrassero scuri. I tratti del suo viso erano distesi, sciolti come se fosse
totalmente avvolto da un’aura di bizzarra e sensuale tranquillità.
Sorrise in modo vagamente malizioso. «Bella, ti serve una mano?»
Ero rimasta inebetita a fissarlo per chissà quanto tempo, senza realmente
rendermene conto, proprio come nei nostri primissimi incontri, conquistata dal
suo fascino. In tutti quei mesi ero riuscita a fare dei passi in avanti, ma in
quella settimana ne avevo compiuti altrettanti indietro, se non di più.
Con una mano stranamente tremante indicai la mia schiena. «Non riesco a… a
tirare giù la lampo del vestito e sciogliere la collana.»
L’imbarazzo, esattamente l’ultima cosa di cui avevo bisogno, formava un’irreale
e sottile patina sulla pelle, mentre la frenesia era ineluttabilmente radicata
alle ossa, nelle fibre, impossibile da svestire, impossibile da levare.
«Girati» sussurrò con voce roca e gutturale facendosi più vicino.
Mi voltai e con una mano alzai dalla schiena i miei capelli per facilitargli il
lavoro.
Inizialmente percepii una leggera sollecitazione alla cerniera lampo, poi
qualcosa di freddo – le sue dita – a contatto con la mia pelle. «E’ inceppata.»
spiegò spingendo delicatamente con i polpastrelli tra le mie scapole.
Con Edward avevo sempre avuto uno strano senso di inadeguatezza, come se avessi
sempre dovuto creare io stessa la propulsione per una determinata situazione,
ma quella sera la sensazione era diversa. Forse non avrei avuto bisogno di
alcun pretesto per avvicinarlo: probabilmente lo avrebbe fatto anche se non
avessi trovato difficoltà con il mio abito.
Mi raschiai leggermente la gola. «Hai le mani fredde.».
Con le dita premute sulla mia pelle, riuscì a tirare giù la lampo con calma,
come se volesse osservare ogni porzione di epidermide che man mano veniva
scoperta – o magari, semplicemente, speravo che fosse quello il vero motivo di
artefatta lentezza. «Scusa, non sono abituato alle temperature dell’Alaska, e
sinceramente non sono sicuro di volermici abituare.»
Un dito scivolò dalla nuca alla base della mia schiena, segnandone ogni
vertebra esposta.
La sua non era lentezza. Ma concupiscenza.
Fermai in tempo la calata del vestito sul davanti bloccandolo sul seno con la
mano libera. Ero così distratta da scordarmi persino i gesti più naturali,
quelli più pudichi.
«Ti sciolgo anche la collana?»
«Oh.» esclamai con un risolino nella voce. «Questa mattina mi hai chiuso
l’abito, sebbene non fosse questo, e mi hai agganciato anche la collana. Il
servizio è incompleto, non credi?»
«Hai ragione.» rispose Edward ridacchiando appena. «Perdona la mia mancanza.»
Frasi sensuali e beffarde, parole morbidamente sussurrate: un innato e
inguaribile gioco di seduzione.
Le sue dita sfioravano appena la mia nuca e tiravano deliacamente i capelli
incastrati nel gancio. C’era una squisita calma nella stanza, caratterizzata
unicamente dai nostri sospiri – il mio astrusamente più veloce.
Avevo quasi il timore che, la tensione, da sensuale potesse oltrepassare quella
linea sottile e trasformarsi in un imbarazzante silenzio. E in effetti qualcosa
di impellente e importante da dire c’era. Dovevo solo trovarne il modo. Per cui
tirai un profondo sospiro ed iniziai a parlare
«Allora» mi schiarii la voce. «Sono in debito con te, non trovi?»
Lui ridacchiò. «Per il servizio completo in merito alla collana e al vestito?
Beh, sì, direi proprio di sì.»
Risi spostando tutti i capelli sul lato destro; il braccio cominciava a dolore
dallo sforzo. «No sciocco, non mi riferivo a quello.»
Edward sospirò e fermò un dito per un istante sulla mia nuca. «Lo so a cosa ti
riferivi.» Nel tono non c’era stata alcuna traccia di accusa. Riprese a
sciogliere il nodo tirando appena un capello dalla radice.
«Suppongo che al ritorno dovrai uccidere Alice. Questa settimana per te deve
essere stata proprio un bel cambio di programma.» Mi morsi le labbra avvertendo
un poco d’ansia. «L’hai trovata così noiosa?»
«Al contrario. Direi…» Da parte sua ci fu una lunga pausa, silenziosa e tesa:
un respiro trattenuto, poi rilasciato quasi bruscamente. «…piuttosto
illuminante.»
Illuminante: insolita definizione.
«Illuminante.» meditai. «Per te o per me?» domandai poi con un filo di voce ed
una curiosità emozionante.
Edward sopirò. «Chissà… forse per entrambi.»
La sua risata, improvvisa e sottile, vibrò nell’aria. «Mettiamola così: le tue
considerazioni sono sempre le stesse?»
Alice tutto potrebbe sembrare tranne il mio fidanzato.
Edward, date le tue esperienze, non credo che tu possa essere definito un
perfetto fidanzato.
…se mi fai passare per la stupida della situazione ti ammazzo con le mie
stesse mani.
I pregiudizi sono i paraocchi e i tarli della mente: ne limitano e ne
distorcono fastidiosamente i pensieri. C’è soddisfazione o rassegnazione quando
questi risultano esatti e lo si manifesta a gran voce; c’è invece imbarazzo e
pentimento quando accade l’esatto contrario e confessarlo risulta più che
improbabile.
Come semplici e friabili biscotti al burro, i miei pregiudizi erano stati
sgretolati senza alcuno sforzo dalle sue mani.
A volte si camuffano anche in scudi con cui difendersi, armi con cui
contrattare, o appigli a cui aggrapparsi per non scivolare lungo un pendio
sconosciuto – foderato da spine o petali, o da intere rose in tutta la loro
morbidezza e nocività.
Lo avevo mal giudicato per un gesto di autoconservazione, per sfuggire da lui e
da tutto quello che all’apparenza gridava instabilità, autoconvincendomi che
fosse immaturo e fin troppo volubile come uomo, l’ultimo di cui potessi e dovessi
mai innamorarmi.
Il primo di cui mi ero totalmente innamorata.
Le mie considerazioni erano decisamente cambiate, ormai senza alcun dubbio.
Ora, con un po’ di coraggio e orgoglio sepolto, avrei dovuto solo raccogliere
quelle briciole e, a palmo aperto, mostrargliele.
Inspirai profondamente congiungendo le mani sul mio grembo. «Mi sono sbagliata
sul tuo conto: non sei lo sbruffone che credevo tu fossi.»
Lui rise allegramente. «Sbruffone? Da te mi sarei aspettato
qualche epiteto più colorito. Di solito non sei così delicata.»
Lo ringraziai mentalmente per aver alleggerito la tensione.
«E adesso te lo saresti pure meritato!» Gli diedi una leggera gomitata nello
stomaco smorzandogli un’imprecazione divertita dalle labbra. «Accidenti,
e pensare che a volte riesci a fare anche la persona seria.»
Edward sogghignò ancora facendosi d’un tratto più vicino: poggiò una mano sul
mio fianco e incollò il suo busto alla mia schiena. Poi sentii la sua mano,
quella libera, sfilare languidamente la collana dalla mia gola e strisciarla
sulla mia spalla per poi allungare il braccio e abbandonare il gioiello sul
copriletto.
«Anch’io mi sono sbagliato» mormorò ad un soffio della mia pelle. Lo sentii
inspirare profondamente. «Sono giunto a troppe conclusioni affrettate.»
Cuginetta?
Sì, è mio cugino.
Ho fatto la figura dell’idiota, vero?
Sicché non ero stata l’unica ad aver fatto delle considerazioni errate; ognuno,
a modo suo, aveva sbagliato. C’erano state fin troppe incomprensioni, e ce ne
stavamo rendendo conto solo ora. Ma non era tardi. Chi più o chi meno, presto o
tardi, ormai non aveva importanza.
Sussultai lievemente quando percepii il suo fiato infrangersi sulla mia spalla,
un bacio soffiato caldo e morbido come una carezza di velluto. I brividi si
spansero come onde a pelo d’acqua dovute da un sassolino lanciato in mare. Un
sospiro uscì dalle mie labbra dischiuse, e a nulla valsero i miei sforzi per
trattenerlo. Un’evidente ostentazione di abbandono.
«Si può sempre rimediare.»
Le mie parole si dispersero docilmente nella stanza senza trovare alcuna
risposta perché ,quando girai il capo per cercare i suoi occhi, le sue labbra
furono subito sulle mie, come se aspettasse quella mia mossa già da tempo. Quel
bacio, che sapeva quasi di disperazione, risvegliò brutalmente ogni mia
particella forzatamente sedata, spogliandomi dall’imbarazzo e lasciando spazio
solo alla frenesia che, da un momento all’altro, aveva preso il sopravvento.
Quando mi alzai sulle punte per avvicinarmi maggiormente a lui, un suo gemito basso
e gutturale, un misto di liberazione e abbandono, si sciolse nelle mia bocca
mentre la stretta alla mia vita si accentuava fino a diventare quasi dolorosa,
in modo piacevole; l’altra sua mano risaliva lungo il collo fermandosi sulla
mia guancia trattenendo il mio viso riverso, come se ce ne fosse bisogno, come
se io non stessi facendo altrettanto con le mie, di mani: una, salda e ancorata
alla sua nuca con le dita intrufolate nei suoi capelli, e l’altra sulla sua
arpionata al mio fianco.
Un bacio strano, dolce, passionale e travolgente, che si prolungò nel tempo
accrescendo sempre più di intensità, foggiato dai nostri corpi attorcigliati
come due scale a chiocciola intrecciate. Un bacio al retrogusto di wisky e
crema pasticciera. Con la mia testa inclinata, la sua lingua aveva potuto
raggiungere i più piccoli punti inesplorati del mio palato, della mia gola, dei
miei denti.
Mi girai solo quando avvertii l’impazienza di toccarlo fremere nelle mie mani,
un bisogno quasi insostenibile. Ma non mi allontanai nemmeno in quel caso
perché lui non me lo permise. Ruotai nel suo abbraccio ritrovami col petto
completamente schiacciato al suo.
Mi aggrappai alla sua cravatta e con mani febbrili gliela slegai gettandola sul
pavimento. Un gesto significativo, carico di sottintesi e di consensi
silenziosi niente più freni né inibizioni.
Ero lì, tra le sue braccia, e nulla intorno aveva più consistenza né
importanza. Nessuna riflessione né sul passato né sul futuro, né su ciò che
sarebbe accaduto il giorno dopo, o quello dopo ancora. Solo noi.
Con indicibile impazienza slacciai i bottoni della sua camicia non prima
che lui la tirasse fuori dai pantaloni. Edward continuò a baciarmi il viso: le
guance, gli zigomi, gli occhi, per poi soffermarsi sul mio collo e lasciarmi,
intenzionalmente, tutto il tempo e lo spazio necessari per denudarlo. La
camicia scivolò oltre le sue spalle e lungo le sue braccia vigorose.
Con curiosità carnale saggiai la consistenza della sua pelle: liscia,
soda e vellutata sotto le mie mani tremanti. Conoscevo i suoi gusti, le sue
preferenze ma il suo corpo era per me un territorio totalmente inesplorato Ad
ogni carezza Edward socchiudeva gli occhi, al di sotto delle mie dita i suoi
muscoli guizzavano e il suo respiro diveniva sempre più frenetico. Quelle sue
reazioni causarono in me un senso di potere, un orgoglio tutto femminile che mi
portarono a sentirmi bella e desiderabile a suoi occhi.
Con altrettanta impazienza lui abbassò l’unica bretella del mio vestito
stoicamente aggrappata alla mia spalla. Come una cascata nella notte, l’abito
blu si riversò sul pavimento insieme alla mia volubile audacia. Il primo
istinto fu di chiudere le palpebre, ma non ne fui in grado perché la prima cosa
che lui fece, non fu guardare il mio corpo seminudo, ma tenere i suoi occhi
inchiodati ai miei. Solo dopo, quando la voglia di essere guardata fu anche mia,
con altrettanta curiosità, così carnale da incendiare la mia pelle
nemmeno fosse stata steppa arida, studiò il mio corpo con uno sguardo bruciante
di desiderio. Le sue dita vagarono sulla mia pelle ancora coperta di pizzo, e
sospiri spezzati uscirono dalle mie labbra. Poi, inspiegabilmente, si sedette
sul letto attirandomi tra le sue gambe. Con le mani ancorate ai miei fianchi, e
le mie intrufolate ancora una volta nei suoi capelli, aspirò la mia pelle
dall’ombelico allo sterno in una carezza lenta e intima. Un decelerazione
volontaria, come se stesse frenando ogni suo istinto primordiale e
sfacciatamente maschile per darmi tutto il tempo di comprendere ciò che sarebbe
accaduto di lì a poco.
Avrei voluto dirgli ‘non trattenerti, amore, perché l’urgenza che tu
senti la condivido anch’io’, ma anziché parlare e rischiare di dire
qualcosa di inappropriato, glielo feci intendere tuffandomi sulle sue labbra
con struggente avidità. Quella fu la proverbiale goccia di passione che
fece traboccare il vaso. Afferrandomi dalla vita, si stese sulla schiena
trascinandomi su di lui per poi rotolare lateralmente e invertire le posizioni.
Ancora impazienza.
Tutto ciò non fu pelle, e d’intralcio ai nostri corpi, venne annullato. Ci
sfilammo i vestiti con un’impellenza tale da rendere i movimenti quasi goffi.
Un groviglio di mani frenetiche e indumenti svolazzanti. Una mia risatina e
un’occhiata divertita da parte sua quando i suoi pantaloni si incespicarono
nelle nostre gambe intrecciate.
Ancora curiosità.
Intreccio e lusinghe di lingue e di sguardi, scontri di denti e di nasi, morsi
di labbra morbidi e forti al limite del dolore. Baci infuocati, intimi,
appassionati, impudichi e irrefrenabili in ogni parte del mio corpo. Laddove
rabbrividivo lui succhiava, come a voler catturare con le labbra quel piccolo e
visibile tremito a fior di pelle.
Con l’incolta e sottile barba mi solleticò lo stomaco, la pancia, l’interno
delle cosce e lo spazio tra i seni consapevole di ciò che lui e quella
parte di lui erano in grado di provocarmi: gemiti e brividi e mancamenti.
Edward aveva sorriso più di una volta. Ma quel suo sorriso non sembrava affatto
di compiacimento, bensì di complicità.
Le sue carezze, di mani e di occhi, furono morbide sulla mia pelle scoperta,
voluttuose sul mio seno, vigorose sui miei fianchi e impudiche dove i nostri
corpi si scontravano ritmicamente con impazienza.
Ancora passione.
Un incastro intimo così armonioso che sembrò quasi irreale. Quelle sue spalle
così larghe e ponderose mi diedero un vero senso di protezione. Le mie gambe
allacciate al suo bacino e le sue mani incollate alle mie natiche per affondare
più in profondità; od io tirata su a sedere, issata sulle sue gambe di poco
piegate con le mie invece attorcigliate alla sua vita: le nostre mani premute
sulla rispettiva schiena dell’altro pressando fino ad illuderci di divenire un
tutt’uno anche con la pelle. Petto contro petto. Cuore contro cuore.
Ancora ed ancora passione.
Ad ogni spinta fu una goccia di sudore spillata, un battito cardiaco mancato,
un bacio rubato, un ansito pronunciato, uno slancio verso il paradiso e un
brandello di anima remissivamente ceduto. Toccammo l’apice allo stremo della sopportazione,
allo stremo delle forze, stringendoci l’uno all’altro così forte da smorzarci
il respiro, la sua testa sepolta tra i miei seni imperlati di sudore.
Tenerezza.
Edward continuò ad accarezzarmi la schiena, le braccia e i fianchi -
nemmeno fossi diventata d’un tratto tenera e fragile come un cristallo –,
e a baciarmi i capelli , il naso e palmi delle mani anche dopo l’amplesso,
quando ormai non sembrava più essercene bisogno. O perlomeno, quello era sempre
stata una mia stupida convinzione, che dopo il sesso non fossero necessari
altri gesti.
Ma questa volta, per me, non era stato affatto solo e semplice
sesso.
Amore?
Mi addormentai tra le sue braccia che, calde e possessive, mi strinsero per
tutta la notte al suo fianco cullandomi deliziosamente in quell’abbraccio che
sapeva ancora di noi e dell’amore appena consumato.
E sebbene mi avesse trattenuta a lui per tutta la notte, all’albeggiare
del giorno seguente stranamente mi risvegliai ritrovandomi un poco distante da
lui, quel tanto da distanziare i nostri corpi l’uno dall’altro. L’unica notte
in cui avrei potuto ancora travolgerlo, mi ero inspiegabilmente allontanata. Ma
non del tutto, perché Edward, ancora una volta me lo aveva impedito tenendosi
attaccato con una mano alla mia vita, come ad accertarsi della mia presenza al
suo fianco.