Cercavi giustizia, hai incontrato me
Host
Troppo.
Quando
finalmente riuscii a riprendere i sensi, quello che sentii fu troppo.
Un ronzio
ininterrotto nelle orecchie, un pulsare ritmico alle tempie. L’odore di
sangue nell’aria.
E la cosa più fastidiosa
era probabilmente la certezza che il sangue fosse il mio.
Impiegai diversi
minuti a convincere il resto del mondo a fermarsi. Quindi,
con tutte le difficoltà annesse, tentai di mettermi a sedere.
Una volta
riuscitoci, mi ritrovai a dover discutere di nuovo con il mondo: ma perché non
la smetteva di girare, porca miseria?!
Mugugnai,
chiudendo gli occhi.
Perché tutte a
me? Perché?!
Riaprendo
lentamente le palpebre, lanciai un’occhiata prudente alla strada:
deserta. Mancava poco alla fine dell’isolato e ancora meno al mio
ufficio, eppure l’idea di camminare, in quel momento mi sembrava assurda.
Lasciai che lo sguardo indugiasse sulle macchie rosse che imbrattavano la
strada. Non erano ben visibili: rischiarate appena dalla luce del lampione alle
mie spalle.
Erano però
numerose macchie, il che significava tanto sangue.
E se quel sangue
era mio, la domanda sorgeva naturale: perché non mi sentivo dilaniare dal
dolore?
Incerto della
mia stessa decisione mi alzai in piedi, le gambe divaricate e le mani sulle
ginocchia, cercando di non sbilanciarmi e rimanere approssimativamente eretto.
Avvertii chiaramente il pulsare alla testa che aumentava, mentre un dolore
sordo allo stomaco si faceva sentire per la prima volta. C’era però
qualcosa che non andava: il viso, ecco cosa.
Era come se
fosse tutto sotto anestesia, il che non andava bene per niente.
Sollevai una
mano, l’intenzione di sfiorare la prima zona sopra il collo, ma
all’ultimo cambiai idea.
Meglio
aspettare, decisi. Che fosse per codardia, per premura o per qualunque altra
cosa.
Presi un bel
respiro, il cervello che cominciava a carburare e m’incamminai.
Normalmente
impiegavo poco più di cinque minuti a percorrere la distanza che mi separava
dall’ultimo palazzo.
Normalmente
quella stessa distanza la percorrevo in silenzio.
Non fu così.
Impiegai quasi
venti minuti e non un solo secondo riuscii a godere il silenzio che mi
avvolgeva.
Fra un inciampo
e uno sbilanciamento, fra una pausa e l’altra, tutto quello che sentii fu
una vocetta stridula e soddisfatta. Una vocetta orgogliosa, vincitrice.
Una vocetta che
non faceva altro che rinfacciarmi i miei errori: dall’aver colpito Mike
all’aver offerto un gelato a Bella. Errori, errori,
nient’altro che errori.
E aveva ragione.
Non potevo che
darle ragione. Annuivo fra me e me, concordavo, acconsentivo.
Quasi non mi
accorsi di essere arrivato davanti al portone del palazzo: immerso in una
penombra sconcertante, rischiai anzi di sbatterci contro. Quando vidi la
maniglia tanto familiare fissarmi perplessa capii di aver raggiunto la mia
meta. Misi solo un piede sullo scalino, le dita che frugavano nelle tasche alla
ricerca disperata delle chiavi e fu per grazia divina che le trovai.
- Leggermente brillo, avvocato? -
Trasalii, colto
alla sprovvista ed arretrai d’istinto, finendo
con il battere la schiena contro il muro.
Mi accorsi solo
in quel momento della figura seduta sullo scalino, poco lontano da me: non
riuscivo a distinguerne i tratti, sapevo soltanto che non mi andava di parlare.
- Ha bisogno di
una mano? -
La voce, non
potei fare a meno di costatare, era senza alcun dubbio
femminile: dolce, pacata, volutamente voluttuosa.
Non c’era
alcun cenno di minaccia in quella voce, ma solo interesse, premura e sfida.
Scossi la testa,
girando le chiavi nella toppa ed abbassando finalmente
la maniglia.
Entrai nel
palazzo, facendo per chiudere la porta ma la mano di lei
me lo impedì, poggiandosi sul vetro e spingendo per aprire.
- Ho bisogno di
parlare con lei, avvocato -
- Io invece non
ne sento il bisogno, le assicuro –
Cercai ancora di
chiudere, ma lei oppose resistenza.
- Per favore -
Supplica. Era
come se mi stesse pregando. Lasciai andare la porta, stanco
di spingere. Le forze che lentamente sembravano abbandonare il mio corpo.
Lei entrò,
chiudendosela alle spalle.
Ancora
stordito, iniziai a
salire le scale. Quattro rampe, mi ripetevo: sono solo quattro rampe.
La porta
dell’ufficio mi apparve dinanzi come un miraggio: sollevato all’idea
di rientrare finalmente in un luogo sicuro, feci gli ultimi scalini con
slancio.
Fu con
impazienza che mi fiondai all’interno della stanza: le chiavi ancora in
una mano e le dita strette attorno alla maniglia.
Una parte di me
avrebbe voluto poter crollare a terra e baciare il pavimento.
Conscio solo
vagamente della presenza alle mie spalle, lasciai la porta aperta dietro di me.
Gettai le chiavi sul primo piano orizzontale e mi avviai verso il bagno, senza
curarmi di accendere le luci.
Conoscevo quei
luoghi a menadito, non avrei potuto sbagliare.
Con un calcio
ben assestato aprii la porta del bagno, avvicinandomi cauto al lavandino.
Sempre senza
accendere la luce mi guardai attorno, senza sapere cosa fare.
- Problemi? -
La voce
proveniva dalla mia sinistra: con la coda dell’occhio individuai la
ragazza poggiata allo stipite della porta e mi strinsi nelle spalle.
Ignorandola, arrotolai le maniche della camicia fino ai gomiti e presi un bel
respiro.
Il cuore in gola,
le mani aggrappate al lavandino, accesi con un dito la luce sotto lo specchio.
La stanza si
rischiarò lentamente, dandomi modo di vedere pian piano i tratti del viso che
stentavo a riconoscere come mio.
Un fischio
soffocato partì dalla mia indesiderata ospite.
- Sei messo
proprio male – mormorò, la voce che si affievoliva.
Non risposi, limitandomi a
guardare con sconcerto il mio volto riflesso nello specchio appannato.
Porca Eva, come mi avevano
ridotto…
Un occhio
violaceo e tumefatto, il labbro inferiore spaccato, lo zigomo gonfio e il naso
sanguinante.
Come diavolo era possibile
che non sentissi assolutamente niente dal collo in su?
Sconvolto, aprii il
rubinetto dell’acqua fredda e la lasciai scorrere per qualche minuto.
Sarebbe stato il caso di farmi vedere da un medico?
Sgranai gli occhi, il
pensiero che andava a Carlisle senza neanche passare per il via: cosa avrebbe
detto Carlisle? Trattenni il respiro, sentendo già nelle orecchie le urla che Esme avrebbe cacciato. No, non potevo assolutamente
presentarmi da loro in questo stato.
Poco ma sicuro, avrei dovuto
aspettare un bel po’.
Mi piegai sul lavandino,
sciacquando per prime le mani. Le riempii di sapone alla vaniglia, il mio
preferito, e ripetei l’operazione diverse volte,
prima di trovare il coraggio di passare al viso.
Lo sciacquai lentamente, con
attenzione. Cercai di togliere tutto il sangue, sia fresco che
rappreso.
Impiegai più dieci minuti e
fu con sollievo che sentii il volto riprendere sensibilità.
In quel momento la
sensibilità equivaleva al dolore, ma era sicuramente meglio così.
- Cos’è, hanno cercato
di rovinarle quella bella faccia d’angelo che si ritrova? -
Afferrai
l’asciugamano alle mie spalle e mi voltai verso di lei. Tamponandomi con
prudenza, cercai di asciugarmi ed al tempo stesso di
non toccare zone lese.
Mi sembrava impossibile:
ogni punto che toccavo bruciava come se la stoffa fosse un tizzone ardente. Con
una smorfia l’allontanai dal viso.
- Cosa
vuole da me? – chiesi, frustrato e
contrariato.
Non avevo più neanche il
diritto di soffrire in santa pace, porca miseria!?
- Un lavoro -
Sgranai gli occhi,
puntandoli immediatamente su di lei.
Avevo capito bene?
La osservai da capo a piedi,
chiedendomi se le allucinazioni non fossero un effetto dovuto al recente
pestaggio.
La figura slanciata ed
esile, vestiti ricercati, lunghi capelli biondi e labbra carnose in un viso
sottile e decisamente attraente.
Indugiai senza rendermene
conto sulle curve della ragazza, furono poi le sue parole a riportarmi alla
realtà.
- Mi sono laureata in legge
– cominciò, fissando sicura gli occhi azzurri nei miei – Ciò che
più desidero è diventare un avvocato. Lei è il migliore e lo sa bene -
Si fermò solo un attimo, le
labbra che le tremavano.
- Voglio imparare da lei
– sentenziò, un sorrisetto appena visibile sul
volto teso e concentrato.
Sorrisi, incredulo a quelle
parole, scuotendo impercettibilmente la testa.
- Non se ne parla - dichiarai, la voce dura.
- Non deve pagarmi –
sussurrò lei, il dubbio che le s’insinuava nello sguardo – Sarebbe
solo un tirocinio –
Scossi la testa, mentre una
fitta di dolore mi costringeva a serrare le labbra.
- Sono disposta a lavorare
come segretaria, come assistente… quello che vuole – provò ancora
lei.
Feci per dire qualcosa ma il
sapore di sangue sulla lingua mi bloccò.
Con la coda
dell’occhio mi osservai allo specchio: il labbro aveva ripreso a
sanguinare.
Avvicinai titubante
l’asciugamano alla bocca, timoroso di procurarmi soltanto nuovo dolore,
quando la mano piccola ed elegante della ragazza mi fermò il polso.
Mi tolse il panno dalle
mani, avvicinandosi e sollevandosi sulle punte per potermi guardare meglio.
- Ci penso io –
sussurrò, il fiato che mi solleticava il mento.
Un sorriso appena accennato
sulle labbra, mi tamponò il labbro senza che sentissi
alcun dolore.
- Non mi sono presentata
– disse, puntando gli occhi nei miei.
Non mi mossi, lasciando che
mi poggiasse una mano sul braccio.
Si avvicinò ancora di un
passo e poggiò le labbra sulla mia guancia, parlandomi nell’orecchio:
- Rosalie – bisbigliò,
facendomi rabbrividire – Rosalie Hale -
Socchiusi gli occhi, la
mente che si svuotava.
Non riuscivo a collegare i
pensieri, a trattenerli… fuggivano via, infischiandosene di me.
Avrei dovuto capirlo che non
era un bene, così come avrei dovuto accorgermi del
rumore di una porta che veniva spalancata.
*
Ed ecco
il nuovo capitolo!
Dite la verità, sono stata veloce? ^^
Mmm… da dove comincio?
Per prima
cosa vorrei ringraziarvi tutti ** Mi aspettavo di essere linciata e invece, ricevo
più commenti di quanti ne abbia mai ricevuti *__*
Stavo per
piangere, ragazze, lo sapete? Siete riuscite a farmi
commuovere ^^
Ho
risposto a tutte, come potete vedere o nella vostra posta o nella pagina
recensioni, e devo ammettere che ringraziarvi all’infinito non sarebbe
sufficiente. Siete state fantastiche, uniche, magnifiche!
Spero di
risentirvi, di sapere cosa ne pensate, voi e i tanti altri lettori silenziosi =)
Ancora
grazie e un bacione a tutti,
Sara